Termini Imerese, anni 60’ del Cinquecento: lightning storm fa esplodere polveriera del castello ed incendia la città vecchia

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In inglese, lightning storm indica una vera e propria tempesta di fulmini, cioè un evento meteorologico temporalesco nel quale si ha una elevata e pericolosa attività elettrica atmosferica. Nel medioevo, questi eventi molto temuti erano ben noti, tanto è vero che nelle processioni pro serenitate aere, fatte per impetrare la grazia divina di far cessare gli eventi meteorologici eccessivamente piovosi, si recitava l’invocazione «a fulgure et tempestate libera nos Domine».

Le strutture a maggiore elevazione sono quelle più soggette ad essere colpite dagli eventi di lightning storm. E’ evidente che la torre principale del distrutto castello di Termini, elevandosi proprio sulla vetta della rocca calcarea, fosse l’edificio più esposto e più a rischio, affatto adatto ad ospitare un deposito di polveri piriche come è attestato nel Cinquecento.

Nel medioevo, sia la torre maestra, sia le sottostanti carceri del castello prendevano nome dall’antica chiesetta castrense, intitolata a S. Basilio il Grande, come attestano i rogiti notarili. La torre maestra o mastio (o maschio) del castello di Termini, forte della sua posizione naturale, imposta dalle caratteristiche geologiche e geomorfologiche del sito, dal suo terrazzo sommitale permetteva di osservare e controllare un vasto raggio d’azione che si estendeva su gran parte del territorio circostante, torreggiando e dominando agevolmente sull’intera cinta difensiva, su tutte le posizioni di combattimento, su tutte le strade e sulle porte di accesso alla fortezza medievale. La torre principale incombeva sul quartiere detto della Terravecchia, sul quale potevano ricadere le conseguenze di un eventuale incendio che si sarebbe potuto sviluppare nel mastio. Gli effetti di un evento di tale tipologia si sarebbe esteso sulle case sottostanti per la ricaduta di materiale igneo dopo l’esplosione, diffondendosi rapidamente grazie alle forme dell’abitare ancora in uso a quel tempo, caratterizzate da un’elevata densità abitativa come del resto è possibile apprezzare proprio nelle vedute superstiti degli anni 70’ ed 80’ del Cinquecento. Un pericolo notevole, infatti, era dato dal sostanziale addossamento reciproco di abitazioni che esibivano murature perimetrali in comune (donde l’espressione notarile relativa alle unità immobiliari che erano muro comune mediante) con i fabbricati adiacenti, dando origine nel complesso a moduli in sequenza che formavano veri e propri sistemi di lotti disposti a doppio pettine. Le abitazioni a piano terra (terranee) più diffuse erano per la maggior parte unicellulari (catoi), talvolta con copertura a volta (dammusi), anguste e scarsamente illuminate. Le case a piano terreno potevano essere raddoppiate da solai lignei (domus solerata), con coperture esterne realizzate impiegando materiali altamente combustibili, quali il legno e la paglia, diffusamente utilizzati nell’edilizia fortemente economica del tempo. Nella metà del Cinquecento, all’interno dell’area urbana erano ancora molto presenti anche i pagliai, come quello ad uso di un mulo, contiguo ad una casa con solaio, entrambi ubicati «subta [sic] li scali (vicolo con scalinata) quali si va a la ecc[lesi]a di sancto Franc[isc]o» (cfr. rogito del 1550 in Volume primo di scritture diverse, ms. sec. XV-XVII, Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, d’ora in poi AME, ai segni A ζ 1, f. 177 e segg.).

Le finestre delle abitazioni appartenenti alle famiglie meno abbienti erano protette esclusivamente da robuste imposte in legno, mentre in quelle più agiate vi erano telai di legno, sui quali si montavano delle tele cerate, che generalmente si aprivano a compasso e che svolgevano una buona protezione dalle intemperie, lasciando filtrare la luce, al contrario degli scuri che una volta richiusi escludevano ogni illuminazione naturale. In entrambi i casi potevano facilmente costituire un veicolo di diffusione degli incendi. Un’ulteriore facilitazione dell’eventuale espansione delle fiamme era determinata dalla tortuosità e dalla ristrettezza di molti vicoli (vanelle).

Un’altra possibile fonte di propagazione era costituita dalla presenza delle logge (pinnate), allora ancora molto diffuse, generalmente poste in facciata, che accoglievano e difendevano dalle intemperie le attività familiari giornaliere, sia quotidiane, sia commerciali dove riporre i banchi d’esposizione delle mercanzie. La tipologia delle logge spaziava dalle più modeste, essenzialmente aggettanti, costituite quasi esclusivamente da impalcati lignei,  ricoperte da paglia, da incannucciato oppure da tegole, secondo le disponibilità economiche dei proprietari. Le logge in muratura lapidea, sottostanti ad abitazioni private, erano invece di appannaggio dei ceti più abbienti. I loggiati svolgevano anche la funzione importante di luoghi di socializzazione e di ritrovo per gli abitanti all’interno dei vari quartieri. Questi vani, un tempo aperti verso gli spazi pubblici, caratterizzati da un fronte variabile da un solo fornice ad una serie di archi in linea sostenuti da pilastri, finirono poi per essere chiuse e nascoste, o addirittura, rimosse, scomparendo comunque progressivamente alla vista. Per ulteriori approfondimenti rimandiamo il lettore a  G. Cataldi, R. Corona, a cura di, Logge e/y Lonjas. I luoghi del commercio nella storia della città.  Los lugares para el comercio en la historia de la ciudad, Atti del convegno di studi, Firenze, palazzo Vecchio, 20 novembre – 21 novembre 2000, Alinea, Firenze 2001, 192 pp.

Nell’area urbana vi erano pure degli spazi verdi, più o meno ampi, recintati da mura (xilbe o casalina) che spesso non erano altro che ruderi di singole abitazioni preesistenti, talvolta creati dalla coalescenza di nuclei domestici a schiera e, addirittura, di interi isolati.

Sin dal Quattrocento, nei rogiti notarili, appare frequentemente l’indicazione di Quartiere Vecchio, Terra Vetere o Terra Vecchia, cioè della città vecchia, omologa della paleopoli di Palermo, che indicava l’antico nucleo urbano ellenistico-romano e medievale murato, sviluppatosi ai piedi del castello posto sulla vetta calcarea. Tra il 1553 c. ed il 1580, una parte di tale quartiere fu incorporato nel perimetro delle fortificazioni bastionate «alla moderna» del Castello. Il settore settentrionale della Terravecchia, era ubicato sul pittoresco promontorio roccioso della rocca, allungato in senso E-O, proteso sul mare, elevandosi ad una quota massima di c. 62 m s.l.m.

L’area, a partire dagli anni 70’ dell’Ottocento fu ampiamente sventrata fronte mare, dai lavori di cava per la realizzazione del primo tratto del molo foraneo del porto di Termini Imerese, restando superstite il sito dove oggi sorge il teatro Kalòs ed un moncone del promontorio scampato alla distruzione. Questo settore urbano, prima di essere incluso nell’area castrense, era attraversato dal tracciato viario principale della Ruga Porte False che, per l’appunto, prendeva nome dalla Porta Falsa, uno degli ingressi medievali all’area urbana, che dava nome anche all’antico quartiere. La detta porta civica, si apriva a breve distanza dall’apice proteso sul mare del promontorio scomparso, detto per la caratteristica conformazione, Muso di Lupa. La ruga Porte False, a sua volta, era intersecata da diversi vicoli (vanelle o stratunculae), come quello continguo alla antica chiesetta detta di S. Maria La Piccola (S. Maria vocata la Pichula).

Sul fianco settentrionale, la rocca doveva allora apparire come uno spettacolare ed enorme piano inclinato, coincidente con la pendenza naturale degli strati calcarei immergenti a N, il cosiddetto Valàto o Balàto (dall’arabo Balāt, “lastra di pietra”). Per ulteriori approfondimenti, rimandiamo il lettore ai nostri tre fondamentali contributi, precedentemente pubblicati su questa testata giornalistica on-line, relativi agli aspetti geologico-geomorfologici, storici, militari e di evoluzione antropogenica del contesto ambientale, relativamente all’area del diruto castello di Termini Imerese (cfr. P. Bova, A. Contino, Termini Imerese, dal XII al XVI secolo: il promontorio scomparso di “Muso di Lupa” e la tonnara, “Esperonews”, Domenica, 12 Gennaio 2020, Idem, Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari: l’esempio della Rocca del Castello di Termini Imerese dall’Antichità al 1950, “Esperonews”, 14 Settembre 2020; Idem, Termini Imerese, attività militare ed evoluzione del paesaggio: l’esempio della “Rocca dell’Orologio antiquo” tra medioevo e Settecento, “Esperonews”, 20 Dicembre 2020). Il quartiere detto subtus Castrum, ovvero supra lo vagno, sito intra moenia, che si estendeva sul sito dell’attuale Via Serpentina Paolo Balsamo, fu quello che subì il maggiore degrado, sia per il progressivo decadimento del tessuto urbano, sia per gli effetti del catastrofico incendio da lightning storm.

Un accenno all’antico quartiere della Terravecchia di Termini lo troviamo nella pionieristica monumentale opera dello storico e teologo siciliano fra Tommaso Fazello dell’ordine domenicano (Sciacca, 1498 – Palermo, 8 Aprile 1570), il De rebus Siculis dove, relativamente all’anno 1337, si legge: «erat eo tempore Thermæ oppidum exile, sed muro cinctum, quod hodie Terra[m] veterem appellant» (cfr. T. Fazello, F. Thomae Fazelli Siculi or[rdinis]. prædicatorum De rebus Siculis decades duæ, nunc primum in lucem editae. His accessit totius operis index locupletissimus, apud Ioannem Matthaeum Maidam et Franciscum Carraram, Panormi 1558, deca secunda, liber nonum. caput quartum, f. 527). Nella versione italiana del De rebus Siculis dovuta al letterato toscano fra Remigio Nannini dell’ordine domenicano (n. Firenze 1518 c. – ivi, 3 Ottobre 1580), abbiamo la seguente traduzione: «era Termini in quel te[m]po un castel piccolo, ma però cinto di mura, e si chiama hoggi Terravecchia» (cfr. T. Fazello, Le due deche dell’historia di Sicilia, del R. P. M. Tomaso Fazello, siciliano, dell’Ordine de’ Predicatori, divise in venti libri. Tradotte dal latino in lingua toscana dal P. M. Remigio fiorentino, del medesimo Ordine, appresso Domenico, & Gio. Battista Guerra, fratelli, Venetia M. D. LXXIIII., deca II, pp. 787-788).

Siccome dell’antica fortezza rimangono sparute vestigia e l’attività estrattiva di materiale lapideo calcareo ha snaturato del tutto l’assetto geomorfologico del sito, allo stato attuale delle ricerche possiamo avere una conoscenza alquanto limitata di come fosse realmente il mastio medievale. Attualmente, sono note due rappresentazioni più antiche di Termini, entrambe viste dalla marina orientale che, al vertice della rocca, raffigurano il mastio del castello. Queste due raffigurazioni furono realizzate ad inchiostro di china ed acquarello, da due ben noti architetti ed ingegneri militari toscani, al servizio della corona spagnola, che operarono in Sicilia e che visitarono Termini Imerese. La prima veduta, del 1578, è del senese Tiburzio Spannocchi (Siena, 1541 – Madrid, 1606) ed appare inserita nella Descripcion de las marinas de toto el Reino de Sicilia (Biblioteca Nacional de España, Madrid, 1596, manoscritto ai segni ms. 788). La seconda panoramica, del 1584, è del fiorentino Camillo Camilliani (Firenze, c. metà sec. XVI – Palermo, 1603) e reca il titolo Prospetto di Termine Citta [sic], essendo inserita nella raccolta manoscritta della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, contenente anche il rilievo planimetrico del perimetro urbano bastionato e della fortezza (cfr. C. Camiliani, Descrittione delle marine del Regno di Sicilia, ai segni Codex III.N.I.3.). Queste fonti, successive all’evento che stiamo trattando, dal punto di vista architettonico, esibiscono un mastio a pianta quadrangolare. Possiamo ragionevolmente ritenere che i rifacimenti successivi all’evento non abbiano alterato la planimetria originaria del corpo di fabbrica medievale.

L’antico mastio medievale, per ovvie misure strategiche, doveva comunque originariamente fare corpo a sé, rispetto alle restanti strutture castramentali, con accessi complessi e ben distinti da quelli della restante parte della fortezza, anche perché in caso di assedio rimaneva come estremo baluardo contro le forze nemiche. La torre principale, sovrastava nettamente per la maggiore altezza, spessore ed imponenza delle sue strutture murarie, ogni altro edificio castrense, terminando alla sommità con una merlatura provvista da beccatelli e caditoie. Il mastio era verosimilmente scandito al suo interno da più solai di legno che lo separavano in vari piani, raccordati da scalette. I locali posti alla base della struttura fortificata, sovrastati da basse volte murarie e scarsamente illuminati mediante feritoie, erano certamente utilizzati come carceri dalle condizioni igieniche veramente disumane.

Nella scheda redatta dalla storica dell’arte Maria Andaloro, relativa al trittico della Madonna in trono con il Bambino, tra i Santi Giovanni Battista e Michele Arcangelo (tempera su tavola), tradizionalmente attribuito a Gaspare da Pesaro (doc. dal 1413 al 1461) ed aiuti, già in S. Maria della Misericordia, oggi nel museo civico B. Romano di Termini Imerese, viene giustamente evidenziato che la scena raffigurata nella parte centrale della predella può legittimamente essere interpretata come una veduta di un luogo realmente esistente: «Infine nella parte centrale della predella, occhieggia all’orizzonte un paesaggio urbano dai connotati reali. Chiuso nelle mura il forte di Termini Imerese rinserra il castello, una chiesa (di San Ferdinando?), alloggiamenti vari e la porta di sud-ovest da un punto di vista ben preciso» (cfr. M. Andaloro, Gaspare da Pesaro (?) e collaboratori 1453. Trittico, in V. Abbate et al., X Mostra di opere d’arte restaurate, Galleria nazionale della Sicilia, Palermo, catalogo, Galleria nazionale della Sicilia, Regione siciliana, Assessorato per la pubblica istruzione, Soprintendenza per i beni artistici e storici della Sicilia occidentale, Palermo 1977, pp. 44-52, in particolare, p. 48). Non si comprende però come l’emerita studiosa, sia pure in maniera dubitativa, abbia potuto ritenere che la chiesa raffigurata nella predella del trittico quattrocentesco possa essere identificata con quella di San Ferdinando di Castiglia, visto che quest’ultima era ancora lungi a venire, essendo ufficialmente sorta nel 1790 dopo una lunga ed affatto serena diatriba iniziata nel 1781 (cfr. P. Bova, A. Contino, Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari…cit.). Nella realtà storica, si può ribadire che la parrocchiale chiesa di S. Ferdinando del Regio Castello funzionò regolarmente nel primo sessantennio del XIX secolo, come attestano i due corposi registri di essa che si conservano ancor oggi nell’Archivio della Maggior Chiesa di Termini Imerese (cfr. AME,  Parrocchiale chiesa di S. Ferdinando al Castello, Battesimi, Sponsali, Defunti, vol.116, 1800-1823; Idem,  vol. 117, 1824-1860). Tra l’altro, relativamente a San Ferdinando di Castiglia (1198 – 1252), è ben noto che dopo un lungo e complesso iter, papa Clemente X il 7 Febbraio 1671, con il breve Gloriosissimos Coelestis, concedette il culto nei regni di Spagna, e negli stati ad essi soggetti, nonché nella Chiesa dei SS. Giacomo ed Ildefonso della Nazione Spagnola in Roma. In seguito a ciò, nei domini iberici San Ferdinando di Castiglia divenne patrono dei carcerati e l’arma dei genieri dell’esercito spagnolo lo scelse come protettore. A tal proposito, per approfondimenti rimandiamo il lettore alla relativa bibliografia più recente, cfr. J. M. Sanchez de Muniain, San Fernando III de Castilla y de León (1198-1252), “Año Cristiano”, II, Ed. Católica, Madrid 1959, pp. 523-531; F. García Fiz, Las huestes de Fernando III, “Archivo Hispalense. Revista histórica, literaria y artística”, t. 77, Nº. 234-236, 1994, pp. 157-190; C. Vincent-Cassy, El rey Fernando III El “santo” no fue canonizado, “Andalucía en la Historia”, Nº. 34, 2011, pp. 50-52; U. Pacho Sardón, Singularidad del proceso de canonización de Fernando III El Santo, “Isidorianum”, 24/47-48, 2015, pp. 227-252.

Ulteriori illuminanti ragguagli sui luoghi di culto castrensi di Termini Imerese ed, in particolare, sulla nascita della parrocchiale chiesa di S. Ferdinando del Regio Castello ci vengono forniti dal canonico palermitano sac. dottor don Stefano Di Chiara Clementi (1752 – 1837), professore di diritto canonico nell’ateneo palermitano, nel suo prezioso e documentato saggio sulla Cappella Reale di Sicilia, sinora praticamente sconosciuto agli storici locali (cfr. S. Di Chiara, De capella regis Siciliae libri tres adjecta ad calcem capellanorum majorum hujus regni serie nec non monumentorum ejusdem regiae capellae sylloge, typis regiis, Panormi 1815, 198 pp., in particolare, pp. 52-53). Da tale opera apprendiamo che la chiesa di S. Egidio Abate del Castello fu convertita in parrocchia sub titulo s. Ferdinandi ed il cappellano sac. Liborio Rini ne divenne il primo parroco, con il diritto di nominare un sostituto ed un chierico. Nel 1804, i due antichi benefici ecclesiastici relativi alle chiese di S. Egidio e di S. Maria della Consolazione nella Terravecchia che, pur di pertinenza della mensa arcivescovile di Palermo, erano soggetti alla giurisdizione reale, furono concessi al sac. Rini, in qualità di neo parroco castrense, essendo defunto il precedente beneficiario, il canonico don Antonio Musso, decano della cattedrale di Cefalù. Il primo beneficio di diritto regio, relativo a S. Egidio era originariamente legato alla primitiva antichissima chiesa medievale, la quale essendo poi rovinata, ebbe il proprio titolo traslato in un nuovo edificio di culto, ubicato all’interno del recinto del castello posto sulla vetta (dove già esisteva la chiesa di S. Basilio il Grande). Il secondo beneficio, relativo a S. Maria della Consolazione della Terravecchia, pertinente all’antica chiesetta medievale (chiamata anche S. Maria la Pichula), la quale ricadeva nell’area che nella seconda metà del Cinquecento fu incorporata nel novello perimetro bastionato castrense, con il decadimento dell’edificio di culto, fu traslato nell’omonima cappella, sita in S. Egidio del Castello dove, per l’appunto, furono trasferite le suppellettili sacre e, in particolare, l’antica immagine sacra della Vergine, che era oggetto di venerazione. Il Di Chiara ricorda altresì gli altri due benefici di S. Lucia e di S. Antonio Abate, che nel 1806 furono trasformati in cappellanie meramente laiche.

In realtà, nel medioevo l’unica chiesa castrense termitana era quella di S. Basilio il Grande, la quale appare menzionata in un rogito di notar Giuliano Bonafede di Termini Imerese del 16 febbraio V Indizione 1412 e, indirettamente, in un altro del 24 Aprile VI Indizione 1428, dove di fa menzione della strada che conduceva alle carceri della Torre di S. Basilio cioè il mastio (cfr. G. M. Sceusa Provenzano, Termini Imerese Splendidissima, e Fedele Città Della Sicilia, suo Nome, sua Origine, suo culto, e Suoi progressi, sotto i Dominij che il nostro Regno han governato, ms. 1796, Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese, d’ora in poi BLT, ai segni AR d β 22, ff. 47v-48r). Agli inizi del Cinquecento, appare menzionata la chiesa di S. Egidio Abate all’interno del Castello (Sancti Egidi, intus castrum Thermarum) e ciò attesta la definitiva scomparsa dell’omonimo precedente luogo di culto di origine normanna, del quale aveva ereditato il titolo. La chiesa di S. Basilio viene ancora citata, ma senza alcuna prerogativa castrense e ciò induce a sospettare che il ruolo di primario luogo di culto castrense, fosse già passato alla nuova chiesa di S. Egidio Abate del Castello. Quest’ultima, giammai fu parrocchiale, ricadendo nel territorio della Maggior Chiesa e dipendendo da essa. Emblematico, a tal proposito appare l’atto di morte di Filippo Caus, figlio di Giuseppe, quest’ultimo militare di stanza al castello, il quale fu seppellito in detta chiesa castrense il 6 Aprile V Indizione 1697 (cfr. AME, Defunti della Maggior Chiesa e di S. Maria della Consolazione, vol. 101, 1697-1716, f. 112).

L’originaria chiesa normanna di S. Egidio Abate, era dedicata al santo eremita, il cui culto nel medioevo ebbe una straordinaria diffusione nell’occidente cristiano come dimostra la notevole presenza e persistenza nell’onomastica europea (Gilles in francese; Giles in inglese; Gil in castigliano; Gili in catalano). S. Egidio visse anteriormente al X secolo, epoca nella quale appare per la prima volta attestato il suo culto. Egli ebbe probabili origini elleniche ed avrebbe fondato in Francia, nella regione dell’Occitania  (attuale dipartimento del Gard), l’abbazia che da lui prese il nome (nell’odierno comune di Saint-Gilles) e che divenne uno dei più importanti luoghi di pellegrinaggio della cristianità (cfr. Charles Pétouraud, En marge du «Guide du pèlerin de Samt-Jacques-de-Compostelle». Défense et illustration de saint Gilles. éd. de la Guillottière, Lyon 1950, 30 pp.). La chiesa originaria, era ancora esistente nella prima metà del Quattrocento, come attesta un rogito agli atti di notar Giuliano Bonafede del giorno 8 febbraio 1414 (cfr. G. M. Sceusa Provenzano, Termini Imerese Splendidissima, e Fedele Città…ms. BLT cit., f. 48r). Secondo lo storico termitano Mariano De Michele-De Michele (1770-1848) era sita a breve distanza dalle fortificazioni medievali del Castello, nel piano sottostante ad esso (grossomodo nell’area dell’attuale Belvedere), dove nel medioevo sorgevano anche gli altri luoghi di culto dedicati rispettivamente a S. Antonio Abate ed a S. Margherita (cfr. M. De Michele-De Michele, L’ebraismo di Termini Imerese, ciclostile a cura di I. Candioto (contributo alla conoscenza delle Cose nostre), A. S. C. I., Termini Imerese 1950, 44 pp., in particolare, p. 24).

Nella seconda metà del Cinquecento, un evento particolarmente disastroso colpì il mastio ed ebbe devastanti conseguenze anche sul tessuto urbano del centro storico topograficamente sottostante, dove già erano presenti diverse abitazioni in rovina, alcune delle quali divenute dei veri e propri giardini d’inverno. L’evento disastroso è ricordato, sia pure en passant, nella storiografia locale di Termini Imerese e fu causato da un fulmine, abbattutosi sulla struttura del mastio che, vista la notevole energia termica messa in gioco, fu la sorgente di innesco dell’accensione e conseguente esplosione della polveriera. A seguito di ciò, il mastio medievale del castello dovette subire gravissimi danni e successive importanti opere di rifacimento.

Allo stato attuale delle ricerche, il primo studioso noto che riporta tale evento è stato lo storico termitano sac. Giuseppe Benincasa (1735 – 1795), socio dell’accademia «ereina imerese», presso la quale era noto con lo pseudonimo di Melinto Leutronio (cfr. G. Benincasa, Sull’origine e sullo stemma di Termini Imerese, città splendidissima della Sicilia. Dissertazione storico-critica. Amato, Palermo MDCCLXXIX, 64 pp.). Nella parte prima, a p. 20, nota b, il Benincasa, a proposito dell’antichissimo quartiere della Terravecchia, riferisce: «Fu la Terra vecchia in gran parte desolata nell’anno 1571. da un fulmine, che caduto sù [sic] la Torre, nominata la Torre Mastra del Castello, incendiò la polvere da fuoco, che dentro quella conservavasi onde attaccata la fiamma alle vicine Case, tutte le distrusse. Si rilieva [sic] da un Ordine Viceregio, emanato il dì 8. Marzo X. Ind[izione] 1597., in cui fu concesso al Magistrato, ed al Popolo di poterla riedificare, all’oggetto di servirsene per ricovero nelle invasioni de’ nemici. Io non so, se tale disposizione siasi recata ad effetto. Certa cosa è, che coll’andar del tempo abitando i numerosi Cittadini già tutti fuori di essa, restarono i privati edifizj abbandonati ed ermi, anzi che quasi tutti caduti a terra, non vedendosi oggidì che il R[egio]. Castello abitato da’ soli Militari».

Il dispaccio del 1597, emanato dal presidente del regno, Giovanni Ventimiglia marchese di Geraci, che concedeva la riqualificazione della Terravecchia divenuta un quartiere “fantasma”, viene altresì citato dal poligrafo Baldassarre Romano (1794 – 1857) che riporta ancora l’anno 1571 per datare l’evento dell’incendio della polveriera (cfr. B. Romano, Notizie storiche intorno alla città di Termini, biografia dell’autore, cronologie delle opere, premesse e note al testo di A. Contino e S. Mantia, GASM, Termini Imerese 1997, p. 45, nota n. IX). Non è possibile sapere se il Romano ebbe agio di consultare il registro originale oppure utilizzò come fonte il Benincasa.

Nel 2019 abbiamo effettuato un’approfondita ricerca d’archivio, perquisendo dettagliatamente i registri degli atti giuratori, alla ricerca delle fonti principali sincrone concernenti l’evento distruttivo e delle ordinanze inerenti la ricostruzione della Terravecchia. Purtroppo, la serie dei registri si presenta lacunosa, mancando quelli relativi agli anni indizionali 1566-67, 1567-68, 1568-69, 1571-72. Relativamente agli anni indizionali pervenuti, cioè 1569-70, 1570-71 (ms. BLT ai segni III 10 a 8), 1572-73 (ms. BLT ai segni III 10 a 9), l’indagine non ha sortito alcun risultato, poiché la documentazione tace totalmente a proposito dell’evento dell’incendio sul castello che ebbe un impatto devastante anche sul tessuto urbano medievale del centro storico termitano.

Abbiamo altresì ricercato nella serie degli atti giuratori anche le disposizioni volte alla ricostruzione della Terravecchia distrutta. La conferma viceregia già citata dal Benincasa e dal Romano, datata 8 marzo Xa Indizione 1597, non è reperibile, mancando il registro relativo all’anno indizionale 1596-97. Provvidenzialmente, invece, è sopravvissuto il registro dell’anno indizionale 1595-96 (ms. BLT ai segni III 10 a 17), nel quale abbiamo riscoperto e trascritto nella sua interezza l’ordinanza viceregia, ratificata dal Tribunale del Real Patrimonio, data a Palermo il 22 Giugno IXa Indizione 1596, che concedeva la ricostruzione della Terravecchia. Il documento, inoltre, riporta l’antecedente supplica dei giurati (civici amministratori) alle autorità viceregie datata 17 Giugno IXa Indizione 1596.  La trascrizione integrale di tale prezioso e sinora inedito documento, qui pubblicata per la prima volta e nella sua interezza, con tutte le abbreviazioni sciolte, rispettando scrupolosamente l’ortografia originale (compresi eventuali errori ed idiotismi), la offriamo ai nostri lettori nell’apposita appendice documentaria.

La supplica dei giurati esordisce rimarcando l’importanza della fortezza «nominata la terra vecchia» dove, in ogni occasione di pericolo d’invasione di nemici, si andavano a rifugiare sia «tuttj li genti inutili» con le loro masserizie, sia tutta la restante popolazione, «per esser ben situata e sicura». In secondo luogo, i giurati riferiscono che per la vetustà le abitazioni presenti nella Terravecchia, con il tempo sono andate progressivamente in rovina, rimanendo dirute o semi-dirute, per cui diveniva ormai improcrastinabile fronteggiare il già avviato degrado materiale della città vecchia, marcato dalla presenza di case fatiscenti, abbandonate e in rovina, ridotte a casaleni, gravate da censi ed ipoteche che dissuadevano facilmente i proprietari da una conveniente ricostruzione. Tale degrado, aveva avuto il suo inaspettato input, proprio a causa dei danni ingenti prodotti «d’un trono», cioè di un fulmine (l’estensore del documento adopera ‘tuono’ per ‘fulmine’ conformemente all’uso corrente del siciliano), che diede «de foco alla monitione del castello», cioè al deposito delle polveri della fortezza. Pertanto i giurati «come padri et protettorj», desideravano fare in modo che le dette abitazioni fossero riportate «al pristino stato», chiedendo perciò licenza e potestà di agire in tal senso, promulgando apposito bando pubblico, tramite il quale poter intimare i classici otto giorni ai «patroni delle casi rovinati» di detta Terravecchia o Fortezza, ovvero a coloro che sopra di esse detengono «ragioni di censi» di proprietà o di «bolla», al fine di dichiarare per atto scritto redatto a loro spese, se vogliono riedificare le dette abitazioni entro il termine di un anno. In caso contrario, l’unica possibilità era l’espropriazione e l’indennizzo dei proprietari e/o titolari di censi e crediti soggiogativi, previo deposito delle perizie relative al valore «della petra e ligname et altre cose», avendo stabilito un tetto massimo di spesa. I giurati, inoltre, chiesero di poter «stratiare alla moderna», cioè la facoltà di poter tracciare un nuovo assetto viario rettilineo, con il parere del capo mastro delle fabbriche di detta città, evidenziando che tutto ciò risulterà in servizio di sua maestà e per il «comune benefitio» di detta universitas.

Non è da escludere l’esistenza di un vero e proprio piano di riqualificazione della Terravecchia, ideato e progettato dall’architetto civico, Antonino Spatafora (Palermo, c. 1552/53 – Termini Imerese, 22 Giugno 1613) il quale avrebbe diretto le operazioni di tracciamento dei nuovi assi stradali (con l’intersezione di strata mastra e vanella), nonché le misurazioni e verifiche delle opere eseguite. Sull’attività dello Spatafora a Termini Imerese, cfr. P. Bova, A. Contino, Termini Imerese, Antonino Spatafora e il modello ligneo seicentesco della maggior chiesa, in “Esperonews”, 27 Novembre 2021, on-line su questa testata giornalistica).

In risposta alla petizione giuratoria, le autorità centrali disposero che i giurati di Termini, in un giorno di festa, come si costuma,  dovevano congregare il consiglio generale, trasmettendo loro, ed al tribunale del regio patrimonio, la copia della deliberazione, relativa all’ordine del giorno dibattuto ed accordato, al fine di poter procedere alla detta ricostruzione.

Nel medesimo registro giuratorio è presente il Memoriale di quello havera [sic] da tractare Il S[igno]r Giuseppe Solito / uno delli giurati di questa citta [sic] nella citta [sic] di pal[erm]o co[n] S[ua] E[ccellentia]. / et real patrimonio p[er] negotij di questa citta [sic] di t[er]mine. Questo Memoriale ci fornisce ulteriori informazioni riguardanti il procedimento relativo alla restaurazione della Terravecchia. Si legge, infatti, che trascorso il termine di otto giorni, in assenza di un’apposita dichiarazione di voler riedificare le abitazioni, da parte dei proprietari e degli eventuali censuali, «s’intendano dette case libere et exempte [esenti] di d[ett]e graveze [sic]». Inoltre, veniva sollecitato «il memoriale [del deposito] della pol/vere et per co[n]sare le garitj [sic, garitte] delle guardie / et p[er] fare una garita s[opr]a la porta della marina». Il Memoriale appare sottoscritto dai quattro giurati che erano Bernardo Giancardo, Giuseppe Solìto, Egidio Ciuffo e Pietro Bruno, recando la data del 27 Maggio IXa Indizione 1596.

Alcuni proprietari procedettero effettivamente alla ricostruzione, anche se la tempistica fu abbastanza lunga e complessa. Illuminanti, a tal proposito, appaiono alcuni documenti relativi al sac. termitano don Bernardino Romano, la cui casata sin dalla metà del Cinquecento era in possesso di una casa grande (domum magnam) con giardino attiguo, raddoppiata da solai (solerata), composta da più stanze (corpi), sita all’interno della Terravecchia. L’edificio confinava con un’altra abitazione privata appartenente agli eredi di Mastro Antonio Lo Pizzuto (secus domum heredibus Magistri Antoni Lo Pizuto) e con il Balàto (balatum), essendo separati da una strata publica (cfr. Donatio irrevocabilis inter vivos Pro Sacerdote D. Bernardino Romano cum Liviam Romano et Marino ejus sorore, 24 ottobre XII Indizione 1613, in  Miscellanea di documenti relativi alla cappella di S. Filippo Neri nella Maggior Chiesa di Termini di patronato di don Bernardino Romano, AME, mss. sec. XVI-XVII, ai segni B α 14-15). Addì 2 marzo II Indizione 1619, i giurati stipularono un contratto in favore del detto don Bernardino Romano relativo alla concessione di lotti di terreno edificabili per la realizzazione di case di civile abitazione siti nella Terra Vecchia, che erano confinanti con «case dirute ridotte in rovina» (domorum dirutarum in rovinam reducte), come appare dalla Concessio Pro Bernardino Romano cum Spectabilis Juratis Civitatis Thermarum, in Miscellanea…cit.).

il Pitazzo del Testamento Solenne di Don Bernardino Romano del 5 ottobre XIII Indizione 1644, agli atti di notar Vincenzo Pixi, aperto e reso pubblico il 4 Dicembre dello stesso anno (in Miscellanea…cit.), ci conferma che la magna domus precitata era situata «nella cittadella ovvero nella fortezza di questa città da tutti volgarmente chiamata la Terra Vecchia». Il Pitazzo rimandava a due rogiti, uno di notar Cesare Carrozza di Termini del 3 novembre IX Indizione 1550, l’altro di Antonino Martorana del giorno 11 ottobre IIIa Indizione 1574. Va rimarcato, inoltre, che il Pitazzo suddetto faceva esplicito riferimento proprio alla normativa esistente cioè all’ordine del 22 giugno IXa Indizione 1596, da noi rintracciato, nonché alla sinora perduta conferma viceregia del giorno 8 marzo Xa Indizione 1597.

Nella serie delle Lettere viceregie e dispacci patrimoniali della Magna Curia officii Rationum, appartenente del fondo Tribunale del Real Patrimonio, conservata presso l’Archivio di Stato di Palermo, è presente anche quella relativa a Carlo Aragona Tagliavia, soprannominato Magnus Siculus (Palermo, 25 Dicembre 1521 – Madrid, 23 Settembre 1599), 1° principe di Castelvetrano e 1° duca di Terranova, durante il suo primo mandato presidenziale del Regno di Sicilia, essendo assente il viceré don García Álvarez de Toledo (1514 – 1577).

Il repertorio relativo a tale documentazione è stato recentemente pubblicato da Maurizio Vesco (Soprintendenza Archivistica della Sicilia – Archivio di Stato di Palermo), che non solo ha dettagliatamente perquisito il fondo, ma ha inventariato gli atti con il relativo numero di sequenza.

Una di tali lettere, data a Palermo, il 30 Settembre 1567 ed inviata al magnifico Annibale Arcabascio, castellano di Termini, si intitola: Curia circa responsum magnifico castellano castri Termarum super fulgure et diruicione turris dicti castri et expensis pro custodia carceratorum (cfr. M. Vesco, Carlo Aragona Tagliavia, presidente del regno di Sicilia, nelle lettere viceregie del Tribunale del Real patrimonio. Repertorio. I. (1566-1568), Soprintendenza Archivistica della Sicilia – Archivio di Stato di Palermo, Quaderni, Studi e strumenti, V, Palermo 2021, 607 pp., in particolare, Reg. 535, 02.09.1567-22.08.1568, n. 2265, Palermo, 30.09.1567, c. 18v., p. 336).

Il magnifico Annibale Arcabascio, appartenente all’omonima casata termitana, al tempo dell’evento era castellano del Castello di Termini e, pertanto, aveva la custodia della fortezza. La Magna Curia Rationum assolveva una duplice funzione, sia di magistratura garante dell’ordinamento giuridico, sia di organo economico-amministrativo di gestione finanziaria e di opportuna tutela degli interessi e delle proprietà regie, attraverso la scrupolosa vigilanza sui conti e sull’operato dei funzionari amministratori del patrimonio e del demanio regio, svolgendo altresì un ruolo di mediazione tra il potere centrale e periferico. L’ufficio del provveditore ai castelli esercitava il controllo giurisdizionale sulla rete dei funzionari che operavano come castellani presenti nelle fortezze delle città demaniali, occupandosi soprattutto delle vettovaglie e delle dotazioni, nonché dell’ottimale funzionamento delle strutture.

Il conti del Maestro Secreto riportavano nelle voci in uscita, le spese per le riparazioni dei castelli regi, sia ordinari, sia straordinari come quelli relativi ai danni prodotti dal fulmine e la rovina (diruicione) della torre principale del detto castello, nonché le spese per la custodia dei carcerati che tradizionalmente erano alloggiati nelle carceri poste alla base della possente struttura fortificata.

Questo documento d’archivio, dunque, solleva un problema storiografico relativo alla datazione dell’evento catastrofico che, sinora veniva riferito all’anno 1571 secondo quanto riferito dal Benincasa e ripreso da Romano. Pensare a due eventi distinti, con uno scarto di appena un quadriennio, che abbiano determinato entrambi la rovina del mastio, è alquanto improbabile. Siccome non abbiamo a disposizione alcuna fonte coeva consultabile che avalli il presunto anno 1571, dobbiamo pensare ad un errore di trascrizione nel registro giuratorio del 1596-97, oppure ad un abbaglio da parte degli storici locali, in primis il Benincasa. Pertanto, l’evento calamitoso, in base alla fonte documentaria ufficiale, recentemente emersa, cioè una delle lettere viceregie e dispacci patrimoniali della Magna Curia Rationum, va senz’altro retrodatato almeno di un quadriennio.

Nella prima metà degli anni Sessanta del Cinquecento la Sicilia fu funestata da una notevole variabilità climatica, caratterizzata da ripetuti eventi siccitosi, con forti raffiche di vento, portatrici di ondate di caldo, legate allo scirocco, alcuni dei quali colpirono pesantemente anche il Termitano e le Madonie, provocando penurie di piogge, soprattutto in primavera, ed almeno una vittima nel 1565 (cfr. P. Bova, A. Contino, Scirocco e siccità a Termini Imerese e nelle Madonie negli anni 60’ del Cinquecento, in Esperonews”, 28 Luglio 2019, on-line su questa testata giornalistica).

L’anno 1567, relativamente all’ambito del Mediterraneo centrale, fu caratterizzato da una spiccata estremizzazione delle stagioni, come risulta da molte fonti da noi rintracciate e tra le quali abbiamo selezionato le seguenti ritenendole particolarmente significative.

Lo storico corso, rev. sac. Anton Pietro Filippini (n. Vescovato di Casinca presso Bastia, Corsica, 1529 – m. dopo 1594), attesta che l’inverno del 1567 fu particolarmente freddo e tempestoso. Inoltre, il 22 Febbraio di tale anno, un vero e proprio lightning storm si abbatté sulla città di Calvi, posta sulla costa nord-occidentale della Corsica provocando l’accensione del deposito delle munizioni con danni similari a quelli dell’evento di Termini Imerese: «Furono in quei tempi dell’invernata, crudelissimi freddi, accompagnati da continua pioggia, con spessissimi tuoni; laonde del mese di Febraro à ventidui, del mille cinquecento sessanta sette, il Venerdi [sic] mattina nel far del giorno, percuotendo il tuono nella rocca, sia torre di Calvi, s’accese il fuoco nella monitione con tanta ruina, che in fin’al fondamento spiantò quella, con il numero di trentacinque case circovicine [sic] per esser la terra raccolta; cosa veramente in credibile [sic] à sentire, chi vista non l’havesse, e degna di grandissima compassione; mediante la qual ruina oltre alla perdita della robba, vi morirono cento trenta due persone» (cfr. A. P. Filippini, La Historia di Corsica nella quale si narrano tutte le cose seguite da che si comincio habitare, insino all’anno mille cinquecento novanta quattro, Michaeli, Turnon M. D. XCIV., XX+564+XVI pp., in particolare, Lib. XI, p. 478).

Lo storico cremonese Ludovico Cavitelli, invece, rammenta che l’estate del 1567 fu piuttosto torrida (aestas fuit pręter modum torrida, cfr. L. Cavitelli, Annales. Quibus res ubiq[ue] gestas memorabilis à Patriæ suæ Origine usq[ue], Ad annum Salutis 1583, Draconium, Cremonae MDLXXXVIII, p. 356v). Il Cavitelli, inoltre, ci informa che già ad Agosto le condizioni meteorologiche cambiarono drasticamente, tanto che per le abbondanti piogge straripò il Tevere, mentre ad Ottobre i cospicui rovesci fecero uscire dai loro alvei il Po e tutti gli affluenti, nonché anche i corsi d’acqua delle regioni vicine, provocando numerosi danni. In ambito meridionale, lo storico barese Antonio Beatillo, attesta che il 2 Ottobre vi furono grandi piogge che colpirono la Puglia e, in particolare, la città di Bari, tanto che le acque si concentrarono lungo il canale extra moenia, iniziato nel 1501 per volere di Isabella d’Aragona Sforza, duchessa di Bari (Napoli, 2 Ottobre 1470 – ivi, 11 Febbraio 1524), vedova di Gian Galeazzo Maria Sforza, allo scopo di  regimare il corso d’acqua torrentizio detto Lama Picone. Il canale, che era incompiuto, non riuscì a contenere la portata torbida dell’onda di piena che provocò il crollo del ponte di attraversamento: «Durarono il ponte, e le fabriche della Duchessa fino al 1567, nel qual’anno fù [sic] à doi di Octobre si gran diluvio in Terra di Bari, che, scorrendo con empito l’acque piovane per più di venti miglia de strada verso del mare, sboccaron dentro al detto canale, e riempitolo di terra, & altre bruttezze, rovinarono i ripari, e gettarono il ponte a terra, restandone per vestigio fin’hora una raccolta d’acque marine, a guisa d’un picciol lago, che serve tal hora per farvi caccia d’ucelli [sic], e dal nome della Duchessa, che ‘l principiò, vien detto Mare Isabella» (cfr. A. Beatillo, Historia di Bari. Principal città della Puglia nel Regno di Napoli, Savio, Napoli MDCXXXVII, p. 190; si veda anche M. Mossa, The floods in Bari: what history should have taught, “Journal of Hydraulic Research”, Vol. 45, No. 5,  2007, pp. 579-594).

Infine, ricordiamo che nel settore orientale dell’Italia settentrionale, negli anni 60’ del Cinquecento sono documentati diversi eventi di lightning storm; ad es., emblematici appaiono quelli che colpirono ripetutamente Venezia, e nello specifico il campanile di S. Marco, come nella notte tra il 6 ed il 7 giugno 1562, ripetutosi il 4 agosto 1565 e nell’anno 1567 (cfr. G. Gattinoni, Il campanile di San Marco in Venezia. Monografia storica, Emiliana, Venezia 1912, XIV+144 pp., in particolare, p. 38).

Concludendo, il proposito di fare luce sull’evento calamitoso di Termini Imerese, che dovette produrre notevoli danni, soprattutto al castello ed al tessuto urbano, ci ha spinto a compiere ulteriori ricerche archivistiche e bibliografiche al fine di fornire un contributo a questo importante episodio, ancora poco conosciuto, della storia della Splendidissima.

Patrizia Bova e Antonio Contino

 

Ringraziamenti: vogliamo esternare la nostra più sincera gratitudine, per l’essenziale supporto logistico nelle nostre ricerche e per la consueta disponibilità, rispettivamente, al direttore ed al personale della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese. Un ringraziamento particolare va a don Antonio Todaro per averci permesso di effettuare basilari ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese.

 

Appendice documentaria

Ph[ilipp]us etc / Mag[nifi].ci regi fideles dilettj e [sic], stato supplicato / et provisto [sic] del tenor seguente Ill[ustrissi].mo et ex[ellentissi].mo / s[igno].re li giuratj della citta [sic] di t[ermin].e dicino che q[ui].lla / citta [sic] tene una forteza [sic] nominata la t[er]ra / vecchia nella q[ua].le In ogni occasione di sca[n]/dalo d’invasione d’inimici s’han soluto / e, soglino Intrari tuttj li genti inutili co[n] / loro robbe et anco serve p[er] reterata di tutte / l’altre gente di q[ui]lla citta [sic] succedendo Il / caso d’invasione p[er] esser ben situata e sicura, come V[ostra] E[ccellenza], e [sic] Informata et poiche [sic] p[er] esser / l’habitatione di d[ett].a t[er]ra vecchia antiqua / molte case di q[ui]lla di mano In mano si [lemma posto sopra rigo] anno [sic] / andato in rovina  oltre alcune che se ne ro/vinaro [sic] p[er] il successo d’un trono [sic] che die [sic]  / de foco alla monitione del castello esse[n]/do d[ett].a forteza tanto necessaria p[er] lo effetto / p[rede].tto della riterata [sic] et salmame[n]to [sic]  del populo [sic]  di d[ett]a citta [sic] et desidera[n]do li exp[onen].ti / come padri et protettorj di q[ui]lla che d[ett]a habi/tatione si reducesse al pristino stato ricur/rino a V[ostra] E[ccellenza]. Humilmente supplicandola / resti servita p[er] sue opportune l[ette]re dar licenza / et potesta [sic] ad essi  exp[onen].ti di poter far[e] p[ro]mul/gare bando che li patroni delle casi rovi/nati di d[ett]a t[er]ra  vecchia seu forteza et / che s[opr]a q[uill]e ha[n]no ragioni di censi di proprieta [sic] // o bolla fra ter[min].o [sic] di giorni otto abbiano ade/chiarare [sic] p[er] atto Inscriptis nella loro cur[a] / si voglino reedificare d[ett]e case altrimente [sic] / che possino constringer[e] alle p[er]sone facultose / dj d[ett]a citta [sic] a reedificarle a una p[ro]cura fra / ter[min].o [sic] di u[n] anno co[n] farli ancora depositare / a nome di d[ett]i patroni di casi o di ce[n]si il prezo [sic] / della petra e ligname et altre cose che vi / si trovassero face[n]doli a tal effetto Iniun/cionj [sic] penali poiche [sic] no[n] potra[n]no spendere / piu [sic] di onze vinticinque Incirca p[er] uno / e dechiara[n]do d[ett]i patronj di casi o delli ce[n]si / che voglino q[uill]i reedificare che li possino / ancora far iniuntionj penali che li / habbiano a  reedificare fra ter[min].e d’un a[n]no / et che d[ett].a t[er]ra vecchia si possi stratiare [sic] / alla moderna col parere del capo m[ast]ro / delle fabriche [sic] di detta citta [sic] [cioè Antonino Spatafora] che tutto risul/tera Inser[vit]io di sua m[aes].ta e comune ben[efiti].o / di d[ett].a universita [sic] et ricevira[n]no apar/ticolar [sic] gra[tia] da  V[ostra]. E[ccellenza]. Ut altis[si]mo Pan[ormi]: / 17 Junij viiije ind[itione] 1596 renuant[ur] [sic] l[itte]re p[er] esecutione della q[ua].le p[ro]vista vi dicemo / et ordinamo che debbiate In giorno di festa / come e [sic], costuma  [sic] Inquella [sic] citta [sic] congre/gare conseglio g[e]n[era]le dove s’appri[sen]ti laforma [sic] / piu [sic] riuscibile [sic] epiu [sic] comoda a q[es]to ser/vigio e quello che p[er] lo sud[ett]o conseglio // o p[er] la magior parte di quella sara [sic] concluso / et acordato [sic] transmitterete [sic] a noj o al trib[una]le / del regio patrimonio afin che si possi rie/dificare e, far lap[ro]visioni convenientj e, cossi [sic]  / esegate [sic] dat[um] Pan[ormi] die 22° Junij 9e ind[itione] /1596 / Il marchese di Jerachj / [a margine sinistro] Modestus G[ambacurta]. P[ræside]ns / [Franciscus] locad[ellus]:  m[agister]. r[ationalis]. /  do[n] marianus [Migliaccio] m[agister] r[ationalis]. / rutilius  [Xirotta] m[agister] r[ationalis]. / do[n] vincencius [de Vigintimiliis] m[agister] r[ationalis]. / [Miquel] Ideaq[uez] conser[vator] / [a centro] Marius ca[n]nizari[us]. m[agiste]r not[arius]