“La suggeritrice” tra visibile e indicibile: intervista a Emanuela Ersilia Abbadessa

0
74

C’è una scrittura che non si legge soltanto. Ha un ritmo, un respiro, una cadenza che richiama la musica più che la prosa. La si ascolta.  È la scrittura di Emanuela Ersilia Abbadessa, autrice colta e sensibilissima, capace di accordare la densità letteraria alla precisione filologica, la vibrazione affettiva alla misura del suono.

Nata a Catania, laureata in Lettere moderne con una tesi sul carteggio Zandonai-Maugeri, ha dedicato buona parte della sua vita alla musica: come studiosa, come insegnante, come autrice di testi e libretti d’opera. Oggi vive e lavora a Savona, ma è nella sua terra — nella Sicilia che ritorna con forza in molte delle sue pagine — che affondano le sue radici più profonde.

Fin dal suo esordio con Capo Scirocco (Rizzoli, 2013), premiato e finalista in importanti concorsi letterari, la sua voce si è distinta per eleganza e rigore. I suoi romanzi abitano epoche lontane, ma parlano un linguaggio vivo, contemporaneo. Ogni parola è cesellata con cura, ogni frase suona come un passaggio musicale. “Il suono della parola, il concatenarsi delle sillabe per me sono fondamentali”, ci confida. “La parola pronunciata è suono ed è canto, e a quella musicalità non posso rinunciare.

Non a caso il suo ultimo romanzo, La suggeritrice (Neri Pozza, 2024), la parola si fa sussurro, gesto, pausa teatrale. Sullo sfondo di una Palermo densa di ombre e promesse, la voce della protagonista – Franca – si muove tra i margini del visibile e dell’indicibile, suggerendo al lettore non solo battute, ma forme di resistenza interiore.

In questa conversazione intensa e profonda, Emanuela Ersilia Abbadessa ci guida nel cuore della sua scrittura, tra evocazioni storiche e immagini interiori, figure femminili inquiete e richiami segreti alla musica. Ne emerge il ritratto di un’autrice rigorosa e appassionata, sempre fedele alla bellezza, anche quando sceglie di raccontare la ferita, il dubbio, la disobbedienza.

La ringraziamo di cuore per aver accettato con squisita cordialità di condividere con noi il suo pensiero e la sua esperienza.

Nei suoi romanzi, ogni parola sembra scivolare sulla pagina con la grazia di una nota musicale. Quanto conta, per lei, il suono della lingua? E in che modo la sua formazione musicologica si è intrecciata — o forse fusa — con la scrittura letteraria?

Il suono della parola, il concatenarsi delle sillabe per me sono fondamentali, infatti rileggo a voce alta ogni frase che scrivo perché “deve suonarmi”. E se non suona come voglio io, cambio una parola, aggiungo o tolgo sillabe. La parola pronunciata è suono ed è canto e a quella musicalità non posso rinunciare. Credo che la mia formazione generale e musicale abbiano influenzato molto la mia scrittura e il solo fatto che lei mi faccia questa domanda, me lo conferma.

La sua narrativa è abitata da tempi lontani, da atmosfere dense di storia e memoria. Quando scrive, è più archeologa dell’anima o custode di dettagli che rischiano di perdersi? E quale posto occupa l’esattezza storica nell’architettura emotiva del racconto?

Mi sono trovata alle prese con il romanzo storico, fin dal mio esordio, per puro caso. Mi spiego: ogni storia ha un suo tempo e una migliore collocazione e ritengo soltanto una coincidenza che le mie storie abbiano un’ambientazione più opportuna in tempi passati. Nell’ultimo, per esempio, che copre un periodo abbastanza lungo, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta del Novecento, era importante che la vicenda iniziasse alle soglie del boom economico che investì l’Italia del Dopoguerra con la ricostruzione. Erano anni pieni di speranza, in cui le donne cominciavano a trovare un posto diverso nella società e quindi anche le mie protagoniste potevano coltivare i loro sogni professionali e di indipendenza a prescindere dal matrimonio.

Ovviamente il romanzo storico comporta delle fasi di ricerca molto lunghe e io sono probabilmente una maniaca dell’esattezza del particolare. È una cosa che faccio più per me che per i lettori, ciascuno di noi ha piccole e grandi manie, no?

La Sicilia che emerge dalle sue pagine è terra di chiaroscuri, di silenzi eloquenti e passioni sotterranee. Che rapporto ha con questa sua isola-mondo? È per lei radice, ferita o visione?

Probabilmente la Sicilia per me e tutte e tre le cose che ha detto. In Sicilia ci sono le mie radici ma in Sicilia ho anche subito le ferite più dolorose, quelle che hanno lasciato cicatrici ancora visibili. Però la Sicilia e la mia città, Catania, sono anche fantasticheria, illusione, ricordo di un tempo che è stato e non potrà più essere. E i ricordi, per chi non ha più vent’anni, tendono sempre a colorarsi di bello.

In un’epoca che spesso premia l’effimero, lei ha scelto la strada meno battuta della letteratura profonda, densa, pensata. Come vive il dialogo (o la distanza) tra la sua scrittura e il mercato editoriale contemporaneo?

A rischio di dire qualcosa di impopolare, non lo vivo affatto. Nel senso che sono arrivata alla narrativa da adulta (molto adulta) e per caso, non avevo mai pensato di “fare la scrittrice”, quindi penso, vivo e scrivo le mie storie a prescindere dal mercato di oggi che premia soprattutto il romanzo di genere (i gialli anzitutto). Scriverò finché avrò una storia da raccontare e posso soltanto sperare che a qualcuno interessi leggerle quelle storie.

Le sue protagoniste sono figure femminili sfaccettate, complesse, sempre in bilico tra obbedienza e disobbedienza. Quando nasce un personaggio nella sua mente, da dove parte: da una voce, da un gesto, da un dettaglio invisibile agli altri?

In realtà, in me nasce prima la storia e nasce da un’immagine statica: un’istantanea che vedo nella mente e dalla quale prendo le mosse, allargo il campo visivo per vedere cosa viene rubato dall’inquadratura e in quel cosa rintraccio gli elementi per cominciare a conoscere i personaggi che stanno prendendo forma, come in una Polaroid in cui le immagini comparivano a poco a poco sulla carta sensibile. Poi, naturalmente, lavoro sui miei personaggi e, in linea di massima, lo faccio rubando alle persone che vedo i gesti, i micromovimenti del viso, il modo di camminare…

In La suggeritrice la parola si fa corpo, gesto, silenzio teatrale. Palermo, il 1955, una protagonista – Franca – che sembra suggerire anche a noi, lettori, una forma di resistenza interiore. Come si è avvicinata a questa storia? E cosa ha significato per lei darle vita?

Questo romanzo è sicuramente il più intimo che ho scritto. Non perché sia autobiografico ma perché ho regalato a Franca alcune cose di me (dal brutto naso a certe sue asprezze), solo i difetti, per essere precisi. La storia è arrivata perché era il momento giusto per raccontarla anche se scriverla è stato un processo molto doloroso per me, proprio per il carico di inquietudini della protagonista.

Ha più volte dichiarato che scrivere è per lei una necessità, forse anche una forma di sopravvivenza emotiva. Ma cosa accade davvero, quando si trova da sola di fronte alla pagina bianca? È un atto di fiducia, di ribellione o di resa?

Non so in effetti se sia una necessità, tendo a credere che le vere necessità siano le cose che ci tengono in vita, mangiare, dormire… È una cosa che a un certo punto mi metto a fare e che, nei periodi in cui scrivo un romanzo, occupa totalmente il mio tempo, la mia mente e la mia stessa anima. Non mi trovo quasi mai davanti a una pagina bianca, perché quando mi siedo a scrivere, la storia è già tutta scritta nella mia mente, mi occorre soltanto il tempo materiale perché la mente la detti alle dita.

La sua scrittura sembra dialogare con una biblioteca interiore fatta di classici e visioni moderne. Quali autori – o quali voci artistiche – abitano le sue letture più intime? E in che modo, se accade, si fanno strada nella sua voce narrativa?

Prima che una scrittrice sono e preferisco essere una lettrice. La lettura è una delle mie attività preferite in assoluto (leggere sì che per me è una vera necessità). Quindi è inevitabile che, scrivendo, finiscano nelle pagine dei miei romanzi i miei libri preferiti, gli autori che mi hanno formata e che amo. Li potrà scorgere sotto forma di citazione, parafrasi, potranno comparire come libri di una biblioteca ma sono sempre le mie personali letture, i miei amori letterari. Molte volte mi è stato chiesto quali siano i miei romanzi preferiti o gli autori più importanti per la mia formazione ma sono talmente tanti e hanno avuto pesi talmente diversi a seconda dei periodi della mia vita che non so mai se le mie risposte siano corrette o no. Così mi sono attestata su una piccola serie di libri (sempre gli stessi) che, all’occorrenza, cito senza sentirmi troppo in colpa per quelli che ho tralasciato: Le avventure di Pinocchio, I promessi sposi, Le relazioni pericolose sono tra questi.

Tra le righe dei suoi romanzi si muove una bellezza discreta, fatta di pause, omissioni, allusioni. È una scelta consapevole quella di lasciare sempre uno spazio al lettore, o è la scrittura stessa a scegliere per lei quanto dire e quanto nascondere?

Preferisco sempre lasciare la porta socchiusa, non spalancarla del tutto per mostrare ogni cosa. Lascio agli altri la possibilità di restare sulla soglia o entrare e saccheggiare le intimità tra le parole.

Prima di concludere, c’è qualche pensiero, intuizione o riflessione personale che desidera condividere con i nostri lettori e che finora non abbiamo avuto modo di esplorare?

Forse tornerei per un attimo alla musica. Nelle mie pagine mi riferisco a tantissimi brani e non pretendo che chi legge li conosca tutti (d’altra parte la musica in Italia è trattata malissimo nei percorsi di studio e peggio ancora dai media) ma mi piacerebbe sapere che, leggendomi, a qualcuno venga la curiosità di ascoltare il pezzo che ho citato e quindi si fermi, chiuda il libro e prenda il cellulare, questa volta non per aprire i social ma per andare a cercare il brano citato e ascoltarlo. Posso assicurare a tutti che nessuno è mai morto per aver ascoltato un Notturno di Chopin, una Sonata di Beethoven o un’opera di Verdi.

Salvina Cimino

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here