Trame mercantili ed artistiche dalle Fiandre a Termini Imerese tra Cinquecento e Seicento

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Le Fiandre (anticamente Fiandra) costituiscono una regione storico-geografica ed un territorio “linguistico” dell’Europa nord-occidentale, con un nucleo prospiciente sul mare del Nord,

grossolanamente racchiuso a meridione dai fiumi Schelda e Lys, facente parte dei Paesi Bassi ed oggi del sistema federale del Belgio. In realtà, l’area storico-linguistica travalica il confine politico belga, spingendosi nella limitrofa Francia (Dunkerque, Armentières), e parimenti a N nelle Fiandre zelandesi, pertinenti all’Olanda.

Come ha messo in evidenza Giovanna Petti Balbi (Università degli Studi di Genova, già Professore ordinario presso il Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia), sin dagli anni  ottanta del secolo XII, mercanti della Fiandra con le loro merci, attraverso la valle del Rodano avevano come punto di riferimento il porto di Genova quale sbocco privilegiato, per mezzo del Tirreno nel Mediterraneo, scegliendolo come centro di smistamento della loro produzione tessile (cfr. G. Petti Balbi, I rapporti tra Genova e il mondo fiammingo, in C. Cavalli Traverso, a cura di, Primitivi: fiamminghi in Liguria, Le Mani-Microart’S, Genova 2003, pp. 9-18).

Anche la Sicilia e le Fiandre, durante il Medioevo ed il Rinascimento ebbero rapporti rilevanti, sia commerciali che culturali (cfr. R. Carchiolo, F. Raimondi, M. Parada López de Corselas, a cura di, Corrispondenze e scambi tra il Mediterraneo e le Fiandre: la cultura artistica in Sicilia tra Medioevo e Rinascimento, atti del convegno Caltagirone, Museo diocesano, 25 Ottobre 2019, Regione Siciliana, Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana, Dipartimento dei beni culturali e dell’identità siciliana, Lussografica, 2020, 182 pp.). Nei secoli XVI e XVII, la Sicilia e le Fiandre erano accomunate dal fatto di essere entrambe sottoposte al dominio spagnolo. Lo storico statunitense Charles P. Kindleberger (1910–2003) riferisce che nel Seicento le navi provenienti dalla Fiandra, giungevano in Sicilia attraverso le rotte atlantiche, eludendo ormai l’intermediazione genovese (cfr. Charles P. Kindleberger, I primi del mondo. Come nasce e come muore l’egemonia delle grandi potenze, Donzelli, Roma 2003, 352 pp., in particolare, p. 57).

Le prime tracce di colonie mercantili di Fiandra rimontano almeno al 1570. Lo storico inglese Jonathan Irvine Israel (n.1946), ha messo in evidenza come nel Seicento, anche se con alterne vicende, si assistette all’apogeo del fenomeno di insediamento di colonie mercantili di Fiandra nel bacino del Mediterraneo. Gli abili commercianti del Nord Europa scelsero letteralmente di trasmigrare alla scoperta di nuovi territori mercantili meridionali, attraverso l’Atlantico immettendosi nel Mediterraneo superando lo stretto di Gibilterra. Essi crearono abilmente una vasta e ben organizzata rete che si estendeva da Cadice a Costantinopoli ed Aleppo e che prosperò sino a declinare rapidamente nell’ultimo decennio del secolo XVII (cfr. J. I. Israel, The phases of the Dutch Straatvaart (1590-1713). A chapter in the economic history of the Mediterranean, in “Tijdschrift voor geschiedenis”, XCVI, 1986, pp. 1-30; Idem, The Dutch merchant colonies in the Mediterranean during the seventeenth century, in “Renaissance and Modern Studies”, XXX, 1986, 1, pp. 87-108). Il commercio e navigazione (vaart) attraverso lo stretto (straat) di Gibilterra è stato studiato anche da Maartje van Gelder (cfr. M. van Gelder, Supplying the Serenissima: The Role of Flemish Merchants in the Venetian Grain Trade during the First Phase of the Straatvaart. “International Journal of Maritime History”,  December 2004, 16(2), pp. 39-60).

Termini Imerese, grazie alla sua collocazione sul Tirreno meridionale, ed alla prerogativa di essere contornata da un vasto entroterra solcato dai fiumi S. Leonardo, Torto ed Imera Settentrionale, costituì per secolo non solo il «granaio di Palermo e di Messina», ma uno dei grandi collettori di vettovaglie della Sicilia, almeno per il settore centro-settentrionale [cfr. P. Bova, A. Contino, Memorie di Ragusa dalmata (attuale Dubrovnik in Croazia)a Termini Imerese (XIV-XVII sec.), Mercoledì, in “Esperonews: Giornale del Comprensorio Termini-Cefalù-Madonie”, 5 Dicembre 2018, on-line in questa testata giornalistica]. Il legame imprescindibile ed inscindibile della cittadina demaniale con l’entroterra termitano e madonita, mantenne un interscambio incessante, capace di sostenere il movimento di carico-scarico della rada, nell’ambito di un fiorentissimo commercio di transito, nonostante l’assoluta mancanza di un imbarcadero stabile e nonostante il fenomeno del progressivo interrimento costiero. Le attività che ruotavano attorno al Caricatore ed all’area portuale, oltre ai commerci internazionali, gestiti spesso da imprenditori di origine non siciliana (che non disdegnavano affatto di stipulare apposite compagnie commerciali coinvolgendo gli impresari termitani), ma trapiantati stabilmente nell’Isola, hanno dato vita anche ad attività marittime specializzate (ad es. le tonnare), ad un fitto cabotaggio tirrenico e ad una piccola e media imprenditoria armatoriale dedita alla pesca. Le attività legate all’area portuale hanno avuto importanti ricadute in altri settori commerciali, a partire da quelli agricolo, manifatturiero, creditizio, permettendo l’incremento di negozianti, bottegai, commissionari (sensali), artigiani e tecnici specializzati in molteplici lavorazioni e lavoranti di varia tipologia ed abilità.

Una tematica di rilievo per la storia urbana di Termini Imerese è data sicuramente dall’installazione di comunità “straniere” all’interno del perimetro urbano medievale e/o nei “borghi” extraurbani (nella seconda metà del Cinquecento progressivamente e definitivamente inglobati nella cerchia muraria), vere e proprie colonie commerciali “straniere”: amalfitane, veneziane, liguri, toscane (pisane, lucchesi) ragusee, greche, francesi, lombarde, napoletane, catalane, solo per citare quelle più rilevanti. Ci preme sottolineare che le scelte di localizzazione delle colonie straniere a Termini Imerese non furono affatto casuali, ma legati ad opportune strategie commerciali, nonché alla presenza di due siti di attracco naturali ubicate rispettivamente ad oriente ed occidente della Rocca del Castello: la grande rada costiera sul lido, esposta però allo scirocco e la piccola cala della Fossola, battuta dai venti settentrionali.

In particolare, la piccola cala della Fossola, ubicata allo sbocco in mare dell’omonimo torrente, era servita da una erta stradina, che permetteva di accedere alla parte alta della cittadina, attraverso il superamento di un ingresso civico medioevale detto di Chaltigegne, poi  sostituito da una porta ubicata più ad occidente ed inserita nel sistema fortificato cinquecentesco [cfr. A. Contino, Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese (Sicilia centro-settentrionale), Giambra, Terme Vigliatore 2019, pp. 176-181]. Ciò permette di spiegare la curiosa collocazione topograficamente elevata, a Termini Alta, delle colonie amalfitane, veneziane e genovesi come si evince dai luoghi di culto rispettivamente dedicati a S. Andrea, S. Marco e S. Giorgio, quest’ultimo in S. Maria di Gesù-La Gancia (cfr. P. Bova e A. Contino, Termini Imerese, la città medievale e gli amalfitani tra il XIII ed il XVI secolo, in “Esperonews: Giornale del Comprensorio Termini-Cefalù-Madonie”, Sabato 19 Ottobre 2019; Idem, La Serenissima e la Splendidissima: memorie di Venezia a Termini Imerese tra il XIV e il XVII sec., Sabato, 4 Agosto 2018, Idem, Mercanti genovesi a Termini Imerese nel Seicento: la transazione tra Ippolito Malaspina e Pietro Maggiolo per la fregata “Santa Maria di Porto Salvo e San Giuseppe”, Sabato, 1 Maggio 2021, su questa testata giornalistica on-line).

La presenza della grande rada orientale, con i suoi traffici commerciali imperniati sul Caricatore, sicuramente ebbe un effetto trainante nell’espansione della città bassa medievale lungo il lido, dove peraltro si venne ad insediare la comunità pisana responsabile di un cospicuo incremento edilizio e demografico [cfr. A. Contino, Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese (Sicilia centro-settentrionale), Giambra, Terme Vigliatore 2019, p. 165 e pp. 172-173; P. Bova, A. Contino, Dalla Liguria a Termini Imerese: la casata nobiliare dei Priarùggia tra Cinquecento e Seicento, in “Esperonews: Giornale del Comprensorio Termini-Cefalù-Madonie”, Domenica, 6 Giugno 2021, su questa testata giornalistica on-line).

Le colonie “straniere” erano costituite da membri accomunati da tratti comuni, linguistici, culturali, tradizionali etc., con spazi urbani non totalmente privatizzati e non delimitati da confini, ma marcati da denominazioni di contrade, di strade, di logge e di edifici di culto di loro pertinenza (chiese o cappelle) dedicati ai santi patroni d’origine, e dalla presenza di taverne, di fondaci e di banchi gestiti da appartenenti alle comunità.

Il grande caricatore di Termini Imerese che produsse la fortuna economica della cittadina sino agli inizi dell’Ottocento, quindi, non poteva non attirare anche i mercanti provenienti dal Belgio e dall’Olanda, dapprima per fare incetta soprattutto di cereali, sino a dimorare o addirittura stabilirsi nella cittadina. Nel Seicento, inoltre, la cittadina imerese esportava via mare, anche tramite imbarcazioni di Fiandra, oltre ai cereali, i prodotti zuccherieri che si producevano negli opifici (trappeti) del circondario. Ad esempio, il 14 Giugno 1636 la nave di capitan Florio Richisen «fiamingo», nel carico che trasportava proveniente da Termini, avendo come mittente il genovese Battista Benso, comprendeva oltre a tartaro di vino in botte e sommacco (per la concia), anche 132 caratelli (botticelle di varia misura) di melassa (cfr. C. Trasselli, Storia dello zucchero siciliano, Unione delle Camere di Commercio Industria Artigianato ed Agricoltura della Regione Siciliana, Storia Economica di Sicilia – Testi e ricerche, introduzione di O. Cancila, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1982, pp. 287-288).

La prova fondamentale che quasi certamente testimonia l’apice della presenza di immigrati provenienti dalle Fiandre in Termini Imerese allo scadere del secondo decennio del Seicento, si deve alle ricerche ed alle scoperte degli scriventi. Il dato documentario da noi rintracciato, dimostra indirettamente che lo scalo termitano, almeno nella seconda metà del Cinquecento,  fu frequentato dai mercanti del nord e ciò è stato  prodromico per la nascita del successivo consolato seicentesco.

Nel registro dell’anno XIIa Indizione 1628-29 degli «Atti dei Magnifici Giurati della Splendidissima e Fedele città di Termini» e, in particolare, in data 30 Agosto 1629, appare la ratifica di una lettera patente, data il 10 Maggio del medesimo anno, nel quale un certo Hector Van Achthoven (nel manoscritto appare la grafia con concatenazione: Vanacthoven), console generale delle Fiandre: Consul gen[era]lis totius huius Siciliae Regni Flamingorum, residente a Messina, concedette la patente di console locale in Termini Imerese a Giuseppe Maltesi (cfr. Atti dei Magnifici Giurati della Splendidissima e Fedele Città di Termini, d’ora in poi AMG, manoscritto della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese, d’ora in poi BLT, 1629-30, ai segni III 10 b 6, f. 261).

Qui apriamo una piccola parentesi, rammentando che van (leggi fan), prefisso tipico di molti cognomi delle Fiandre (noto come tussenvoegsel), è una preposizione, con funzione patronimica (figlio di) oppure toponimica (indicante la provenienza da una località geografica, come nel caso in questione, cfr. G. van Berkel, K. Samplonius, Nederlandse plaatsnamen verklaard, Mijnbestseller Nederland, Rotterdam 2018, 754 pp., s.v. Achthoven).

Tornando all’atto patente, il documento dimostra inconfutabilmente la presenza stabile nella cittadina imerese di immigrati provenienti dalle Fiandre, «dimoranti» o «degenti», costituenti una «Natione». Quest’ultimo termine, sin dal medioevo designava le rappresentanze dei mercanti forestieri presenti sulle piazze commerciali, quale era senza alcun dubbio Termini Imerese, distinte in base all’area geografica e geopolitica di provenienza. L’avallo dell’autorità governativa locale dello status di «Natione» contemplava la concessione di opportune agevolazioni di natura daziaria e fiscale, nonché giurisdizionale, sottraendo gli appartenenti alla sfera d’azione giuridica locale per essere giudicati in base alla legislazione vigente nella loro madrepatria.  Il console locale, dirigente della «Natione» in una determinata piazza commerciale, era eletto in genere per un anno indizionale direttamente dal console generale, in questo caso di Sicilia, che ratificava la scelta effettuata con una apposita lettera patente. Il console rappresentava gli interessi della madrepatria di fronte le autorità locali, tutelava i connazionali e i loro privilegi (ratificati da precedenti accordi politici bilaterali), amministrava la giustizia, provvedeva a mantenere il dovuto decoro ed il buon andamento della «Natione» mediante la riscossione dei contributi e delle tasse versate dagli stessi mercanti, inseriti in appositi liste, in base all’entità dei loro guadagni, non ultimo doveva anche dirimere eventuali controversie, tutelare le vedove e gli orfani. Cardine portante delle colonie erano le grandi famiglie mercantili, imprenditoriali ed armatoriali, residenti in città in virtù delle loro attività.

Il console, dovette avere a Termini una propria sede pubblica con un apposito ufficio di cancelleria nel quale lavoravano dei subalterni alle sue dipendenze (notaio, segretario, scrivano etc.). Allo stato attuale delle ricerche, non abbiamo riscontri archivistici né relativamente alla collocazione della sede consolare, né all’eventuale presenza di un luogo di culto dedicato al santo fiammingo San Giuliano detto l’ospitaliere. Il fulcro commerciale dei mercanti di stoffe in Termini Imerese era a quel tempo l’attuale Via Vittorio Emanuele, allora denominata Strada dei Mercanti che, come proposto da uno degli scriventi, per continuità d’uso prese il posto della medievale Ruga dei Lattarini, analoga di quella di Palermo, con loggiati per la vendita di tali mercanzie [per ulteriori approfondimenti, cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 170]. Non è da escludere che il consolato predetto fosse collocato proprio in questo quartiere, magari adornato da un loggiato antistante, come era consuetudine anche a Palermo (cfr. M. Palamara, Lonjas de Sicilia, in S. Lara Ortega, coordinador, La Lonja, un monumento del II para el III milenio, Fundación Valencia Tercer Milenio – Ajuntamient de Valencia, Valencia 2000, 306 pp.). E’ altresì possibile che la sede del consolato fosse semplicemente l’abitazione o una dependance di Giuseppe Maltese.

La presenza del console generale di Fiandra a Messina, non è certamente casuale, poiché la città dello Stretto era allora un porto di primaria rilevanza, preminenza che si mantenne almeno fino alla tremenda rivolta filo-francese contro la corona spagnola (che reggeva l’Isola), che sancì la debacle economica zanclea [cfr. S. Di Bella, a cura di, La rivolta di Messina (1674-78) e il mondo mediterraneo nella seconda metà del Seicento, Atti convegno storico internazionale, Messina, Aula Magna dell’Università, 10-12 Ottobre 1975, Pellegrini Editore, Cosenza 2001, 496 pp.]. Messina era veramente una città cosmopolita, ed i mercanti locali erano adusi ad essere attivi sulle rotte internazionali grazie anche al grande porto falcato che costituiva un importante sito di raccolta e di smistamento dell’import commerciale alla volta di altre località siciliane, costituendo, talvolta, anche la funzione di ridistribuzione delle merci levantine in direzione del settore nord europeo.  Del resto, colonie e consolati messinesi erano presenti in Liguria (ad es. a Genova), in Inghilterra (ad es. a Londra) e nelle Fiandre (ad es. ad Anversa). Nella città dello stretto giungevano panni e tele di provenienza francese, inglese, fiamminga, cotone dalla Calabria e da Malta (cfr. C. Trasselli, I messinesi tra Quattro e Cinquecento, Arti Grafiche Siciliane, Palermo 1973; C. Salvo, Giurati, feudatari, mercanti. L’élite urbana a Messina tra Medio Evo ed età moderna, Collezione di studi meridionali, Bibliopolis, Napoli 1995, 230 pp., in particolare, pp. 148-150).

Nei documenti messinesi spicca il nome proprio del console di Fiandra, Hector Van Achtoven o Van Achthoven. Lo storico dell’arte messinese, sac. Francesco Susinno (Messina, c. 1660/1670 – ivi, c. 1739) , ben informato di quanto accadeva nella prima metà del secolo in cui egli visse, rammenta questo personaggio definendolo «il più ricco mercante di Messina» (cfr. F. Susinno, Le vite de’ pittori messinesi, 1724, testo, introduzione e note bibliografiche a cura di Valentino Martinelli, Pubblicazioni dell’Istituto di storia dell’arte medievale e moderna, Facoltà di lettere e filosofia, Università di Messina, 1, Le Monnier, Firenze 1960, LX+331 pp., nello specifico, p. 166), presentandocelo come un collezionista attento e raffinato, che commissionò ad Antoon van Dyck (Anversa, 22 Marzo 1599 – Londra, 9 Dicembre 1641) un ritratto che lo avrebbe effigiato in coppia con la moglie. Nel 1638 è ancora documentato «Consul general de las naciones flamenca y alemana enste Reyno» [cfr. A. Zalapì, Il soggiorno siciliano di Matthias Stom tra neostoicismo e “dissenso”. Nuove acquisizioni documentarie sull’ambiente artistico straniero a Palermo, in V. Abbate (a cura di), Porto di mare. Pittori e pittura a Palermo tra memoria e recupero. 1570-1670, Electa, Napoli 1999, p. 148; G. Mendola, Un approdo sicuro. Nuovi documenti per Van Dyck e Gerardi a Palermo, ivi, p. 97; N. Gozzano, Mercanti fiamminghi in Italia nel Seicento: agenti, artisti, consoli, “BTA Bollettino Telematico dell’Arte”, n. 595, 22 Febbraio 2011, http://www.bta.it/txt/a0/05/bta00595.html].

Come ha sottolineato la storica ed archivista Marie-Christine Engels, Hector Van Acthoven appare ben documentato in qualità di uomo d’affari dai molteplici interessi commerciali, che disinvoltamente si muoveva in ambito internazionale, in particolare, proprio in relazione alla compagnia di Bernard van den Broecke e Joris Jansen, una delle maggiori e floride società commerciali fiamminghe degli anni ’20 e ’30 del Seicento, ben attiva e radicata nella città portuale di Livorno, quest’ultima ben aperta ai traffici commerciali, mediterranei ed atlantici [cfr. M.-Ch. Engels, Merchants, Interlopers, Seamen and Corsairs: The ‘Flemish’ Community in Livorno and Genoa (1615-1635), Uitgeverij Verloren, 1997,  345 pp., in particolare, p. 163, 193]. Tra il 1649 ed il 1658, il pittore Abraham Casembrot (1593-1658) divenne il console generale della nazione fiamminga, con residenza sempre a Messina (cfr. F. Campagna Cicala, La Galleria di Don Antonio Ruffo e il collezionismo. Appunti per le ‘liaison’ tra committenti, pittori e mercanti fiamminghi nella cultura artistica a Messina nel XVII secolo, in V. Abbate, G. Bongiovanni, M. De Luca, a cura di, Sicilië pittura fiamminga, catalogo della mostra, 28 marzo – 31 luglio 2018, 
Sale Duca di Montalto – Palazzo Reale di Palermo, Palermo 2018, p. 39).

Il console di Fiandra a Termini Imerese, Giuseppe Maltese o Maltisi o Lo Maltisi, era un facoltoso mercante attivo nella cittadina ed aveva sposato Maria Ardizzone figlia di Giuseppe Ardizzone senior e di Francesca, di antica ascendenza ligure (cfr. Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, d’ora in poi AME, Eredità Ardizzone, sec. XVII-XX). Da notare che il suocero di Giuseppe Maltese, Giuseppe Ardizzone, il 1° Novembre IIa Indizione 1618 aveva avuto la concessione di realizzare una cappella sfondata (cioè con un vano accessibile) nella navata sinistra, realizzata nel 1619-20 ed adornata della pala d’altare di Vincenzo La Barbera, commissionata il 1° Gennaio IVa Indizione 1621, raffigurante lo Sposalizio di Maria SS. con S. Giuseppe (cfr. A. Contino, S. Mantia, Architetti e pittori a Termini Imerese tra il XVI ed il XVII secolo, Gasm, Termini Imerese 2001, p. 169).

I Maltese, dei quali si hanno tracce in Termini Imerese sin dal primo trentennio del Cinquecento, nei secoli seguenti annoverarono diversi personaggi illustri: Francesco, organista nel 1659-60 (cfr. P. Bova, A. Contino, Termini Imerese fra Cinquecento e Seicento: Flaminio Giancardo il più antico Organista della Maggior Chiesa, in “Esperonews: Giornale del Comprensorio Termini-Cefalù-Madonie”, Martedì, 13 Luglio 2021, su questa testata giornalistica on-line); Pietro, ufficiale annonario (maestro di piazza, 1672); Andrea, notaio (1672); Nicola, giurato (1724-26). Della famiglia rimane traccia odonomastica nella parte alta della cittadina nell’attuale Cortile Maltese, ubicato non lontano dalla chiesa di S. Croce di Gerusalemme (Il Monte).

Il nome di Giuseppe Maltese si lega indissolubilmente con la chiesa di Nostra Signora dell’Annuntiata della quale fu munifico mecenate. il 28 Ottobre Xa Indizione 1626, alla presenza di notar Francesco Vassallo, il Maltese stipulò il contratto con i confratelli della detta chiesa, nel quale egli si obbligava a completare a proprie spese la erigenda nuova cappella di S. Giuseppe, ovvero della Natività di Nostro Signore, ubicata in cornu epistolae, con la clausola di effettuare le opere murarie conformemente al modello della chiesa e di collocarvi le statue cinquecentesche della Sacra Famiglia provenienti dall’antica cappella omonima nella chiesa medievale (cfr. A. Contino, S. Mantia, Architetti e pittori a Termini Imerese…cit. pp. 168-169).  Con i lasciti del Maltese ebbe vita l’opera caritatevole che da lui prese il nome (cfr. AME, Amministrazione Opera Pia “Giuseppe Lo Maltese”).

Ricordiamo che la scoperta dell’atto di incarico per la realizzazione del gruppo marmoreo della natività di Gesù si deve alla solerzia investigativa del pittore e studioso d’arte Ignazio De Michele da Termini Imerese, che ne diede annunzio in suo documentato saggio, pubblicato nel 1863 nell’effemeride palermitana “La Favilla” (cfr. I. De Michele, Al Chiarissimo Signor Giuseppe Meli. Sopra alcune pitture e sculture esistenti in Termini Imerese. “La Favilla Giornale di Scienze, Lettere, Arti e Pedagogia”, serie seconda, anno primo, Stabilimento tipografico di Francesco Giliberti, Palermo 1863, pp. 228-237, in particolare, pp. 230-231 e doc. pp. 235-236). Il De Michele, nel locale archivio notarile, agli atti di notar Antonio De Michele del 30 Giugno XIIIa Indizione 1494, rinvenne il rogito d’incarico ad Andreas Ma[n]chinu[s], scultore (scultor marmorarius) palermitano di ascendenza lombarda, il quale si obbligava con i rettori di S. Maria Annunziata (sancte marie de nunxiate), l’honorabilis notar Gerardo Pesce (Pixi) e Stefano de Bono, a scolpire le figure marmoree singole, di media grandezza, della Vergine Maria, del Bambino Gesù e di S. Giuseppe, nel loro complesso esprimenti la scena della natività di Cristo, da dovere eseguire in Palermo (elaboratis Panhormi) e da consegnarsi entro la fine di Dicembre XIIIIa Indizione 1494 nella marina della città Felice (in marinha Panormi arecata in barca), per il prezzo di onze 11. Da notare che, un ulteriore rogito, stipulato agli atti di notar Filippo Giacomo d’ Ugo, addì 19 Febbraio Va Indizione 1516 (1517), attesta l’incarico di scolpire per la somma di onze 8, una nuova figura di S. Giuseppe al carrarese Francesco Li Mastri, ma non sappiamo se venne portata a compimento. Le opere furono originariamente collocate nell’antica chiesetta medievale (cfr. A. Contino, S. Mantia, Architetti e pittori a Termini Imerese…cit. pp. 165-167) e successivamente traslati in seno al nuovo edificio seicentesco, nell’omonima cappella «eretta a cura e spese di Giuseppe Maltesi termitano», come scrisse il detto De Michele, dove tuttora si conservano le tre figure lapidee con la Vergine e S. Giuseppe genuflessi ai lati del Bambino, sotto una volta decorata a stalattiti. Quest’ultima, appare chiaramente mutuata dall’architettura di tradizione islamica (in arabo muqarna, cfr. J. Rosintal, Pendentifs, Trompen und Stalaktiten, Berlin 1912), come del resto l’antico soffitto ornava l’edificio di culto medievale, con tetto a capriata e travature d’abete decorate a figure di animali (cfr. A. Contino, S. Mantia, Architetti e pittori a Termini Imerese…cit., p. 165). In realtà, tutto ciò può essere letto in chiave di continuità dell’arte decorativa trecentesca siciliana con la precedente tradizione arabo-normanna, senza necessariamente dover ricorrere a presunti collegamenti con la penisola iberica ed il suo stile mudéjar [dall’arabo mudajjan ‘addomesticato’ nel senso di vassallo nei confronti dei dominatori cristiani; per ulteriori approfondimenti sull’arte mudéjar, cfr. G.M. Borrás Gualis, El Mudéjar como Constante Artística, in “Actas del Primer Simposio Internacional de Mudejarismo”,  CSIC, Madrid-Teruel 1981, pp. 31-40; J. Binous, M. Hawari, M. Marin, G. Öney, G. M. Borrás Gualís, P. Lavado Paradinas, M. T. Pérez Higuera, M. Pilar Mogollón Cano-Cortés, A. J. Morales, A. Pleguezuelo, R. López Guzman, M. A. Sorroche Cuerva, a cura di, L’arte Mudejar. L’estetica islamica nell’arte cristiana, collana Arte islamica nel Mediterraneo, Electa, Milano 2000, 320 pp.; J. Gómez Galán, El Mudéjar como Estilo Artístico: Una Valoración Historiográfica – The Mudejar as an Art Style: A Historiographical Appraisal, in A. Cortijo Ocaña & V. Martines (orgs.). Mirabilia. New Approaches in the Research on the Crown of Aragon, MedTrans 5, Jan-Jun 2017, pp. 88-122; per una recente revisione critica relativamente alla Sicilia, cfr. L. Buttà, “Mudéjar”, Islamic Influence or Memory of the Past? Some Considerations on the Wooden Painted Ceiling of the Palazzo Chiaromonte-Steri in Palermo. “Journal of Transcultural Medieval Studies”, 191-216].

Vista la presenza documentata di una colonia di Fiandra a Termini Imerese, sarebbe importante nel prosieguo delle ricerche scoprire quale fu l’entità del collezionismo nordico tra i ceti più abbienti della cittadina demaniale. Emblematica, a tal proposito, appare una opera pittorica qualitativamente importante, oggi conservata nel locale museo civico. proveniente dalla quadreria della collezione ottocentesca di casa Gargotta.

In tale collezione, il dipinto ad olio su tavola, che raffigura l’Annunciazione era inventariato come opera italiana: «L’annunziazione di Maria Vergine creduto dal ben noto Giuseppe Mazzarese conoscitore dell’antico, e da altri intendenti, di Pierin del Vaga» (cfr. Anonimo, in realtà A. Gargotta, Cenni su taluni oggetti di belle arti, archeologia, e storia naturale, osservabili dal colto viaggiatore in Termini-Imerese, Virzì, Palermo 1839, 20 pp., nello specifico, p. 9), L’antica attribuzione a Pietro Bonaccorsi detto Perin del Vaga (1501 – 1547), proposta dal pittore trapanese Giuseppe Mazzarese (1755–1847), appare del tutto inconsistente, anche se è in parte spiegabile facendo appello all’assimilazione dei modi del classicismo cinquecentesco italiano, legato anche alla divulgazione del “linguaggio perinesco” nel Nord Europa. L’attribuzione fu successivamente modificata tanto che il giovane Gioacchino Di Marzo (Palermo, 2 Dicembre 1839 – ivi, 4 Aprile 1916), in una nota alla sua traduzione del Lexicon Topographicum Siculum di Vito Maria Amico, relativamente alla collezione di Antonino Maria Gargotta rammenta lucidamente il dipinto in questione: «l’annunziazione di Maria, bellissimo sopra tavola, di scuola olandese, del XVI secolo» (cfr. G. Di Marzo, nota alla voce Termini, in V. M. Amico, Dizionario topografico della Sicilia, II, Di Marzo-Lao, Palermo 1859, p. 585).

Appare, invece, del tutto fantasiosa l’assegnazione del dipinto al termitano Giuseppe Spatafora senior, riportata da Giacomo Giacomazzi e Giovanni Corrieri (cfr. G. Giacomazzi, G. Corrieri, Termini Imerese, Ibis, Palermo 1965, fig. 18, p. 43). In tempi più recenti è stata considerata un’opera pregevole di anonimo artista nordico della scuola di Colonia (cfr. M. C. Di Natale, Museo Civico di Termini Imerese. La sezione storico-artistica, in “Sikania”, anno XIV n. 2 Febbraio 1998 p. 34, fig. p. 31).

Questa raffigurazione sacra dell’Annunciazione, interpreta il racconto del Vangelo di Luca (Lc. 1, 26-38) e, plausibilmente, appartiene ad un genere devozionale (verosimilmente privata, in altaroli domestici, anche se non è da escludere una possibile collocazione all’interno di strutture monastiche, ad es. in una cella). Il dipinto, che denota una particolare attenzione al vero, si distingue per singolarità della composizione, con due figure a mezzo busto fortemente ravvicinate ad occupare gran parte del dipinto, mentre in alto, a centro, domina lo Spirito Santo in forma di colomba con le ali spiegate, circondata da raggi di luce. L’opera si connota per il carattere espressivo della scena, sottolineato dalle due figure, totalmente avulse dalla consueta connotazione ambientale concreta e tangibile, che appaiono poste alla stessa altezza, raffigurate a mezzo busto, esibendo entrambe una marcata gestualità.

A sinistra, l’Angelo che regge con la destra lo scettro regale (quest’ultimo attributo precipuo del nuncius Gabriele), indossa un abito castano chiaro ed un elegante mantello, fermato da una fibbia, riccamente decorato di perle, rese nel modo raffinato di un miniaturista. La resa materica del tessuto del prezioso mantello, con i suoi decori è stata ottenuta grazie ad una abile stesura del colore, minuziosa e quasi calligrafica.

A destra, la Vergine indossa un abito da camera blu notte, di tradizione nordica, secondo la foggia del tempo e, adagiato sulle spalle, un mantello castano con una bordura impreziosita di perle. Maria annunciata mostra un volto dall’ovale perfetto, la purezza della fronte, i lunghi capelli sciolti, divisi da una scriminatura centrale, l’incarnato d’avorio, gli occhi a mandorla e quasi socchiusi; tutto in Lei promana la fiduciosa disposizione del cuore, orientato alla consegna di sé ed al totale affidamento alla volontà del Padre ed al suo progetto salvifico per l’umanità, tramite il dono del suo Figlio Unigenito, del Verbo incarnato. Nel dipinto appare esaltato il modello iconografico, che si ispira ad una versione dello Pseudo-Matteo o Libro sulla nascita della Beata Vergine e sull’infanzia del Salvatore (c. VII-IX sec.), secondo la quale la Vergine, capolavoro della grazia, diede il suo assenso alla voluntas Dei allargando le mani. Maria, avendo preso coscienza del suo imprescindibile ruolo nella missione salvifica dell’incarnazione di Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, rispose affermativamente all’appello del messaggero celeste (per ulteriori approfondimenti, cfr. C. Cecchelli, Mater Christi. La vita di Maria nella storia, nella leggenda, nella commemorazione liturgica, 4 Voll., Ferrari, Roma, MCMXLVI-MCMLIV, XXVIII+336, XIV+310, VIII+444, X+520 pp., I, pp. 117 e segg.; II, pp. 167 e segg.; I. Cecchetti, A. Prandi, P. Toschi, Annunciazione, in “Enciclopedia Cattolica”, I, Città del Vaticano Roma 1948, coll. 1382-1396; L. Réau, Iconographie de l’art chrétien, II, Iconographie de la Bible, Presses universitaires de France, Paris 1957, pp. 174-194; G.M. Roschini, Maria Santissima, in “Bibliotheca Sanctorum”, VIII, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, Roma 1967, coll. 814-962).

Le parole emblematiche pronunciate dall’Angelo e della Vergine sono inserite nella scena attraverso due scritte, che spiccano dal fondo, a lettere in caratteri gotici, rispettivamente, poste a sinistra ed a destra. Nello specifico, si tratta dell’inizio della Salutatio angelica: ave /· gratia · /· plena [Ave piena di grazia] e della· frase di assenso pronunciata dalla Vergine Maria all’annuncio della maternità divina: ecce · ancilla /· domini · [Ecco l’ancella del Signore].

La padronanza della tecnica della pittura ad olio di questo anonimo artista nordico si ravvisa, inoltre, nella abile modulazione della luce e delle ombre, con sapienti passaggi tonali, che riescono a rendere palpitanti le figure e nell’uso delle velature. Nel dipinto, infatti, è ben evidente una macroscopico e virtuosistico esempio di velatura, proprio nell’abito di Maria, il cui orlo della scollatura è adornato  da un diafano ed impercettibile velo triangolare.  

Gli artisti termitani, subirono notevolmente l’influsso dell’arte fiamminga, grazie anche alla circolazione di incisioni, ma non possiamo escludere anche una possibile influenza diretta legata alla presenza di immigrati, soprattutto del ceto mercantile, provenienti dalla Fiandra ed alla loro cultura nordica. Emblematico appare il caso del termitano Vincenzo La Barbera (1576/77 – 1642), che ebbe una particolare empatia per la pittura nordica, forse anche per le sue ascendenze liguri (cfr. P. Bova, A. Contino, Epidemie, clima e arte: La Barbera e S. Rosalia tra Palermo e Termini Imerese, in “Esperonews: Giornale del Comprensorio Termini-Cefalù-Madonie”, Giovedì, 6 Gennaio 2022, su questa testata giornalistica on-line).

Il pittore, storico e critico d’arte dottor Leandro Ozzola (n. Mottaziana, frazione di Borgonovo Val Tidone, Piacenza, 23 Aprile 1880), allievo di Adolfo Venturi (Modena, 4 Settembre 1856 – Santa Margherita Ligure, 10 Giugno 1941), è da considerare il primo studioso ad aver evidenziato nelle opere del La Barbera la profonda empatia con il mondo fiammingo (in special modo nel perduto olio su tela raffigurante i SS. Cosma e Damiano del museo civico), come si evince da un suo articolo pubblicato nel 1909, dove ebbe a scrivere che «Nel museo di Termini Imerese si vede quadro di stile arcaico spiccatamente fiammingo, rappresentante i SS. Cosma e Damiano che medicano un malato, il quale porta la seguente segnatura: “Vincentius Barbera inventor Termitanusque Him. pingebat. 1612”. E’ l’espressione più esplicita dell’influenza nordica in Sicilia» (cfr. L. Ozzola, Appunti sull’arte barocca a Messina, in “Vita d’Arte. Rivista mensile di arte antica e moderna”, anno II, vol. III, Gennaio-Giugno 1909, fasc. XIV, Lazzeri, Siena 1909, pp. 93-102, in particolare, p. 95). A nostro avviso, Leandro Ozzola, appassionato ricercatore, purtroppo poco conosciuto, meriterebbe di essere rivalutato e viene ricordato qui per la prima volta in assoluto come studioso del La Barbera, sinora sconosciuto  e riscoperto grazie alle puntuali ricerche degli scriventi.

Concludendo, gli antichi legami commerciali ed artistici tra Termini Imerese e le Fiandre, che erano sinora rimasti nascosti, dopo ben quattro secoli tornano alla luce grazie agli “scavi archivistici” e ad una minuziosa lettura di opere d’arte appartenenti al cospicuo patrimonio termitano, secondo un approccio metodologico da noi portato avanti ed i cui innovativi risultati sono stati progressivamente resi noti su questa testata giornalistica on-line, sin dal 2018.

Patrizia Bova e Antonio Contino

Ringraziamenti: vogliamo esternare la nostra più sincera gratitudine al direttore ed al personale della Biblioteca comunale Liciniana e del museo civico “Baldassare Romano” di Termini Imerese, per l’essenziale supporto logistico nelle nostre ricerche e per la consueta disponibilità. Un ringraziamento particolare va a don Francesco Anfuso e a don Antonio Todaro per averci permesso di effettuare basilari ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese. Questa ricerca è dedicata al compianto maestro, il pittore Salvatore Contino in arte Tinosa (1922-2008), nel centenario della nascita.