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Randazzo celebra i 500 anni della scultura in marmo di San Nicola da Bari realizzata da Antonello Gagini

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Nel 1523 Antonello Gagini “scultore rarissimo e singolare” concepiva un’opera straordinaria di eterna bellezza, raffigurante San Nicola da Bari seduto in trono. Dopo cinquecento anni dalla consegna dell’opera, la parrocchia di San Nicolò da Bari in Randazzo (CT), diocesi di Acireale, che conserva il pregevole manufatto, celebra i cinquecento anni (1523-2023) di una delle sculture in marmo più iconiche mai realizzate dall’artista palermitano. La manifestazione avrà luogo venerdì 24 novembre 2023, alle ore 16.30, nella chiesa parrocchiale di San Nicolò da Bari.
Il terzo decennio del Cinquecento è il periodo dei grandi capolavori di Antonello Gagini. Nel 1522 l’artista era tra i più apprezzati scultori del suo tempo e nel mese di ottobre, alla presenza del nobile Giovanni Michele Spatafora, barone di Roccella Valdemone, Antonello Gagini in persona si impegnava con il procuratore della parrocchia di San Nicolò, Gian Pietro Santangelo, mediante un atto notarile rogato a Palermo, a realizzare un simulacro in marmo raffigurante San Nicola da Bari seduto in trono. In occasione della ricorrenza del quinto centenario della consegna dell’opera, la parrocchia di S. Nicolò in collaborazione con BCsicilia, organizza un seminario di studi intitolato: “Antonello Gagini, scultore rarissimo e singolare: San Nicola da Bari a Randazzo, 500 anni di eterna bellezza”, che celebrerà l’opera e l’arte dello scultore palermitano. Il seminario di studi vedrà la partecipazione di studiosi e di eminenti esperti che esploreranno la straordinaria eredità lasciata dal Gagini attraverso la sua iconica scultura. Gioacchino Barbera, storico dell’arte e autorevole studioso di pittura siciliana, già direttore del museo regionale di Messina e di Palazzo Abatellis in Palermo; Antonio Cuccia, storico dell’arte, specialista per la cultura artistica del Cinque e Seicento; Giuseppe Fazio, Dottore di ricerca in storia dell’arte, autore di numerose pubblicazioni sul tardo Medioevo e sul Rinascimento; Alfonso Lo Cascio, giornalista e Presidente regionale di BCsicilia, Alessandra Migliorato, storica dell’arte del museo regionale di Messina, specializzata in scultura rinascimentale e Gaetano Scarpignato, studioso e ricercatore di storia del territorio e autore di importanti contributi sulla storia di Randazzo. Durante l’incontro i relatori forniranno una panoramica dell’opera di Antonello Gagini esaminando il suo contributo all’arte italiana e soprattutto il valore culturale della scultura di San Nicola da Bari che si conserva a Randazzo. Sarà raccontata la storia della committenza della statua di S. Nicola del 1522 e dei successivi rapporti tra Antonello Gagini e la parrocchia di S. Nicola in Randazzo con la problematica custodia eucaristica. Inoltre, attraverso l’analisi della documentazione archivistica e fotografica, tra certezze e ipotesi, sarà affrontata la vicenda espositiva del simulacro di San Nicola attraverso i secoli. La statua di San Nicola a Randazzo, oltre a imporsi per la sua notevole qualità, è stata la prima opera in cui la storiografia europea ha riconosciuto – soprattutto con lo studio del tedesco Hanno Walter Kruft del 1980 – un debito importante nei confronti del prototipo pittorico realizzato da Antonello da Messina per la chiesa eponima della città dello Stretto. Partendo da questo dato, gli studi successivi hanno enucleato nella scultura del Gagini la presenza di ulteriori elementi di raccordo con la produzione del pittore messinese. L’opera sarà analizzata e inserita anche nella coeva cultura pittorica e scultorea palermitana e messa in relazione con le sculture della prima metà del Cinquecento dal soggetto poco usuale e per questo ancora più straordinarie. Oltre il culto e le leggende biografiche legati alla figura di San Nicola, con gli episodi miracolistici nella pregnante interpretazione pittorica, tra i temi che saranno discussi nel corso del seminario un focus sarà dedicato all’iconografia del santo intronizzato, in rapporto a San Nicola vescovo, e la sua ricaduta nella scultura in legno in Sicilia. Sarà, inoltre, illustrata la fortuna del motivo del santo in trono, sedes sapientiae, che si imporrà nell’immaginario popolare dal mitico Salomone, al Santiago de Compostella, fino ai santi patroni.

L’anniversario, dunque, sarà un’occasione speciale per riflettere sull’importanza della cittadina etnea e sulla storia del simulacro e le interdipendenze artistiche sulla nostra eredità culturale.

“È con grande gioia e riconoscenza che annunciamo la celebrazione del quinto centenario della straordinaria scultura creata dal maestro Antonello Gagini – afferma il neo parroco Don Salvatore Cassaniti. Questo eccezionale capolavoro dell’arte rinascimentale è stato un punto di riferimento culturale e spirituale per la nostra comunità per cinque secoli, un simbolo tangibile della fede e dell’arte che unisce il nostro popolo. Desidero esprimere la mia sincera gratitudine a Padre Gabriele Aiola, mio predecessore che ha accolto l’idea, di organizzare questo evento culturale, maturata grazie alle ricerche di Gaetano Scarpignato che ha generosamente curato il progetto in ogni sua fase. Ringrazio i relatori – aggiunge Don Salvatore – che esamineranno l’arte, la bellezza e la profondità di questa scultura affinché essa continui a ispirare e arricchire la vita delle persone nella nostra comunità. Invitiamo tutti i membri della comunità locale e gli amanti dell’arte a unirsi a noi in questa celebrazione che promette di essere un momento di condivisione, apprendimento e contemplazione della bellezza in questo periodo di forti tensioni sociali”.

Un’occasione unica per immergersi nella storia della città etnea, nell’arte e nella vicenda di Antonello Gagini e del rinascimento in Sicilia.

Il 17 novembre sull’Etna 4° congresso dei Gruppi di San Michele

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Il palermitano Salvatore Valenti (detto Salvo) da anni vede in sogno San Michele, che nel 2015 gli ha chiesto di fare dei Gruppi, quelli che il 17 novembre vanno a Congresso per divulgare i messaggi ricevuti dall’Arcangelo.

Nel 2022 davanti ad un notaio di Messina, è nata l’Associazione che riunisce le centinaia di Gruppi italiani, francesi e polacchi già attivi, poi questo gennaio sono sbarcati a Londra e nel 2024 forse in America e Africa. “Come simbolo – scrivono i promotori – hanno il famoso quadro di San Michele del Guido Reni, di cui una copia è a Petralia Sottana dove da anni avvengono sorprendenti guarigioni e liberazioni, come riferito da libri, giornali, radio e TV, italiane ed estere. Forse sono la prosecuzione delle apparizioni di Caltanissetta nel 1625”.

“Il 20 settembre 2023 – scrivono nella nota – 58 devoti, tra cui alcuni francesi, un sacerdote italiano e uno africano (nella foto), in rappresentanza di tutti questi Gruppi, detti Armata perché usano la preghiera comunitaria come arma, hanno pregato insieme al Papa, durante l’udienza in Vaticano, dove sono entrati dalla porta Angelica (cioè degli Angeli), che una volta mostrava la scritta “Chi vuole salvare il mondo segua noi (gli Angeli)”. Cioè hanno spiritualmente riaperto la famosa battaglia della Breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870, “per far cancellare le leggi che offendono Dio” cioè divorzio, aborto ecc. come chiesto da San Michele. Poi ben altre persone, il 7 ottobre, anniversario della famosa battaglia di Lepanto nel 1571, hanno riaperto le ostilità contro l’Occidente. Da notare che a Lepanto (vicino a Patrasso in Grecia) e tra i presenti alla Udienza papale moltissimi erano siciliani, ed anche i Gruppi più affollati sono siciliani! La Sicilia è in prima linea anche per Sigonella, Birgi e specie per il MUOS di Niscemi. A Boston (USA) in primavera, si è tenuto il primo Congresso pubblico mondiale delle Chiese sataniche.  San Michele ha detto che satana vuole indurre l’umanità all’autodistruzione, ma che l’Altissimo lo ha mandato per impedirlo. Secondo le profezie, con altri Angeli sta agendo da anni, pur nel rispetto della libertà degli uomini”.

Giornale di Cefalù: Democrazia Cristiana, mafia e antimafia

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“Speranze e declino”: Calogero Pumilia e Vito Riggio, a lungo deputati e sottosegretari della Democrazia Cristiana raccontano nel loro libro la fine della cosiddetta Prima Repubblica, il ruolo dei partiti, la figura di Leoluca Orlando. Il volume secondo il presidente della Fondazione Mandralisca Enzo Garbo aiuta a fare luce nella storia della politica italiana. Gli interventi di Pumilia, Riggio e Garbo (nella foto).
Nel 100° anniversario della nascita di don Lorenzo Milani il Comune di Cefalù ha organizzato un incontro per ricordare questo sacerdote, tradizionale e al contempo innovativo, una provocazione per la Chiesa e tutta l’Italia: prete, profeta, maestro, spesso incompreso. Ne parlano il parroco don Pietro Piraino e il vicario generale mons. Giuseppe Licciardi.
Rodrigo, Giuseppe e Carlo, un “continuum” di 250 anni. La lunga tradizione della famiglia La Calce: cultura, attenzione, studi storici, arte, documentazione a servizio dei cittadini, esempio di grande amore per la città di Cefalù: gli interventi dell’assessore Antonio Franco e Carlo La Calce.
Il Giornale di Cefalù – n. 1767 anno 40 – notiziario video-web diretto e condotto da Carlo Antonio Biondo; da giovedì 2 novembre 2023 può essere seguito e rivisto su facebook adrianocammarata e sul canale you tube Carlo Antonio Biondo (https://youtu.be/vktXh0JQJvk) al quale ci si può iscrivere per essere sempre aggiornati. Archivio Giornale su cammarataweb; link su tutti i social e madonielive.

“Salviamo l’ospedale delle Madonie”: manifestazione a Petralia Sottana l’11 novembre

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«Non c’è più tempo. Scendiamo in campo per salvare l’ospedale delle Madonie». È il grido degli abitanti dei 9 Comuni del Distretto Sanitario 35, che hanno deciso di scendere in piazza sabato 11 novembre per impedire la chiusura dell’ospedale Madonna dell’Alto.

Il corteo partirà alle 9:30 dai Campetti Santa Lucia di Petralia Sottana e raggiungerà lo spiazzale della struttura sanitaria. La manifestazione è organizzata dal Movimento civico “Pediatria a Petralia”, le Consulte giovanili madonite, il Comitato cittadino Petralia Sottana e l’Unione dei Comuni con tutti i suoi sindaci e amministratori, consigli comunali.

L’ospedale delle Madonie versa da tempo in condizioni di emergenza: negli ultimi anni sono stati smantellati il punto nascita, il reparto di ortopedia e cardiologia; dal 2021 manca pure il reparto di pediatria, da quando l’ultimo medico attivo è andato in pensione.

Oggi, il corretto funzionamento del presidio sanitario è messo in crisi dalla mancanza di almeno 60 unità tra medici e personale sanitario.  A rischiare la chiusura ci sono i reparti di Medicina e Chirurgia, dal momento che uno dei dottori passerà alla medicina di base già alla fine di quest’anno.

«Chiudere Medicina e Chirurgia significa sancire la morte dell’ospedale – spiegano gli organizzatori -. A quel punto, tutti noi madoniti bisognosi di cure mediche saremmo costretti a dover percorrere ben 70 kilometri per raggiungere l’ospedale di Termini Imerese, il più vicino all’area. Pensate cosa voglia dire essere un padre e ritrovarsi nel pieno della notte con il proprio bambino che sta male; recarsi a Sottana e sentirsi dire che non possono far nulla perché il pediatra non c’è. A quel punto, iniziare una folle corsa prima verso Termini (ma anche qui, manca il medico), e poi fino all’ospedale dei Bambini di Palermo. È quello che è successo a una famiglia di Gangi, non è accettabile. Vogliamo che ci venga garantito il diritto alla salute nel luogo in cui siamo nati e stiamo costruendo il nostro futuro».

I vertici dell’Asp sostengono che la mancanza di personale sia figlia del fatto che i medici non vogliono recarsi a prestare servizio nelle Madonie e, a detta loro, ne sarebbe dimostrazione l’assenza di un numero adeguato di concorrenti per i bandi pubblici.

«In realtà – continuano gli organizzatori – guardando proprio a questi bandi, appare evidente come le condizioni lavorative offerte non siano sufficientemente attrattive, dimostrando che il problema è a monte.

Per di più, secondo un progetto trapelato dall’Assessorato regionale della Salute, l’ospedale di Petralia Sottana rischia di essere accorpato a nosocomi più grandi, cosa che renderebbe la gestione ancora più complessa e lacunosa».

Per questo i comitati, le consulte giovanili e i rappresentanti delle istituzioni locali lanciano l’appello a una manifestazione pubblica: «Invitiamo tutti a unirsi a noi e scendere in piazza il prossimo 11 novembre. Non possiamo rimanere a guardare mentre ci viene negato il diritto alla salute. Vi invitiamo a seguire le nostre pagine social “Salviamo l’ospedale delle Madonie” per restare aggiornati».

Termini Imerese, Progetto “Civitas Splendidissima”: alla Scuola Gardenia i “Pupi di Zucchero” dello chef Peppe Sciurca

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Al I Circolo Didattico di Termini Imerese, dirigente scolastico la professoressa Antonina Raineri, è stato avviato il progetto curriculare “Termini Imerese Civitas Splendidissima”, con referente l’insegnate Lina Militello. Il progetto nasce con la finalità di recuperare l’identità attraverso lo studio e la conoscenza della storia e delle tradizioni locali, con l’obiettivo di richiamare l’attenzione degli alunni sul valore culturale delle nostre tradizioni popolari per comprendere le radici, conoscere la storia e l’identità del territorio, riscoprendo anche le tradizioni folkloristiche in estinzione.

Le docenti delle classi 2A, 2B,  2C, 5A, 5B, 5C e 5D del I Circolo Didattico: Alida Biondi, Lisa Calabrese, Maria Laura Calderone, Caterina Coccia, Rossana Di Fatta, Rosalba Pirrera, Lauretana Romano, Paola Tantillo, Sabrina Soldo, Rosario Glorioso, Vitala Militello, Maria Antonietta Fantauzzo, Luretana Romano, Annamaria Savio, Giuseppina Sunseri, Carmela Di Marco, Candida Pirrone in linea con le finalità del progetto, hanno organizzato la “Giornata delle Tradizioni”, con riferimento all’imminente “Festa dei morti”.

Per l’occasione, grazie alla preziosa collaborazione dello chef termitano Peppe Sciurca coadiuvato da Valeria Signorino, esperti nella lavorazione e realizzazione di pupi di zucchero, attraverso un’apposita attività laboratoriale, gli alunni hanno potuto scoprire e sperimentare come nasce un “pupo”, dolce tipico della nostra tradizione siciliana, e conoscerne la storia che, fra mito e leggenda, giunge ai giorni nostri.

Nella Foto (da sinistra): Sabrina Soldo, Rosario Glorioso, Vitala Militello, Maria Antonietta Fantauzzo, Luretana Romano, Annamaria Savio, Valeria Signorino, Giuseppe Sciurca, Caterina Coccia, Rosalba Pirrera, Giuseppina Sunseri, Carmela Di Marco, Candida Pirrone.

Omicidio Roberta Siragusa a Caccamo, chiesto anche in Appello l’ergasotolo per Pietro Morreale

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Il procuratore d’appello Maria Teresa Maligno ha chiesto la conferma della condanna all’ergastolo per Pietro Morreale, il giovane di Caccamo accusato di avere ucciso il 23 gennaio del 2021 l’ex fidanzata Roberta Siragusa.

Nel corso della sua requisitoria il pg ha ripercorso non solo le fasi del delitto, ma anche il rapporto burrascoso tra i due giovani, contrassegnato dalle violenze fisiche. Sarebbero stati accertati 33 episodi che avevano sconvolto la vita della giovane. Nel corso della ricostruzione è stato sottolineato anche il comportamento dopo la morte della giovane assunto da Pietro Morreale, che «con animo freddo e calcolatore, ha cercato addirittura di precostituirsi un alibi, inviando dei messaggi all’ex fidanzata, pur sapendola già deceduta», affermano i magistrati.

Le prove raccolte sarebbero in netto contrasto con la tesi difensiva con la quale si è sostenuto che non si trattò di omicidio, bensì un tragico incidente, prospettando alternativamente la tesi del suicidio. Gli avvocati Giovanni Castronovo, Giuseppe Canzone, Sergio Burgio e Simona La Verde, che assistono i familiari della vittima, oltre a spiegare le ragioni scientifiche per le quali l’ergastolo previsto dalla sentenza di primo grado va confermato, hanno ribadito con forza che non vi è alcun intento di vendetta da parte della famiglia Siragusa, ma solo il diritto di avere una risposta certa al fine di sapere quali sono state le cause della morte della giovane caccamese e soprattutto chi l’ha uccisa.

Secondo i legali nel corso del dibattimento si è raggiunta la piena prova della responsabilità dell’imputato, ragion per cui la sentenza emessa dalla corte di assise di Palermo merita di essere confermata sussistendo tanto l’aggravante della premeditazione che quella legata alla sussistenza del rapporto sentimentale che legava la vittima al giovane. La corte di assise di Appello presieduta da Angelo Pellino, a latere Pietro Pellegrino ha rinviato il processo al processo 16 novembre per l’arringa difensiva dell’avvocato Gaetano Giunta e la decisione finale.

Gangi, scoperta una lapide in ricordo degli otto civili caduti durante la Seconda guerra mondiale

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Vincenzo Spitale, Maria Restivo, Antonino Ballistreri, Carmelo Conte, Rosa Seminara, Rosario Conte, Gaetano Giaconia e Santo Spitale. Sono questi i nomi delle vittime civili del secondo conflitto mondiale nella “Guerra di Gangi”. Ieri, nel comune madonita, in occasione degli 80 anni dall’operazione Husky e della conquista di Gangi, per volontà dell’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Giuseppe Ferrarello, è stata scoperta una lapide e deposta una corona per gli otto caduti civili.

A partecipare alla manifestazione commemorativa il generale di divisione Maurizio Angelo Scardino, comandante CME Sicilia e la Fanfara del 6° Reggimento Bersaglieri. Presenti il capitano della compagnia dei carabinieri di Petralia Sottana Salvatore Mancuso, il comandante del distaccamento delle Guardie Forestali di Gangi Santo Paternò, il comandante dei vigili urbani di Gangi Nicola Di Marco, il parroco don Giuseppe Amato e l’associazione nazionale dei carabinieri, sezione di Gangi.

A Palazzo Bongiorno, invece, è stata inaugurata la mostra fotografica, visitabile sino al 9 novembre, che ricorda lo sbarco alleato in Sicilia e la conquista di Gangi. Un racconto, attraverso immagini e documenti inediti, curato dal generale di brigata Mario Piraino esperto di storia militare. Piraino ha, anche, preannunciato l’avvio di una ricerca sulla conquista di Gangi, uno studio che sarà curato assieme allo storico Mario Siragusa e agli alunni delle scuole locali.

Ieri, domenica, però è stata anche una giornata di festa grazie alla Fanfara del 6° Reggimento Bersaglieri, agli stand espositivi e agli ambulatori di screening sanitario.

L’evento è stato organizzato dal comune di Gangi con la collaborazione del Comando militare esercito Sicilia, corpo militare Croce Rossa Italiana, Società italiana di storia militare e corpo infermiere volontarie della Croce Rossa.

Il Generale di Divisione Maurizio Angelo Scardino, comandante CME Sicilia ha detto: “La guerra è una sconfitta per tutti, bisogna fare memoria del passato affinché le nuove generazioni non dimentichino”. Il sindaco di Gangi Giuseppe Ferrarello ha ribadito: “Oggi per Gangi è stata la giornata della memoria, il mio ringraziamento all’Esercito Italiano, al Generale Scardino, alla Fanfara, alla Croce Rossa Italiana, un ringraziamento anche al generale ed esperto di storia militare Piraino sicuramente il suo studio, che curerà assieme alle scuole e allo storico Siragusa, ci permetterà di avere una visione a 360 gradi sulla conquista di Gangi durante la seconda guerra mondiale, la finalità è quella di non dimenticare chi ha versato il sangue per difendere la nostra patria”.

“Ricordando la Festa dei Morti”: iniziativa di BCsicilia a Isola delle Femmine per la tradizionale ricorrenza dei defunti

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In occasione della ricorrenza della Festa dei Morti, BCsicilia di Isola delle Femmine organizza una mostra sulla suggestiva tradizione legata ai defunti. L’iniziativa dal titolo “Ricordando la Festa dei Morti” è una esposizione di antichi giocattoli della collezione di Agata Sandrone, con il tradizionale cannistru, un cesto colmo di dolciumi di ogni genere e in particolare u Pupu ri zuccaru. La mostra ospitata presso la Casa Museo Joe Di Maggio in via Cutino, 14 a Isola delle Femmine si terrà mercoledì 1 novembre  2023 dalle 10,00  alle 13,00  e dalle 16,00 alle 18,00. Da giovedì 2 a domenica 5 dalle 10,00 alle 13,00. Ingresso Libero. Per informazioni e prenotazioni: Tel. 320.9089061 Email: [email protected] Fb: BCsicilia Isola delle Femmine.

La tradizione  della festa dei morti negl’ultimi anni sta smarrendo i connotati culturali tipici siciliani. In passato, le festività religiose erano tappe importantissime sia per le comunità di fedeli, sia per i lavoratori, in quanto i giorni di festa segnavano le pause di riposo dalle pesanti fatiche nei campi. Il 2 Novembre era il giorno dei morti, una festività tanto cara soprattutto ai bambini perché, a differenza di oggi, in Sicilia, fino a qualche anno fa, non esisteva ancora l’usanza di scambiarsi regali la vigilia di Natale, per cui questa era l’unica occasione per ricevere doni.
Contrariamente a quanto possa sembrare, in passato non era una giornata di lutto, ma di festa, soprattutto per i bambini che ricevevano in dono dai “morticini”: giocattoli e dolci.
La notte tra l’1 e il 2 novembre  accendevano un lumino davanti la foto dei loro cari defunti, recitando preghiere come il Padre Nostro e un’antica orazione siciliana riportata negli iscritti del Pitrè: «Armi santi, armi santi, io sugnu uno e vuatri siti tanti: mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai, cosi di morti mittitiminni assai»(Anime sante, anime sante, io sono uno e voi siete tanti; mentre sono in questo mondo di guai regali dei morti mettetene in abbondanza), prima di coricarsi per la notte  mettevano le scarpe sotto il letto e un cesto di vimini.
La mattina del 2 i bambini si svegliavano molto presto, e il primo pensiero era quello di guardare sotto il letto, dove dentro le scarpe trovavano delle monetine e qualche dolcetto, mentre nella cesta scoprivano frutta secca, biscotti e  un  pupo di zucchero, per i più fortunati qualche abito o dei giochi che potevano essere di legno o di latta e per le bambine delle bambole di pezza.
Lo scopo della sede di BCsicilia di Isola delle Femmine, presieduta da Agata Sandrone, è quello di non far perdere la tradizione Siciliana del 2 Novembre, mettendo in mostra  il famoso cannistrù, e al centro verrà  dedicato alla “pupaccena” o “pupo ri zuccaru” che sarà rappresentata da un paladino, attorno  al quale verrà  posta la frutta secca  castagne, noci, mandorle , fichi secchi, melograni e i sorbi. Accanto a questi frutti non possono mancare i tradizionali  biscotti, i taralli, i tetù, le reginelle e i mostaccioli (detti anche ossa ri morti), ultimo elemento la frutta martorana. Faranno da contorno antichi giocattoli dal periodo delle nostre nonne.

Le medicine tradizionali e l’imperfezione delle terapie occidentali

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Un sistema medico tradizionale può essere definito come un insieme di teorie eziopatogenetiche, diagnostiche e terapeutiche che afferisce ad una specifica cultura e che è stabilmente organizzato intorno ad un nucleo di conoscenze che ha un indiscutibile riconoscimento etnico, nel senso che è ritenuto valido nel contesto di un dato gruppo o di una specifica cultura.

Il problema delle medicine tradizionali si è posto, in Occidente, solo in tempi relativamente recenti. Prima di allora, l’esistenza di medicine diverse da quella occidentale veniva considerata una raffinatezza etnologica o un argomento di disquisizione filosofica.

Le conoscenze mediche sono in realtà un tratto caratteristico della cultura umana ed il livello di raffinatezza dell’arte medica è uno dei parametri più importanti fra quelli che generalmente consentono agli storici di valutare l’evoluzione di una cultura e il suo grado di “civiltà”. Naturalmente, quando “misuriamo” le conoscenze mediche di una cultura, il parametro che utilizziamo è il grado di similitudine con la medicina occidentale moderna.

Si tratta di un parametro errato, che discende dall’idea etnocentrica che la chiave ottimale di lettura della realtà sia quella che afferisce alla tradizione culturale occidentale. Ciò che quindi possiede un buon grado di similitudine con la nostra cultura è buono, mentre è cattivo ciò che se ne differenzia. Noi siamo nel giusto, al centro di un sistema di valutazione che non può che essere esatto quando i risultati che produce.

Allora, da un punto di vista antropologico, considereremo che una società è progredita quando conosce la tecnologia, quando un certo numero di persone guarda il televisore, usa il frullatore e lava i panni nella lavatrice. La norma storica è che, come abbiamo già detto, una cultura subalterna venga valutata in base ai valori della cultura dominante. È la storia di una sopraffazione. Noi occidentali partiamo sempre dal presupposto che un popolo, per essere civile, debba assomigliarci. E allora consideriamo un bene fornire abiti occidentali, pentole di acciaio inox e frigoriferi a popolazioni che non li conoscono. Poco importa che quella data popolazione viva benissimo senza questi “fondamentali” prodotti della nostra cultura. La stessa cosa avviene in campo medico.

La medicina occidentale è attualmente considerata la più progredita in assoluto, è la medicina. In realtà, anche in questo caso, si tende sistematicamente ad ignorare il fatto che in altre culture esistono medicine differenti. O, se non lo si ignora, si classificano come medicine empiriche, prescientifiche o primitive. In realtà, qualunque definizione di un sistema medico, così come di un qualunque sistema scientifico o filosofico, non può prescindere dalla attenta considerazione del contesto culturale nel quale quel sistema è nato e si è evoluto. È da questo stesso punto di vista che vanno valutati i benefici che ha arrecato, la validità delle sue teorie o l’attendibilità delle sue pratiche. Il parametro di misura e di riferimento, insomma, deve essere la cultura nell’ambito della quale un sistema medico si è sviluppato, e non un arbitrario concetto astratto di “medicina scientifica” che è a sua volta il prodotto della cultura occidentale moderna.

La medicina moderna occidentale, per esempio, a fronte di indiscutibili successi, ha smarrito la dimensione umana, il senso del rapporto medico paziente, la capacità empatica che fa del medico un vero e proprio potente farmaco. Ciò significa che manca alla sua terapia un afflato, una capacità di relazione, un modello di rapporto che la rende forse più imperfetta, ma sicuramente più umana. Non inefficace o dannosa. Semplicemente imperfetta. Ed è sull’imperfezione che i sistemi medici differenti dal nostro hanno molto da insegnarci. Essi infatti si fondano sull’imperfezione. A differenza della moderna medicina occidentale, essi non sono perfettibili, bensì tendono a perfezionare l’imperfezione, integrandola all’interno di un sistema di conoscenze che è a sua volta imperfetto e non perfettibile.

Le medicine che differiscono da quella moderna occidentale vengono in genere definite tradizionali, denominazione raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.  La parola tradizionale deriva dal latino tradere, letteralmente consegnare, da cui traditione, consegna. L’insegnamento tradizionale è quindi quello che si consegna, intatto, da una generazione all’altra, senza modifiche, senza cambiamenti. La caratteristica fondamentale degli insegnamenti tradizionali, è quindi, l’immutabilità. Ciò che si “consegna”, la “tradizione”, è sempre identico a sé stesso e quindi necessariamente imperfetto, in quanto da sempre immodificato. Un sistema medico tradizionale differisce quindi dalla medicina moderna, in quanto ha rinunciato alla perfettibilità e continua ad utilizzare strumenti, tecniche e teorie tramandate di generazione in generazione sin dalla propria preistoria che in taluni casi può coincidere con la preistoria stessa del mondo. È quindi del tutto ovvio che non si tratti di medicine “scientifiche”. E allora, cosa possono insegnare alla medicina occidentale moderna? È semplice: il valore e il significato dell’imperfezione. Un sistema culturale costruisce un mondo, poiché è un modello all’interno del quale è già deciso cosa sia osservabile e cosa non lo sia, cosa sia vero e cosa sia falso, cosa sia credibile e cosa non lo sia. E questo vale per tutti i sistemi culturali. Ciò accade anche in medicina, dove la ricerca della perfezione si è legittimamente orientata in Occidente verso procedimenti tecnologici sempre più complessi e sofisticati (il che è sicuramente un fatto di una importanza straordinaria) ma l’interesse verso questo approccio “scientifico” ha portato a trascurare molti aspetti della realtà individuale e la loro rilevanza sociale: si tratta degli aspetti emozionali, psicologici, esistenziali.

Le medicine tradizionali, nel loro assoluto disinteresse per gli aspetti tecnologici, hanno invece conservato intatto un patrimonio di precetti, idee, atteggiamenti indirizzati verso la dimensione emozionale, soggettiva e culturale.

Questo patrimonio (questo modo di fare medicina) è impossibile da ritrovare nel medico moderno, nell’ambulatorio asettico, nella prescrizione standardizzata di raffinati esami diagnostici o farmaci. Lo si ritrova invece nella gestualità dello sciamano, nel rito terapeutico dell’uomo della medicina, nella somministrazione di piante che sono al tempo stesso farmaco e simbolo, nel rapporto magico ed esclusivo tra il terapeuta stregone ed il suo paziente. Nelle medicine tradizionali, si ritrova quello che può essere chiamato approccio olistico, unitario, al malato. I sistemi medici tradizionali fanno parte intimamente del proprio contesto culturale, ed è ovvio che riflettono nel proprio corpus dottrinario la complessa trama psicologica, esistenziale, religiosa del gruppo nel cui ambito esse si collocano. Il medico tradizionale è un prodotto della propria cultura, adotta gli stessi criteri di classificazione del mondo dei suoi pazienti, lo schema di riferimento entro il quale colloca le sue conoscenze non differisce da quello nell’ambito del quale si collocano le aspettative del paziente e del gruppo sociale. È ovvio, allora, che il sistema medico tradizionale si presenta come specchio di una cultura unitaria, compatta e coerente, in opposizione alla disgregazione che sembra caratterizzare, nella società occidentale moderna, il rapporto tra medico, paziente e cultura.

Le medicine tradizionali, inoltre, sono in qualche modo la sintesi, la quintessenza, non solo delle culture che le hanno originate, ma anche della cultura umana come astrazione. Sono resti archeologici viventi, ed ognuna differisce da un’altra ma, nella stessa misura, tutte hanno in comune un atto terapeutico originario ed immutato, sul quale si fonda la stessa medicina moderna. È quest’atto che accomuna tutti i sistemi medici, a qualunque epoca, a qualsiasi latitudine, per quanto diverse possano essere le loro caratteristiche apparenti. Ed è per questo che ogni sistema medico può arricchirsi attingendo alle conoscenze di altri sistemi medici, e scambiando con essi il proprio sapere.

La caratteristica delle medicine tradizionali è quella di appartenere allo specifico contesto etnico, culturale, religioso e storico di alcune civiltà e culture. Le medicine tradizionali, allora, non sono in contraddizione con la medicina moderna, ma coesistono storicamente con essa, anzi, in certe zone del globo la sostituiscono, la potenziano o la affiancano. Non è un caso che lo studio delle pratiche mediche tradizionali sia, tutto sommato, un’area di indagine abbastanza recente. O, almeno, è recente l’interesse della medicina per così dire “ufficiale” nei confronti di sistemi medici o di pratiche e strategie che, per loro struttura interna e per concezione scientifica, sono diverse dal sistema, dalle pratiche o dalle strategie della medicina moderna. Già nel 1978 l’Organizzazione Mondiale della Sanità si fece di una corretta valutazione dello stato e della fruibilità delle medicine tradizionali, facendole uscire dal limbo della curiosità etnografica.

Esiste da tempo una diatriba internazionale che riguarda la contrapposizione tra interventi ad alto livello scientifico e assistenza sanitaria minima efficace ed è in questa direzione che sembra necessario muoversi, con generale consenso, sul fatto che l’assistenza sanitaria minima «dovrebbe comprendere la sicurezza del parto, la possibilità per i bambini di crescere sani, la conservazione della salute in età adulta, la protezione degli individui e dei gruppi dalle calamità naturali e l’assistenza ai malati».

Ogni cultura da sempre ha provveduto a tali bisogni in maniera autonoma, in base alla propria esperienza medica e ai propri modelli di salute e malattia. È proprio per questo che l’interesse verso l’etnomedicina diviene una necessità nel momento in cui si opera nel contesto di una strategia planetaria. Diviene fondamentale allora valutare con attenzione le risorse effettivamente disponibili, nel tentativo di comprendere quanto grande debba essere l’impegno della medicina moderna occidentale per raggiungere determinati obiettivi e quanto, invece, tali obiettivi possano essere legittimamente assicurati da sistemi medici alternativi. Ma per capire questo bisogna conoscere tali sistemi, studiarne le caratteristiche etnografiche e scientifiche, le potenzialità terapeutiche e preventive, in una parola, la fruibilità.

Si ha l’impressione che la medicina moderna possa imparare molto dalle medicine tradizionali. Ma cosa? Anzitutto una maggiore vicinanza ai bisogni del paziente, che sono, assai spesso, bisogni emotivi che riverberano molto più di quanto non si pensi sulle condizioni fisiologiche, come afferma tra gli altri Lidz. Non a caso il presupposto comune a tutte le medicine tradizionali è la descrizione della vita come unione di corpo, sensi, mente e anima e, conseguentemente, dello stato di salute come armonia del benessere fisico, spirituale, morale e psicologico.

La considerazione del carattere “morale” e di quello spirituale come facenti parte dell’ecosistema dell’individuo è ciò che maggiormente differenzia la medicina occidentale “ortodossa” da quella tradizionale. Nelle medicine tradizionali il concetto di psicosomatico informa tutta la filosofia e la pratica della medicina, in una prospettiva olistica, della salute e della malattia, dove la medicina per essere realmente tale deve essere necessariamente psicosomatica. In un simile contesto culturale è evidente che qualunque forma di medicina debba essere “integrale” non potendo isolare la malattia dal proprio contesto ecologico e socio culturale. È proprio per queste connotazioni delle medicine tradizionali che una straordinaria importanza viene attribuita al rapporto medico paziente: entrambi abitualmente appartengono alla stessa comunità, il che rende possibile che ogni gesto terapeutico sia culturalmente significativo e psicologicamente efficace. Ogni guaritore tradizionale inoltre ha superato quello che definiremmo un training. Egli è solitamente un membro qualunque di una comunità che ha acquisito l’arte terapeutica per vocazione familiare, per tradizione o superando una grave malattia. Fatta la sua scelta, deve sottoporsi ad un lungo ed estenuante noviziato, durante il quale viene a conoscere non solo le modalità tecniche della sua arte ma anche il mondo del mistero, gli oggetti sacri e le esperienze mistiche, in un lungo apprendistato che precede l’iniziazione. Questo lungo periodo di apprendistato permette al guaritore di liberarsi delle proprie tendenze cattive, narcisistiche, sadomasochistiche ed aggressive, consentendogli quindi di sviluppare col paziente, nella pratica, un rapporto terapeutico esemplare, qualunque sia la terapia che egli usa. È assai diverso, rispetto a quello occidentale, l’atteggiamento del medico nei confronti del paziente inteso come unità composta da molteplici caratteristiche. In occidente il rapporto medico paziente è stato per molto tempo un argomento periferico, anche se non pochi studiosi l’hanno riconosciuto per la sua enorme importanza. Ecco quanto, per esempio, scrive Michael Balint, uno dei più acuti studiosi del problema: «Sopra tutto in conseguenza dell’urbanizzazione, un gran numero di persone ha perso le sue radici e i suoi legami, le grandi famiglie con i loro molteplici ed intimi rapporti tendono a scomparire, e l’individuo diventa sempre più solo, anzi isolato. Se si trova in difficoltà, difficilmente egli ha qualcuno a cui rivolgersi per consiglio, conforto, o anche solo per sfogarsi. Egli è obbligato a contare sempre più unicamente sui propri mezzi. Noi sappiamo che in molti individui, forse in tutti noi, qualsiasi sforzo e tensione mentale ed emotiva si accompagna a varie espressioni corporali o è ad esse equivalente».

Le conseguenze di questa tensione esistenziale, com’è noto, possono essere devastanti. E questo è esattamente ciò che fa il medico guaritore nei sistemi medici tradizionali. Cosa possiamo imparare, dunque? Questo considerare il malato e non la malattia, nel contesto di un ecosistema psicologico familiare, tribale, gruppale sociale, in una parola ‘culturale’. Non è poco. Accettare le medicine tradizionali significa rinunciare all’etnocentrismo ed accettare la diversità delle culture umane, nei loro limiti e nelle loro grandezze. Significa fare del mondo la propria patria, o meglio ancora, fare del mondo e della infinità di culture che lo compongono una affascinante terra da esplorare, con curiosità ed umiltà. Significa adeguarsi ad una affermazione del filosofo medioevale Ugo di San Vittore: «l’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero». «È qui, scrive ancora Balint, in questa fase iniziale non ancora organizzata di una malattia, che è decisiva l’abilità del medico nel prescrivere sé stesso.»

Il medico, il terapeuta cioè, non è solo un tecnico in possesso di conoscenze scientifiche e abilità pratica di natura clinica (la diagnosi e la terapia), ma è (o dovrebbe essere) in qualche modo uno “sciamano”, che deve possedere la capacità di gestire un innato potere terapeutico. In tempi di migrazioni di portata biblica, riflettere sulle modalità di interagire con sistemi medici diversi dal nostro, non è solo una disquisizione intellettuale, ma una necessità sociale.

Giovanni Iannuzzo

Le “rovine circolari” di Sabucina (CL) e Mokarta di Salemi (TP)

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Proseguiamo nell’itinerario degli importanti resti in impianti a base circolare che meritano attenzione. I reperti archeologici più interessanti si possono vedere al Museo Archeologico di Caltanissetta. Sulla base del solo dato museale o di scavo gli archeologi prudentemente si limitano a sostenere che sono “basi di capanne”. Resta la domanda fondamentale: ma insomma questi indigeni al centro delle complesse culture del Mediterraneo non costruivano “edifici religiosi non capannicoli?”

In risposta alla domanda lecita occorre riscoprire la verità di fondo: la differenza fra il “Sacro” ed il “Profano”, come dimostrato ampiamente dalla storia delle religioni o dall’antropologia, è “invenzione” molto recente. Tutto in antico era dimensione del “Sacro”, nei suoi variegati aspetti anche pratici, specie nella forma simbolica e negli orientamenti degli impianti architettonici monumentali o delle stesse forme urbane. Fustel de Coulanges ne “La Città antica” (1868) lo ha scolpito in forma lapidaria: “Tutte le città antiche sono ‘Sante’ perchè costruite attorno ad un Altare.” Il resto è spesso presunzione.

Carmelo Montagna

Foto 1 e 2 Strutture di fondazione circolari (fonte web), Sabucina (CL).

A Mokarta gli scavi della Soprintendenza BB.CC.AA. di Trapani, sono iniziati dal 1994 e a più riprese hanno portato alla luce le strutture abitative. Datazioni dal XIII al X sec. a.C. Le strutture presentano tutte una forma circolare di grande regolarità, con una caratteristica che le rende finora uniche per tipologia in Sicilia: presentano un ingresso con vestibolo “a forcipe” o “a tenaglia”. L’alzato e la copertura era quasi certamente a thòlos con foro centrale.

Foto 3 e 4 Strutture di fondazione circolari ed impianto planimetrico (fonte web).