Storici pruriti: il rapporto psicologico fra uomo e parassiti

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Pochi sanno, forse, della vocazione giovanile di George Washington per le lettere. Il futuro fondatore e primo presidente degli Stati Uniti d’America non disdegnava scrivere e non, come si può pensare, versi d’amore: a quattordici anni elaborò niente meno che un “galateo”, anticipando di un paio di secoli l’attuale moda del Bon Ton. Il suo Rules of Civilization (Le regole del vivere civile) conteneva però anche norme un po’ insolite per i nostri tempi: “Non si uccidono – scriveva in un capitolo – parassiti come pulci, pidocchi, zecche, ecc., davanti ad altre persone”. Il che, naturalmente, era un invito, implicito, a provvedere a certe necessità in privato. Necessità che se oggi ci appaiono orripilanti per molti secoli e sino a pochi decenni fa non lo erano affatto; tanto che si racconta che Luigi XI abbia premiato riccamente un cortigiano che gli aveva tolto una pulce dal colletto, fustigandolo quando, la seconda volta, si accorse che l’agire del suo suddito non era dettato da devota cortesia, ma da avidità.

I parassiti e i batteri, insomma, hanno sempre accompagnato l’uomo e non sono affatto associabili – specialmente i primi – ai cosiddetti tempi bui del medioevo o, tutto sommato, dei periodi immediatamente successivi, quando le scarse abitudini igieniche di Isabella regina di Spagna diedero origine a un particolare “colore” sul caffellatte, quello della sua sottoveste

Nel 1970, infatti, in piena èra atomica, un sondaggio effettuato in una scuola inglese rivelò che il 15% degli alunni era infestato dai pidocchi. E già nel 1980 l’ISTAT accertò 26.192 casi di “pediculosi delle collettività” in Italia, il che implica che le scorribande dei pidocchi non sono sicuramente retaggio del passato, tenendo naturalmente presente che i casi reali sono stati certamente molto più numerosi di quelli denunciati e riportati nell’annuario di statistiche sanitarie.

La realtà è, insomma, che i parassiti continuano tranquillamente a proliferare nel loro habitat, un sistema ecologico strettamente interconnesso a quello umano. Per non parlare di lieviti, funghi e batteri.

“La verità, per quanto spiacevole – scrive M. Andrews, autore di un simpatico “vademecum” ai parassiti che convivono con l’uomo (Amici sulla pelle, red./studio relazionale, Como, 1982) – è che ognuno di noi ha sulla pelle tanti batteri e lieviti quanti sono gli abitanti della terra; lungi dall’essere puliti dopo il bagno, scopriremmo, a contarli, che il numero degli organismi sulla nostra pelle aumenta poiché l’acqua calda li fa uscire dagli angoli e dalle fessure in cui si moltiplicano.

Osservando anche solo il dorso della nostra mano, si può comprendere che la pelle è l’habitat di una vasta flora e fauna di creature che si sono evolute con noi attraverso i millenni”.

Una convivenza, questa, che come i costumi di corte settecenteschi dimostrano, non era poi considerata particolarmente sgradevole: nella Francia dell’età dei Lumi vigevano, per esempio, regole molto rigide che impedivano di schiacciarsi i pidocchi in società, tranne che non si fosse tra amici intimi…

Senza contare i batteri e i funghi, circa 200 specie di parassiti devono passare almeno una parte della loro vita in associazione con un vertebrato e l’uomo è uno dei possibili ospiti di questa microfauna. Il che diventa ancora più comprensibile se si pensa che l’organismo umano, durante la filogenesi, è stato “colonizzato” da diverse specie di parassiti che hanno trovato in esso adeguate nicchie ecologiche. Non tutti questi microorganismi, naturalmente, sono patogeni e molti sono rimasti a lungo del tutto sconosciuti; sino a quando, per puro caso, alcuni scienziati dilettanti non hanno avuto la felice idea di scrutare questo mondo in miniatura.

Le prime ipotesi

Prima dell’invenzione dei mezzi che potenziassero l’acuità visiva (lenti d’ingrandimento, microscopi, etc.) una esplorazione obbiettiva era impossibile, anche se non mancavano le teorie sulla struttura del mondo degli insetti e dei parassiti ai quali erano accumunati. E non sempre erano teorie sbagliate: Omero nell’Iliade dice che le mosche sono pericolose in quanto possono depositare le uova nelle ferite e infettarle. È un’idea giusta, ma sarà dimenticata già all’epoca di Ovidio, il quale sosteneva tranquillamente che le vespe si generano dai cavalli morti e gli scarafaggi dalle carcasse degli asini. Anche Plinio, autore della celebre Historia Naturalis e sicuramente buon spirito scientifico, era convinto che alcuni insetti fossero generati dalla sporcizia mediante l’azione dei raggi solari, mentre gli insetti alati nascevano dalla polvere umida che si depositava negli angoli. All’epoca di Sant’Agostino, invece, si riteneva che le api nascessero dal sudore che colava dalle sopracciglia degli schiavi negri. Il problema era naturalmente quello dell’osservazione, spesso sostituita dal semplice commento alle frottole altrui, come nel caso di Mandeville che, nel quattordicesimo secolo, sosteneva di aver visto una pianta con frutti a forma di meloni contenenti un agnello. Quando i frutti maturavano e cadevano a terra, ne fuoriuscivano le zampe dell’agnello che, piantandosi per terra, originavano una nuova pianta. Inutile dire che Mandeville non aveva visto proprio nulla, ma si era limitato a prestar troppo credito alle fantasie di qualche altro autore. D’altra parte sarebbe un errore credere che queste ingenuità fossero frutto della mancanza di un genuino spirito di indagine: Bacone, uno dei fondatori del moderno metodo scientifico, sosteneva che le mosche nascono dalla paglia e dalle stuoie.

Fu intorno al XVI secolo che cominciarono a sorgere le prime ipotesi che collegavano microbi, parassiti e batteri alle malattie; o meglio, che ipotizzavano che alla base delle malattie vi fosse qualcosa di infinitamente piccolo, invisibile e patogeno. Fracastoro da Verona ipotizzò che certe malattie nascessero da semina, “semi” di morbosità, aprendo la strada alla microbiologia ante-litteram. Poi, nel 1651, William Harvey sostenne in un volume che in natura tutto nasce dall’uovo. Le basi teoriche erano state gettate, ancora senza nessuna dimostrazione, e fu in quello stesso periodo che i primi esploratori cominciarono ad addentrarsi nei territori sconosciuti della micro-ecologia.

L’olandese curioso

Furono gli Arabi a introdurre in Europa l’uso della lente d’ingrandimento, che usavano già dal nono secolo; e intorno al diciassettesimo secolo l’arte di costruire strumenti ottici per sopperire a difetti della vista si era ormai diffusa nel Vecchio Continente. Il primo ad utilizzare questa arte e questi strumenti per un “incontro ravvicinato” col mondo dei batteri e dei parassiti non fu, però, uno scienziato, bensì un commerciante olandese, Anton van Leeuwenhoek. Nato nel 1632 a Delft, in un centro fiammingo, possedeva un negozio di tessuti e di articoli per merceria, e non aveva di certo problemi economici. Tra l’altro, era anche ispettore dei vini, dei pesi e delle misure della sua città. Il suo hobby era il microscopio, uno strumento per il quale aveva una vera passione. Egli stesso ne costruì circa duecento, limando personalmente le lenti e apportando delle modifiche per potenziarli. Molava le lenti in modo talvolta bizzarro, eppure le sue modifiche tecniche non furono indifferenti: i suoi microscopi avevano lenti piccole, montate su una base di metallo e un sistema di regolazione a vite che permetteva una buona messa a fuoco; l’oggetto da osservare doveva essere tenuto sulla punta di uno spillo. Aveva costruito anche dei sistemi a 3 lenti, e la loro ridotta lunghezza focale aumentava la potenza dell’ingrandimento. Arrivò ad ottenere ingrandimenti di centosessanta (secondo alcuni persino 200!) volte il diametro, con una lunghezza focale di 5 mm. sono cifre che oggi fanno sorridere, di fronte alle mirabilie dei moderni microscopi elettronici a scansione, ma che, per quell’epoca, erano da capogiro. Con questo strumento, van Leeuwenhoek osservava più o meno tutto quello che gli capitava a tiro. Aveva una curiosità praticamente inesauribile, che si estendeva a tutto. Le sue osservazioni microbiologiche cominciarono proprio per capire un fenomeno apparentemente banale, cioè il motivo per cui il pepe aveva un gusto piccante. Lasciò ammorbidire, allora, alcuni grani di pepe nell’acqua per tre settimane e poi osservò il liquido al microscopio, descrivendo con stupore il risultato di tale osservazione: “ Vi ho visto dentro, con mia grande meraviglia, un numero incredibile di piccoli animaletti di diversi tipi”.

Erano protozoi. Naturalmente, gli risultava difficile stabilire delle misure per descrivere la grandezza degli “animaletti” che osservava, ma non per questo si perse d’animo: utilizzò come unità di misura quella di un granello di sabbia, grande in media 0,8 millimetri. Riuscì a calcolare che cento degli animaletti osservati studiando il pepe, messi in fila, non avrebbero raggiunto nemmeno questa grandezza. Altre volte, trovandosi nella necessità di servirsi di unità di misura più piccole, utilizzò l’occhio del pidocchio…

Eppure, anche con questi metodi poco “ortodossi”, van Leeuwenhoek fece scoperte che rivoluzionarono l’anatomia microscopica. Scoprì i globuli rossi umani, notandone la differenza di forma con quelli dei pesci e degli anfibi; evidenziò le striature delle fibre muscolari; descrisse l’occhio composto degli insetti e gran parte della fauna microscopica degli stagni. Ma la sua scoperta fondamentale fu quella dei batteri e dei protozoi, che nessuno prima di lui aveva descritto con tanta accuratezza, essendo stati solo ipotizzati. Anche questa, come molte altre nella storia della scienza, fu una scoperta casuale. Analizzando al suo microscopio la patina bianca che si era depositata sui denti, vide un intero popolo in movimento, “piccoli animali, più numerosi di tutto il popolo dei Paesi Bassi, che si spostavano nel modo più grazioso”. In un altro periodo storico simili scoperte sarebbero state del tutto dimenticate o, addirittura, avrebbero procurato all’ingegnoso commerciante olandese dei problemi. Invece, proprio in quel periodo si stava organizzando in Inghilterra una società scientifica su basi internazionali, la Royal society. Nel 1662 essa tenne la prima riunione, nel Gresham college. I suoi fini erano quelli di fare progredire le conoscenze scientifiche, in special modo mediante l’osservazione e gli esperimenti, e di portare ad “un ulteriore sviluppo delle scienze naturali e delle arti umane”.

Una simile istituzione (patrocinata dallo stesso Carlo II, che comunque si divertiva all’idea che esistessero persone interessate a pesare l’aria) era l’ideale per divulgare le scoperte di van Leeuwenhoek e per aprire un dibattito scientifico. Le sue osservazioni furono quindi tradotte e discusse oltre Manica. Egli divenne ben presto noto nel mondo scientifico (nel 1680 fu nominato membro della Royal Society) e anche nella buona società dell’epoca. Le signore sembra che facessero a gara nel volere osservare quelle strane creature che il microscopio ingigantiva, non senza, talvolta, reazioni poco “scientifiche”: “Molte signore perbene – scrive lo studioso olandese alla Royal Society – vengono a casa mia spinte dalla curiosità di vedere i piccoli vermi dell’aceto; ma alcune restano tanto disgustate dallo spettacolo che giurano di non usare più aceto in vita loro. Che farebbero allora se sapessero che ci sono più esseri viventi nella loro bocca che in tutto il regno?”. Probabilmente si sarebbero comportate come quella donna di servizio alla quale il batteriologo Theodore Rosebury, durante una dimostrazione per gli studenti, prelevò un campione di tartaro dentario e glielo mostrò al microscopio: la donna, impressionata, si fece cambiare tutti i denti…

Le scoperte di van Leeuwenhoek avevano delle implicazioni mediche evidenti; egli per esempio aveva notato che gli “animaletti” erano presenti in maggior quantità nelle persone che si lavavano poco i denti e che essi erano uccisi dall’aceto. Nello stesso tempo, le sue osservazioni avevano aperto la strada alla comprensione delle malattie infettive. Dopo che ebbe riportato le sue osservazioni sulle creature che vi erano in una goccia d’acqua (calcolò che fossero circa 8 milioni), sulle Philosophical Transactions della Royal Society, un altro corrispondente aveva osservato: “Tali scoperte sono un po’ troppo curiose e possono indurci a pensare che anche l’aria sia infestata da questi vermetti, e soprattutto durante i periodi di bonaccia, o quando spirano i venti dall’est, o in primavera quando vi è umidità nell’aria, e insomma in tutte le stagioni di maggior incidenza di infezioni nell’uomo e negli animali”. La lettera fu dimenticata, ma l’intuizione che conteneva era esatta. Leeuwenhoek fece numerose altre scoperte (per esempio quella degli spermatozoi: nel comunicarla a Henry Oldenburg, segretario della Royal Society, si scusò però della sgradevolezza dell’argomento…) e perfezionò l’uso del microscopio: sembra che abbia scoperto il sistema di illuminazione su fondo scuro, il che gli consentì osservazioni che per più di un secolo e mezzo rimasero insuperate. Lasciò in eredità alla Royal Society ventisei microscopi montati in argento, contenuti in una speciale cassa per trasportarli agevolmente, e ognuno dei quali con un esemplare diverso. Naturalmente, andarono persi, ma gli studiosi inglesi ebbero l’accortezza di smarrirli dopo aver misurato la potenza d’ingrandimento delle lenti. Si apriva l’era della microscopia.

I successori

Gli studi di Leeuwenhoek influenzarono la concezione della natura della sua epoca. Tra gli altri impressionarono anche la fantasia di Jonathan Swift, che descrisse il suo Gulliver, caduto in mano ai Lillipuziani, con l’accuratezza di un microscopista, mettendone in evidenza gli aspetti più insoliti:”…mi confessò che la mia faccia era una vista davvero disgustosa. Disse che sulla mia pelle gli apparivano fori larghissimi, e che i peli della mia barba erano dieci volte più grossi delle setole di un cinghiale, e il colorito veramente spiacevole”. E quando incontra i pidocchi di Brobdingnac ne descrive le varie parti del corpo, che vedeva “molto meglio che quelle di un pidocchio europeo attraverso il microscopio”. Insomma col microscopio era cambiata un’epoca. Anche se il merito fondamentale fu del modesto e laborioso commerciante-scienziato fiammingo, i suoi studi vennero presto affiancati da quelli di altri scienziati. Che  Kircher, per esempio, che insegnava filosofia nell’Università di Wurzburg, aveva esaminato il sangue di appestati, trovandovi “innumerevoli grovigli di piccoli  vermi, non visibili a occhio nudo”. Naturalmente, egli non aveva scoperto i bacilli della peste, perché le lenti che usava nell’osservazione non erano tanto potenti, bensì globuli rossi impilati. Comunque aveva dedotto che le malattie contagiose fossero trasmesse da organismi microscopici. Sembra comunque che il primo in assoluto ad aver utilizzato il microscopio in medicina sia stato Pierre Borel, medico di Luigi XIV, autore nel 1655 del Centuria Observatorum Microscopiarum, un volume che descrive tra l’altro minuscoli insetti presenti nell’aria che causerebbero la peste e dei “vermi” nel sangue degli appestati. Si tratta probabilmente delle prime evidenze della connessione tra microbi e malattie. Sempre tra i contemporanei di van Leeuwenhoek, bisogna ricordare Jan Swammerdam, autore di un’opera iconograficamente stupenda, pubblicata postuma, Bybel deer Nature, la Bibbia della natura, che riporta le sue osservazioni microscopiche. O Robert Hooke, microscopista inglese autore di una celebre e raffinata Micrographia, e coniatore del termine “cellula” derivato dalle sue osservazioni sulla struttura del sughero. Insomma tra il Sei e il Settecento numerosi pionieri aprirono la strada dell’esplorazione microscopica.

Eppure per trovare le prime applicazioni pratiche di queste scoperte alla biologia e alla medicina bisognò aspettare il XIX secolo, esattamente sino al 1839, quando Matthias Jacob Schleiden e Theodor Schwann enunciarono la “teoria cellulare”, poi elaborata da Goodsir e Virchow, che rappresenta uno dei cardini della moderna biologia. Per quanto riguarda invece più strettamente la batteriologia e la parassitologia, bisognò attendere che Pasteur dimostrasse l’esistenza di queste microscopiche creature e il loro ruolo nelle infezioni. Da allora in poi, la storia dei batteri e dei parassiti è ampiamente nota. Meno note sono, forse, le implicazioni psicologiche che ebbero su Pasteur le sue stesse scoperte. Il celebre scienziato che riuscì a mettere in relazione i “vermetti” di Leeuwenhoek con le malattie, sviluppò una morbosa preoccupazione per la sporcizia e le infezioni. Evitava, per esempio, di stringere la mano per paura di contrarre qualche morbo infettivo. Prima di accingersi a pranzare puliva accuratamente piatto e bicchiere col tovagliolo ed esaminava scrupolosamente il pane per toglierne eventuali corpi estranei “contaminanti” (fili di stoffa, resti di insetti, e via dicendo).

E non è detto che vi fossero realmente. “Cercavo anch’io – racconta un suo assistente – nella mia porzione che proveniva dalla stessa pagnotta i corpi estranei che Pasteur trovava, ma non scoprivo mai nulla”.

Da Pasteur in poi uno degli obiettivi fondamentali della medicina è stato la realizzazione di metodi di antisepsi e disinfestazione sempre più efficaci. Se questo ha avuto indiscutibili effetti positivi sulle condizioni igieniche e sanitarie, ha anche avuto una conseguenza negativa: quella cioè di annientare indiscriminatamente un intero sistema ecologico che non sempre è patogeno per l’uomo. Basta pensare ai deleteri effetti del DDT o ai fenomeni di resistenza agli antibiotici evidenziati in numerose specie batteriche. Probabilmente l’ossessione dell’asepsi e della disinfestazione più radicale è dovuta al senso di disgusto che si prova al pensiero di avere addosso milioni di animaletti microscopici e brulicanti.

Talvolta questo senso di disgusto assume le caratteristiche di un disturbo psichiatrico (come nel caso dell’entomofobia, o paura degli insetti, o nel caso della paura di essere “infetti”, un chiaro sintomo ossessivo), ma a parte questi casi estremi il nostro rapporto con microbi e parassiti è mediato dalla cultura dominante in un dato momento storico; ora si inorridisce per fatti che, all’epoca di Washington, erano considerati normali, come la banale presenza di pidocchi nell’incipriato crine di una dama.

D’altra parte, l’idea di sterminare tutti i batteri e i parassiti è, oltre che assurda, fantascientifica: nel 1971 gli astronauti dell’Apollo 12 recuperarono una macchina fotografica lasciata sulla Luna due anni prima. Gli scienziati di Houston scoprirono che era ancora contaminata dagli stessi batteri terrestri che la abitavano prima del viaggio spaziale e dei due anni di permanenza sul satellite, ai quali erano sopravvissuti. Batteri e parassiti, infatti, sono specie resistenti e antichissime. Come afferma il più antico poema in lingua inglese (On the antiquity of parasites, Sull’antichità dei parassiti) “Adamo li aveva”. E anche noi, nell’ era dei computer, continuiamo ad averli.

Giovanni Iannuzzo