Il gioco d’azzardo patologico

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Group of senior friends playing cards in the nursing home and having fun

Giochiamo tutti e tutti amiamo giocare. Il gioco è anzi un elemento sostanziale del nostro apprendimento, e percorre insistente le strade della nostra infanzia e della nostra adolescenza, elemento fondamentale del nostro apprendimento. Come dice il Vocabolario della lingua italiana di Zingarelli, il gioco è “Ogni esercizio compiuto da fanciulli e adulti per ricreazione, divertimento o sviluppo di qualità fisiche e intellettuali”. La passione per il gioco ha da sempre accompagnato la storia dell’uomo, come documentato nelle antiche civiltà egizia, cinese, giapponese, indiana e persiana. I maschi delle tribù germaniche rischiavano, in vari tipi di gioco d’azzardo, tutti i loro averi, le mogli e perfino la libertà personale. Considerazioni morali, reli­giose ed economiche hanno portato a giudizi diversi, spesso opposti, che andavano dall’accettazione al rifiuto, a seconda del periodo storico, delle società esaminate e del tipo di gioco in questione. Il gioco, insomma, fa parte della nostra vita. Da sempre.  Il problema è che non tutti i giochi sono gli stessi. Ci sono giochi che usi per relazionarti con gli altri, per cooperare o per costruire assieme. Ci sono giochi agonistici, nei quali tu tenti di vincere l’avversario per una motivazione sportiva, e per una gratificazione interiore, legata ad addestramento severo e ad impegno. Ci sono giochi nei quali le motivazioni sono diverse: il puro desiderio di vincere per vincere, di affermarti per affermarti. Ci sono giochi nei quali la tua esigenza di vincere è legata a precisi interessi, interni o esterni. Questi sono i giochi d’azzardo, dove l’abilità acquisita o l’impegno nel gioco dipendono direttamente da bramosie di guadagno, sia economiche, sia psicologiche. Ed è a questo punto che il gioco può diventare un non gioco, non più un comportamento normale, ma una vera malattia. In italiano non abbiamo una forte distinzione fra gioco normale e gioco patologico. Gli inglesi usano, giustamente, due termini: “play” e “gambling”. “Play” si riferisce ad un gioco in cui esistono precise regole, ma in cui è determinante al fine della vincita l’abi­lità del giocatore, la sua capacità al gioco, acquisita con l’esperien­za: l’accento è quindi posto sull’abilità e le competenze al gioco. “Gambling”, invece, viene tradotto come “gioco d’azzardo”. Il termine “azzardo” deriva dal francese “hasard”, che a sua volta deriva dal termine arabo per dadi, “zarah”. Anche in questo caso esistono regole precise, ma ciò che determina l’esito del gioco non è tanto l’abilità del giocatore o le sue passate esperienze di gioco, quanto piuttosto il caso. Vi è una posta e vi è la possibilità, determinata dal caso, di perderla o guadagnarla. Il gioco d’azzar­do è una delle pochissime esperienze umane in cui non è dato apprendere dall’esperienza passata.

In realtà questa distinzione non è ormai così netta, e la variazione consiste nell’introduzione, via Internet, di giochi che apparentemente sono “play”, ma che sottilmente possono diventare “gambling”, da giochi a giochi d’azzardo. Il fenomeno è in realtà sempre esistito. Facciamo un esempio noto a tutti, credo: il poker. Il poker è un play, nel senso che devi conoscere ed applicare regole molto precise. Ma è pur vero che l’azzardo è non solo inevitabile, ma anche codificato. Il bluff nel poker per esempio… si tratta di una regola, ma deve essere sostenuta dal caso. In un giro io posso bluffare e tutto mi va bene, In un altro posso incappare in un giocatore più tosto di me, con carte migliori. Qualsiasi gioco ove esista la possibilità di travalicare i limiti della semplice abilità è azzardo. Qualsiasi gioco, cioè, nel quale la mia abilità di giocatore può essere in qualche modo legata, per quanto attiene ai risultati, anche al caso. Inoltre, io posso decidere regole per cui il play diventa automaticamente gambling: E questo per il semplice fatto che qualsiasi gioco implica comunque, una possibilità di errore non prevedibile. Quindi, qualsiasi play può diventare gambling. Il problema è solo di percentuale. Il caso è presente, come elemento costituivo e strutturante in ogni gioco. Non si conosce, io credo, un solo gioco nel quale tutto si fondi sull’abilità e basta, Esistono delle variabili interveniente, come si dice in statistica, che possono modificare l’assetto di qualunque gioco. La differenza che viene fatta fra un gioco e l’altro dipende solo dal grado di “gambling” che è in esso presente. Certo, possiamo fare graduatorie varie. Alcuni giochi, infatti, sono nati specificamente come giochi d’azzardo, dove tutto è affidato al caso. Per quanto io possa essere un esperto di roulette o di baccarà, o di chemin de fer, è ovvio che l’elemento d’azzardo è fortemente presente, determinante, così come se gioco alle slot machines. Per carità, esistono regole precise anche in questi giochi, ma è indubitabile che la componente casuale è potente. Ma anche altri giochi, fondati su regole diverse, possono diventare giochi d’azzardo. Anche io giochi a bridge, il più nobili fra i giochi di carte, o a scacci, il più aristocratico dei giochi strategici, fondati entrambi su regole complesse e specifiche, esiste sempre un elemento aleatorio, puramente casuale. Il che è normale. Non lo diventa più se io punto una grande posta, e decido se la posta della mia partita a bridge o a scacchi è di diecimila euro. Alla stessa maniera, se io gioco alla roulette puntando un centesimo di euro ogni volta, non esiste alcun azzardo. Il problema, pertanto, non è nella natura del gioco (da questo punto di vista play e gambling sono in realtà la stessa cosa), ma dal come lo vivo io come individuo, io come persona. Siamo noi individui a decidere che un play è un play, o un gambling è un gambling o un play è un gambling o un gambling è un play. Non si può pertanto essere d’accordo col fatto che il gioco d’azzardo sia sempre gambling e mai play e le implicazioni di questo assunto sono fondamentali: si può diventare giocatori patologici sia con il gambling sia con semplici ed apparentemente innocenti ‘plays’. Voglio dire che non è la natura del gioco che ci fa diventare giocatori patologici. Chi più, chi meno, tutti abbiamo giocato o giochiamo, ed è chiaro che quanto più un gioco è d’azzardo, e più ci intriga. Vogliamo semplicemente vincere, come è ovvio nella natura stessa del gioco.

Ma badiamo bene: non è necessario il voler vincere denaro: si gioca per il gusto di vincere in se stesso. Certo, il denaro diviene segno tangibile di questa vittoria, ma esso può anche essere una cifra irrilevante, ma è l’atto stesso del vincere che ci gratifica. Il gioco deve avere un aspetto ricreazionale e divertente, fondato sulla sporadicità. Non può essere una compulsione di cui si diventa progressivamente schiavi. Possiamo giocare a poker, a baccarà, a scopone scientifico o a canasta. Ma possiamo anche giocare alle slot machine, a Risiko, a Monopoli o a uno qualsiasi dei numerosissimi giochi di ruolo informatici: il meccanismo non cambia.  Ed è anche sbagliato pensare che la vera natura del gioco patologico consiste nelle consistenti perdite economiche che esso comporta. Questa è solo una aggravante. In realtà il gioco (qualsiasi gioco) diventa patologico quando esso da attività piacevole ed eccitante, il gioco diventa una dipendenza, grave e distruttiva. La gravità, l’essere indice di patologia (l’essere, cioè, gioco d’azzardo patologico) deri­va dal fatto che esso irrompe nella vita del soggetto determinando una compromissione del suo normale funzionamento, con ripercussioni devastanti sulla vita di relazione e di famiglia, sulle attività lavorative e ricreative, con un importante scadimento delle relazioni sociali e affettive. e spesso, con conseguenze gravi anche da un punto di vista legale. L’attenzione, quindi si sposta, dal “gioco” patologico al “giocatore” patologico. Questo spostamento di attenzione diventa fondamentale viste le dimensioni epidemiologiche del gioco patologico. Si sta assistendo ad un drammatico aumento del numero di giocatori patologici, fra i quali un gran numero di donne ed adolescenti, che si dedicano a questi giochi in maniera regolare. Una stima forse un pò eccessiva, parla dell’ottanta per cento della popolazione adulta italiana comunque coinvolta nel gioco patologico. La prevalenza del disturbo (cioè la percentuale di casi nella popolazione) è stimata fra 1.2 e 3.4 per cento. Significa, insomma, che da una a tre persone su cento in Italia ha questo problema. Significa che, se abitate in un condominio mediamente di duecento persone, state pur tranquilli che sino a 6 di esse potrebbero avere questo problema. Tanto per intenderci sulla gravità del problema… Ovviamente, come abbiamo già accennato, non è che tutti i giocatori siano patologici. Devono essere rispettati certi criteri diagnostici, sono quelli stabiliti dal DSM, il Manuale Statistico e diagnostico dei Disturbi Mentali, punto di riferimento internazionale per la diagnosi dei disturbi psichiatrici. Il primo inserimento del gioco d’azzardo patologico nel DSM risale al 1980 (terza edizione). Ma è solo nell’edizione successiva, la quarta, che il gioco patologico è stato considerato come disturbo del controllo degli impulsi non altrimenti classificati. Questi criteri ricordano molto quelli per la dipendenza da sostanze, solo che in questo caso non c’è sostanza alcuna. Il centro del problema è ovviamente la perdita di controllo sul gioco e l’incremento del giocare per raggiungere un sufficiente grado di eccitazione (quindi investendo denaro, nel caso dell’azzardo), l’impossibilità di controllare o ridurre o interrompere il gioco, l’irritabilità e l’ansia se tenta tale riduzione o interruzione. Questa perdita di controllo è centrale nella diagnosi, come viene suggerito al sistema internazionale di classificazione delle malattie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (ICD-X): “ un gioco d’azzardo persistente­mente ripetuto che continua e spesso aumenta, nonostante le negative conseguenze finanziarie (impoverimento economico), familiari (compromissione delle relazioni familiari) e sociali (com­promissione della vita relazionale sociale)”. Insomma, esiste una vera compulsione verso il gioco, irrefrenabile. Ma, a differenza delle vere compulsioni, comunque il gioco patologico è “ego-sintonico”, cioè è fonte di piacere, di eccitazione, anche se legate solo al momento del gioco: infatti le conseguenze del gioco sono “ego-distoniche” producono disagi anche severi, essendo fondate non solo o non tanto su perdite economiche, bensì sul tracollo relazionale e sociale. Il paziente ossessivo, invece, soffre per le proprie compulsioni. Il giocatore patologico le reputa fonte di benessere, senza nemmeno rendersi conto del progressivo impoverimento personale ed anche economico. Come tipo di disturbo è estremamente simile alle tossicodipendenze: la persona che ne è affetta non valuta affatto i danni del proprio comportamento, ed esperisce la difficoltà, se non l’impossibilità di inibire o dilazionare il proprio impulso. Non a caso è un disturbo del controllo degli impulsi. In alcuni casi, la persona affetta da gioco patologico ha una “familiarità”, cosa che si riscontra spesso nella pratica psichiatrica. Se andate a valutare la sua famiglia, spesso potreste trovare la presenza di altri disturbi collegati: disturbi bipolari, disturbi del comportamento alimentare, tossicomanie, alcolismo. Potete trovare una madre affetta da gioco patologico, un fratello o una sorella affetta da disturbi bipolari, un figlio con disturbi del comportamento alimentare, un padre alcolista. La genetica non è un’opinione. Spesso il soggetto affetto da gioco patologico ha avuto in passato episodi ipo-maniacali, si è dato a spese pazze, ha fatto investimenti sbagliati o scelte di vita sbagliate. Il gioco patologico si sviluppa abitualmente tre fasi. Una prima fase è caratterizzato dalla vincita (economica e non), la cosiddetta “fase vincente”. Subentra poi la fase della perdita e quindi la necessità compulsiva di “rincorrere” le perdite. Una terza fase, devastante è quella della disperazione. In realtà la primissima fase, una vera ‘protofase’ è quella dell’incontro col gioco, che quasi sempre è del tutto casuale. E’ quello che succede al tossicodipendente potenziale che incontra una sostanza, quella che viene chiamata la fase della “luna di miele”. Così come il tossicodipendente, il giocatore che diverrà patologico, prova una sorta di eccitazione, il gioco lo fa stare bene, gli regala momenti di forte eccitazione, ed è caratteristico di questa fase la convinzione di riuscire a dominare pienamente il gioco. E, come capita quasi sempre, nelle prime fasi è vincente, è euforico, il che lo incentiva a continuare, come si dice, rinforza il gioco: gioca per divertirsi. Si sente bravo, esperisce fortissimi sentimenti di autostima, spesso sentimenti di onnipotenza, sino a sfiorare veri e propri deliri di grandezza, convinto com’è che può controllare perfettamente il gioco, che può influenzare la sorte e che continuerà a vincere. E’ qui che scatta il primo meccanismo psicopatologico: una persona normale si rende conto che il gioco non funziona così, che prima o poi subentrerò necessariamente una fase di perdite e che questo fa ovviamente parte delle regole del gioco, essendone anzi la vera essenza. Il giocatore predisposto alla patologia invece no. In quel momento è gratificato, onnipotente. E quando inizia l’inevitabile fase delle perdite, entra, senza rendersene conto, in un meccanismo incontrollabile. Vuole vincere, ma per vincere deve rincorrere le perdite. Può giocare somme di denaro sempre maggiori, o semplicemente, nei casi in cui il denaro non è determinante, desiderare di tornare a vincere, impegnandosi progressivamente, in maniera ossessiva a rincorrere l’idea della vincita. Sia il denaro speso, sia l’impegno profuso, lo portano a un progressivo deterioramento nei rapporti umani. Inizia a mentire a partners e familiari, inizia a dire che gioca solo per rilassarsi, e se del caso comincia a fare le prime azioni illegali o immorali, per mantenere la sua leadership e tornare a vincere. Resta convinto ancora di potere dominare il gioco, e sa che con sforzi modesti potrà vincere. Una frase tipica di questa fase è” non appena mi rifaccio, o raggiungo il tale risultato, smetto tranquillamente”. In realtà è già intrappolato, non può più resistere alla compulsione, non può più smettere di giocare. Ormai è una vera dipendenza. Deve giocare, se non gioca sta male, è ansioso, aggressivo, smette persino di interessarsi della vita affettiva e relazionale, alla vita familiare, al lavoro, cessa qualsiasi altro tipo di attività ludica. Mente a tutti, spesso spacciando la patologia per una attività sociale (“Mi piace giocare perché gioco con degli amici e mi diverto”). Pensa ormai solo al gioco, a come fare per vincere, ai metodi e sistemi che lo possono aiutare, per quanto si renda conto, magari a livelli sub-liminali, che il gioco sta avendo conseguenze disastrose sulla sua vita. Se ripreso, reagisce in maniera aggressiva: gli altri non capiscono. Ma lui o lei dimostreranno al mondo di essere nel giusto. Tanto, la menzogna aiuta, così come aumenta la presunzione riuscire a mentire.

Ma perché un giocatore diventa patologico? Esistono diverse motivazioni possibili. In massima parte, un giocatore diventa patologico per la ricerca di uno stato di eccitazione o di euforia, vuole sentirsi in azione (giocatori in azione). Ricerca più l’eccitazione che la vincita, e ricerca questa eccitazione con scommesse sempre più alte, in termini di tempo e di denaro. Alla base di questa motivazione c’è il tentativo di compensare frustrazioni antiche, la necessità di emergere, di essere comunque riconosciuti ed ammirati. In altri casi, il gioco è il tentativo di scappare da sentimenti di vuoto, di solitudine, ma anche, spesso, da connotazioni psicopatologiche, per esempio depressive o disforiche (giocatori per fuga).  Bisogna ammettere che questi sono casi abbastanza rari. Molto più frequenti i casi dei giocatori “per pseudo-fuga”: in tali casi la fuga è solo immaginaria; sin tratta di persone che potrebbero anche essere sufficientemente felice, con una buona vita relazionale, sociale, professionale, ma in cerca semplicemente di gratificazioni che, per incapacità, non possono ottenere. Infine, ci sono giocatori patologici che semplicemente esperiscono un sintomo ossessivo: stanno bene solo se giocano, seguono un impulso incoercibile che da soddisfazione, a qualsiasi costo. Sono ego-sintonici. Sono le conseguenze ad essere ego-distoniche. Se non ci fossero continuerebbero ad oltranza. Ci sono altri dati interessanti, sebbene non certi: i giocatori compulsivi o “in azione” sarebbero in più frequenti fra gli uomini, mentre le donne sarebbero più spesso giocatrici per fuga (o auto-giustificative). Inoltre, mentre gli uomini comincerebbero a giocare in età tardo adolescenziale, le donne in età adulta. Inoltre, la tipologia del giocatore (per fuga o per azione) e la differenza di età nel cominciare a giocare sembrano essere in relazione con altre patologie psichiatriche sottostanti: le donne che giocano per fuga starebbero fuggendo da un disturbo dell’umore, tipo depressione maggiore; gli uomini risponderebbero così ad un disturbo da deficit di attenzione con iperattività. Comunque sia, il disturbo assume rapidamente una forma ingravescente e cronica. Aumenta la quantità di tempo dedicata al gioco e/o la quantità di denaro investita. Anche se messi sull’avviso, i giocatori patologici mentiranno palesemente, diranno che è solo un modo per rilassarsi, rifiuteranno qualsiasi tipo di aiuto, anzi reagiranno violentemente. Spesso è questo atteggiamento a portare alla rottura di rapporti affettivi anche importanti. La ‘posta’ (che sia denaro o tempo messo in gioco) deve implacabilmente aumentare. In momenti di inevitabile stress o di depressione, la situazione può anche ulteriormente peggiorare. La coscienza di malattia continua ad essere assente.

Una posizione centrale nel caleidoscopio dei rapporti fra comportamento e mediatori chimici è rappresentata dalla serotonina, un neuro ormone che regola l’inibizione comportamentale e l’aggressività. Se è in quantità giusta. Se è deficitaria inibizione comportamentale e aggressività vanno in tilt. La noradrenalina è correlata all’attenzione e all’eccitazione neurovegetativa (il cosiddetto arousal), la dopamina alla ricerca della gratificazione e del piacere anche epidermico (sensation, novelty seeking). E’ probabilmente dalle interazioni fra questi sistemi e dai loro effetti che si genera il gioco patologico. Così, possiamo ipotizzare che una disfunzione del sistema noradrenergico ci rende reattivi e vulnerabili cognitivamente agli stimoli del gioco; ma se contemporaneamente non funziona il sistema serotoninergico, ciò produce quella patologica disinibizione che ci porta a tuffarci nel gioco patologico, senza riuscire più a controllarlo. Se anche il sistema dopaminergico è difettuale, continueremo a giocare per procurarci quelle sensazioni e gratificazioni “forti” di cui abbiamo bisogno. Et voilà, il gioco è fatto…

La serotonina sembra essere al centro di questo sistema perverso. Il suo deficit porta a comportamenti ripetitivi, ossessivi, privi di possibilità di controllo. Giocare riduce l’ansia, deresponsabilizza, provoca un sentimento di piacere incontrollabile. I molti dati disponibili attribuiscono a questo neurotrasmettitore una importanza fondamentale nello sviluppo di questa patologia. Il deficit di noradrenalina, provoca quell’abbassamento dell’attenzione e dell’arousal che è indispensabile per darsi al gioco patologico. Una struttura del nostro cervello (si chiama locus coeruleus) si attiva di fronte a stimoli nuovi e minacciosi (anche se virtuali). Aumenta lo stress, ed all’aumento dello stress corrisponde un aumento della sintesi di noradrenalina e un aumento dell’aggressività. Ma queste sono ipotesi, fondate su pochi dati. La dopamina, da parte sua, ha una funzione fondamentale nei meccanismi di ricerca della gratificazione e del piacere, con attivazione della curiosità e la ricerca delle novità (novelty seeking e sensation seeking). E’ questo gioco biochimico e neurochimico che sembra correlato al gioco patologico. Insomma, nulla di diverso, poi, dalle classiche sindromi da dipendenza, compresa quella da oppioidi.

Certo, neurochimica e genetica non sono opinioni. Ma ci sono infatti delle determinanti sociali fondamentali. Indipendentemente dai vari giudizi espressi dalla società nei secoli (gioco buono, gioco cattivo) il problema è che viviamo in un contesto comunitario che sicuramente incentiva il gusto del gioco. Persino Cesare, varcando il Rubicone, si espresse con una frase mutuata dal gioco dei dadi: “ite, iacta est”, il dado è tratto. Il problema è capire perché, nella società contemporanea, in anni recentissimi, il gioco patologico è diventato una vera epidemia.

TERAPIA

La rilevanza clinica del gioco d’azzardo patologico è tale da avere stimolato una serie di ricerche sulle possibili terapie. Trattandosi di un disturbo del controllo degli impulsi, che implica quindi un difetto nel riassorbimento della serotonina, è stato suggerito che farmaci che agiscono in questo senso (gli SSRI) possano essere utili. Alla stessa maniera si è utilizzata la terapia con stabilizzatori del tono dell’umore e antiepilettici con azione anti maniacale (carbamazepina), specialmente quando esiste una comorbilità col disturbo bipolare. In realtà, sebbene esistano delle evidenze, esse non sono sufficientemente forti. Si tratta insomma di terapie che si rilevano efficaci almeno nel contenimento del disturbo, ma sicuramente non rappresentano la soluzione ideale, così come purtroppo in tanti atri casi di patologia psichiatrica. E, come sempre, l’integrazione con la psicoterapia diventa fondamentale. Sono stati elaborati molti modelli di trattamento: tutti partono comunque da un primo e fondamentale passo, la presa di coscienza da parte del sog­getto di essere affetto dal gioco d’azzardo patologico. Poi si inizia un percorso che parte dal rafforzamento della motivazione a cambiare il comportamento patologico, modulando le inevitabili resistenze del paziente e farlo e il rafforzamento dell’impegno al cambiamento. Poi si inizia la terapia che, oltre al rapporto col terapeuta implica anche una forma di ‘affidamento’ del paziente ad un tutor, che controlli le attività del paziente, sino a gestirlo economicamente, a gestire le sue attività quotidiane; è ovvio che questo tutor deve essere appoggiato da un parente, un familiare, preferibilmente il partner. Il procedimento della psicoterapia può essere molto complesso. Può implicare una psicoterapia di coppia, per recuperare quelle dinamiche perse a causa della malattia del partner. Può implicare anche una psicoterapia familiare, nel senso di rendere edotta l’intera famiglia che il gioco del loro congiunto è un sintomo e non una semplice abitudine. In taluni casi ciò può anche servire a scoprire quali relazioni sono state malate, portando così allo sviluppo della patologia. Sono stati anche ideati dei modelli di psicoterapia di gruppo, sul modello degli Alcolisti anonimi (in questo caso i Gamblers Anonymous (Giocatori Anonimi), cioè gruppi composti da giocatori patologici e dai loro familiari, che si riuniscono periodicamente per confrontare le proprie esperienze e condividere il loro problema con la guida di uno psichiatra. Questi gruppi danno anche consulenza legale e consulenza economico-finanziaria, data la particolare natura del problema. Come vedete, si tratta di una terapia molto complessa, che può essere influenzata da moltissimi fattori, biologici, psicologici, relazionali, sociali, non tutti sempre controllabili. Insomma, anche la terapia è un vero gioco d’azzardo…

Giovanni Iannuzzo