Nel cuore della Sicilia, tra le colline dell’entroterra palermitano, il paese di Montemaggiore Belsito fu teatro, il 20 agosto 1860, di un eccidio tanto efferato quanto misconosciuto, una strage che affonda le sue radici nelle tensioni sociali e politiche che attraversavano l’isola durante uno dei periodi più drammatici e tumultuosi della storia d’Italia: il Risorgimento.
Questo episodio, passato alla storia locale come “la giornata di sangue”, si colloca nel contesto più ampio delle sommosse popolari che seguirono lo sbarco di Garibaldi a Marsala (11 maggio 1860) e la fulminea avanzata dei Mille, che portò in poche settimane al crollo del Regno delle Due Sicilie nell’isola. Così come accadde a Bronte nel mese di agosto dello stesso anno, anche a Montemaggiore Belsito le aspirazioni di giustizia sociale e le vendette personali si intrecciarono con la confusione politica e l’assenza di un saldo potere centrale, dando origine a un’esplosione di violenza fratricida.
Il contesto storico e politico
Nel 1860 la Sicilia era una polveriera. I moti antiborbonici, repressi a più riprese nei decenni precedenti, avevano lasciato un’eredità di tensioni sociali fortissime. L’arrivo di Garibaldi, visto da molti come il liberatore, aveva riacceso speranze di riforme agrarie, abolizione dei privilegi feudali e giustizia per i contadini oppressi. Ma in molti centri dell’isola, queste aspettative si tradussero in violente sollevazioni, nelle quali il confine tra giustizia e vendetta divenne labile.
Se Bronte fu l’emblema di questo caos, con la sanguinosa repressione ordinata da Nino Bixio, Montemaggiore Belsito ne fu un eco sinistro e altrettanto tragico. Qui, la rivolta non fu repressa dall’esercito garibaldino, ma degenerò in un regolamento di conti interno alla comunità, con un vero e proprio linciaggio politico-sociale.
La strage del 20 agosto 1860
Secondo quanto racconta lo storico L. Drago, la scintilla fu accesa da controversie politiche locali che si intrecciarono con le convulsioni rivoluzionarie regionali. In quel clima carico di sospetti, vendette personali e rivalità antiche, alcuni cittadini, spalleggiati da “prezzolati” — uomini assoldati dal Comune per mantenere l’ordine pubblico — si trasformarono in carnefici.
Le vittime, selezionate con cura tra le personalità più in vista del paese, furono cercate casa per casa, uccise barbaramente, e le loro abitazioni date alle fiamme. In quella tragica giornata persero la vita il sacerdote Stefanino Maggio e suo padre Giovanni; il sacerdote Gaetano Battaglia; Don Giuseppe Salemi; l’Arciprete Calogero Licata e suo fratello Filippo; l’aromataio Don Vincenzo Salemi; l’avvocato Antonino Cirafisi, e altri cittadini illustri.
Le urla dei carnefici, secondo la testimonianza dell’epoca, evocavano macabre immagini: “Cu voli cumprari carni grossa, issi supra lu cannolu di susu” — un sinistro invito ad assistere alla carneficina, riferendosi a “lu cannolu”, luogo vicino all’abitazione del Sac. Giallombardo, oggi noto come “Via delle Vittime”. Identificato anche comu “ ‘u cannolu di Miccittu”.
La repressione e il Consiglio di Guerra
La notizia della strage raggiunse presto le autorità garibaldine. Da Termini Imerese fu inviata la Milizia Nazionale, affiancata da uomini provenienti da Cerda: circa 300 armati che misero il paese in stato d’assedio. Il giorno successivo, il 21 agosto, fu istituito un Consiglio di guerra. Le indagini furono rapide e implacabili. Alcuni furono condannati a multe o alla carcerazione, ma per altri la sentenza fu la morte.
Le esecuzioni per fucilazione vennero eseguite nei giorni 22 e 23 agosto, in una spirale di sangue che non lasciava spazio né al perdono né alla clemenza.
Memoria e oblio
Oggi, una semplice via — “Via delle Vittime” — nel cuore del paese, custodisce nel suo toponimo la memoria di quell’eccidio. Ma come accadde per Bronte, dove i contadini trucidati e i loro carnefici sono rimasti prigionieri di una memoria divisa, anche a Montemaggiore Belsito il confine tra giustizia e vendetta resta sfocato, e la giornata del 20 agosto 1860 è rimasta ai margini della narrazione ufficiale del Risorgimento.
Eppure, eventi come questo ci ricordano che l’unificazione d’Italia fu un processo spesso traumatico, fatto non solo di ideali patriottici e atti eroici, ma anche di ferite profonde nelle comunità locali, di violenza incontrollata e di ingiustizie che ancora oggi meritano di essere raccontate.
Santi Licata
Cannolu di Miccittu (Foto di Carmela Carrubba).