Raccontare la verità è un mestiere che richiede coraggio, misura, coscienza. Ma raccontarla da dentro, quando brucia ancora sulle mani e negli occhi, è qualcosa che appartiene solo a chi ha attraversato la storia con la carne viva e la parola giusta. Enzo Mignosi è uno di questi testimoni: cronista raffinato, inviato di punta del Corriere della Sera, ha vissuto e raccontato le pagine più difficili della Sicilia contemporanea — gli anni del piombo mafioso, delle stragi, della giustizia cercata con le unghie e con l’anima.
Spesso, la sua scrittura si fa romanzo e memoria profonda. A doppia mandata, la sua ultima opera narrativa edita da Ianieri nella collana “Le dalie nere”, non è soltanto un noir ambientato nella Palermo degli anni Ottanta, ma una parabola sull’amore, la colpa, la redenzione. Una storia dove i sentimenti fioriscono tra le crepe del crimine, e dove anche il male, a volte, cerca una via di fuga verso la salvezza.
Con Mignosi abbiamo dialogato di scrittura, di giornalismo, di coscienza e di Sicilia. Ne è nata un’intervista che è essa stessa un racconto… denso, onesto, essenziale.
Come la sua voce.
Giornalista, saggista, narratore. Come si intrecciano, nel suo percorso, queste anime differenti della scrittura? C’è una forma che considera più “necessaria” o prioritaria, oppure ognuna risponde a un’esigenza diversa del suo sguardo sul mondo?
Il giornalista è, per definizione, un narratore. Un testimone che osserva il mondo e ne racconta le sfumature, le più evidenti e le più impalpabili. Come ho scritto in un libro, racconta le storie belle perché aprano i cuori e le storie brutte perché scuotano le coscienze e deve saper stare laddove si concentra ogni evento che, come si dice, “fa notizia”. Con sensibilità, rispetto e con un dovere etico irrinunciabile: il rigore della verità. Deve saper parlare ai lettori, informarli, coinvolgerli, con un linguaggio asciutto, immediato, chiaro, non dimenticando che articoli, reportage, interviste possono interessare la platea più svariata e tutti devono avere la possibilità di capire. Anche il saggista è un narratore, ma i suoi lavori sono di regola maxi inchieste giornalistiche. Grandi reportage con analisi approfondite su temi spesso legati all’attualità. La scrittura, in linea generale, mantiene lo stesso stile. Cambia tutto, invece, nel romanzo e tutto si ribalta, le regole si sovvertono, si stravolgono. Ciò che nell’articolo o nel saggio deve essere vero, nel romanzo deve essere verosimile. L’articolo pretende la sintesi, il romanzo concede spazio ad ampie descrizioni che ti portano sulla scena con l’immaginazione. E poi sono differenti il linguaggio, lo stile, l’impostazione. Il romanzo è la massima esaltazione della fantasia. Tutto un altro mondo.
La sua attività giornalistica si è svolta in anni di straordinaria complessità per la Sicilia. Qual è stata la sfida più grande nell’essere reporter in un contesto così delicato? E come si preserva, in quel ruolo, l’equilibrio tra la responsabilità professionale e l’urto emotivo dei fatti raccontati?
Fin dai primi anni Ottanta, la Sicilia è stata palcoscenico del mondo e lo è rimasta per oltre un quarto di secolo. Abbiamo avuto addosso gli occhi di cinque continenti. I giornali e le tv di tutto il pianeta si sono occupati delle vicende siciliane, materia esplosiva, piena di tutto, e io, cronista di primo pelo, mi sono ritrovato sbattuto in prima linea, costretto a occuparmi di un’infinità di orrori. I primi delitti eccellenti, la guerra di mafia, i morti ammazzati giorno per giorno, cadaveri a palate, e poi la nascita del pool antimafia, i primi pentiti, il maxiprocesso, la stagione dei veleni al palazzo di giustizia, le stragi, i grandi processi, la cattura dei capi corleonesi, la trattativa Stato-mafia. Impossibile non farsi coinvolgere sul piano emotivo da tutto quello che è accaduto nella Palermo allora in fiamme, la Palermo che vivevo con quattro identità. Ero cronista, cittadino, marito, padre. Lavorare sul filo dell’alta tensione per così lungo tempo in un “teatro di guerra”, come lo ha definito Ferruccio de Bortoli nella prefazione a un mio memoir, è stato duro, mi ha insegnato come affrontare avvenimenti affilati come le lame di un rasoio ma mi ha permesso anche di imparare il mestiere fin dalle fondamenta. In nessun’altra parte del mondo avrei potuto acquisire la stessa formazione professionale. E’ stata una esperienza pesante e impegnativa ma anche molto ricca di soddisfazioni. E sorrido, con la massima benevolenza, quando ricordo la celebre frase che ripeteva Luigi Barzini: “fare il giornalista è sempre meglio che lavorare”.
Il suo romanzo A doppia mandata ci porta nella Palermo degli anni Ottanta, tra vicoli insanguinati e sentimenti proibiti. Come nasce l’idea di questo libro, e cosa l’ha spinta a scegliere la forma del romanzo per raccontare un mondo che lei ha vissuto come cronista?
“A doppia mandata” è il frutto di anni di riflessioni, non nasce di punto in bianco, come qualcuno ha pensato. Dopo aver letto decine di saggi, soprattutto sulla mafia, mi è stato regalato un romanzo, “Vita”, di Melania Mazzucco. Un capolavoro scritto con mani di fata che mi ha messo sotto gli occhi pagine di rara bellezza e armonia, facendomi scoprire un mondo a me sconosciuto. Nulla a che fare con i saggi. E’ stato così che mi sono appassionato a questo genere narrativo. Poi ho letto una illuminante frase di Stephen King. Dice: se vuoi scrivere un romanzo, devi leggerne almeno cento. L’idea di cambiare radicalmente la mia scrittura e provare a entrare in punta di piedi nel nuovo mondo della narrativa, mi intrigava. Così ho cominciato a divorare decine e decine di volumi dei grandi maestri. Don Winslow, Philip Roth e lo stesso King mi hanno stregato. Ho scoperto come letture di quel genere stimolassero la mia fantasia ma, nello stesso tempo, studiavo la struttura dei romanzi, lo stile, il linguaggio, l’impostazione. Leggevo tanto ma restavo vigile sul tema della mafia, sempre al centro di un vortice, e mi ponevo tante domande. Mi chiedevo, anzitutto, come vivessero la loro vita quotidiana i killer in azione in quegli anni di piombo. Sparavano e uccidevano, d’accordo. Ma poi? Avevano una vita privata, una donna con cui condividere sentimenti, passioni, hobby, abitudini? E’ nata così la storia di Lillo Brillantina e di Marinella. Una storia che doveva finire come è finita. Perché il crimine non paga mai.
L’amore impossibile tra Brillantina, un sicario della mafia, e Marinella, una donna borghese, sembra rappresentare due Sicilie in lotta: una che uccide e una che sogna. È così? Che simbolo rappresentano questi due personaggi nel suo immaginario narrativo?
Il romanzo racconta solo in parte la mafia di quegli anni. In realtà “A doppia mandata”, più che un noir, è una storia d’amore. Un amore impossibile, che non può avere un futuro. Il mondo di Lillo e quello di Marinella non possono incontrarsi. Sono troppo lontani e neppure un sentimento profondo può avvicinarli. Lillo, seppur innamorato e deciso a deporre le armi, resta un killer. Abbandona il suo mondo, ma la sua indole è sempre quella dell’assassino. Marinella, spirito puro, tradisce anche lei, per amore, ma non può accettare di vivere la sua esistenza accanto a uno sterminatore di vite umane. E qui si scontrano due mondi, realtà vera soprattutto nella Palermo di allora, capitale della promiscuità, dove era facile trovarsi a fianco, inconsapevolmente, un mafioso latitante e scambiarci perfino qualche parola. Sono arrivato così alla decisione di sconfinare nella narrativa, sedotto dalla forma espressiva che ti concede la libertà di volare laddove i pensieri ti portano, cosa che non puoi fare scrivendo un pezzo di cronaca che ti costringe entro confini limitati”.
La dimensione del “tradimento”, inteso come ribellione interiore alle regole dell’organizzazione mafiosa, è centrale nel romanzo. Crede che sia possibile, anche nella realtà, salvare l’anima attraverso la disobbedienza?
La storia della mafia è una lunga storia di tradimenti. Il giuramento di fedeltà con il santino che brucia mentre si recita la formula di affiliazione è cronaca vera ma alla lunga ha finito per diventare una civetteria letteraria. Ci sono voluti Buscetta, Contorno e tutti gli altri pentiti o, meglio, dissociati, per scoprire quello che si sapeva da tempo, che nella mafia ha sempre prevalso l’interesse personale. Pensiamo ai guardaspalle di Stefano Bontade (Pietro Lo Iacono) e Totuccio Inzerillo (Salvatore Montalto). Proprio loro che avrebbero dovuto proteggerli li hanno ripetutamente traditi consegnandoli di fatto ai corleonesi. Ma non sono stati i soli. L’unico, vero pentito di Cosa Nostra rimane, a mio avviso, Leonardo Vitale, mafioso colpevole di crimini orrendi, colto da un’improvvisa crisi mistica che lo ha portato, sono parole sue, “a scoprire le meraviglie di Dio”. Naturalmente è morto ammazzato qualche anno dopo. Forse lui sì che ha salvato l’anima.
Il linguaggio del romanzo ha una musicalità particolare, quasi cinematografica. Quanto ha influito la sua esperienza giornalistica nella costruzione del ritmo e della tensione narrativa?
Come detto, il giornalismo ha il suo linguaggio e lascia pochi spazi di agibilità a chi scrive. Però, nonostante i miei trentacinque anni di attività a tempo pieno, inseguito da tanti fatti di cronaca fiammeggiante, confesso che avere cambiato stile narrativo dedicandomi al romanzo mi ha dato una sensazione di arricchimento, proprio per la musicalità che riesce a esprimere. Anche da giornalista ho cercato di trasmettere emozioni, ma il romanzo stimola in modo molto più naturale ed efficace. Pochi giorni fa, commentando un mio breve post su Facebook, un’amica ha affermato “hai trasformato una foto e venti righe in una favola”. Mi ha fatto un piacere immenso. Significa che ho trasmesso emozioni. Dunque, ho centrato il bersaglio.
Nel suo precedente libro Quelli di via Solferino ha raccontato l’universo del giornalismo vissuto da dentro, restituendone luci e ombre. Cosa resta oggi di quella stagione del giornalismo italiano? Cosa la preoccupa e cosa, invece, la fa ancora sperare nel futuro dell’informazione?
Via Solferino è stata una magia, un dono piovuto dal Cielo. Mi sono ritrovato al Corriere della Sera, il tempio del giornalismo nazionale negli anni migliori. Non potevo non scrivere un libro su quella mia esperienza di lavoro, esaltante oltre ogni immaginazione. Un’esperienza d’oro, la mia firma accanto a quelle dei colleghi di più alto rango, nomi che hanno scritto e fatto la storia. Un’emozione che solo in parte ho potuto descrivere in quelle pagine. Di quella generazione è rimasto ben poco. Solo le ceneri, e lo dico con sofferenza. Oggi il giornalismo è un’altra cosa. L’online che impazza, giornaletti pretenziosi senza giornalisti, qualità in caduta libera, errori su errori, poche risorse, scarso interesse da parte degli stessi editori. Fa male dirlo, ma non vedo luci in fondo al tunnel.
Sta già lavorando a un nuovo progetto narrativo? E, se sì, può anticiparci qualcosa? Rimarrà nel solco della memoria siciliana o esplorerà nuove strade, magari più intime, più universali?
Sì, qualcosa in cantiere c’è ed è in avanzato stato di lavorazione. Ma è ancora presto per parlarne.
In chiusura, le chiedo: qual è il messaggio più profondo che desidera trasmettere ai lettori attraverso la sua scrittura? C’è qualcosa che sente ancora “urgente” da raccontare?
Il regalo più grande che mi hanno fatto tanti lettori, affermando tutti la medesima cosa, è dire che scrivo con il cuore anche le cose più banali. E’ vero. Ci metto sempre tanta passione. Quando scrivo, specialmente certi passaggi, sento l’adrenalina scorrermi dentro. Ecco, vorrei che la stessa scossa, le stesse vibrazioni le sentissero i lettori ai quali ripeto che leggere arricchisce la vita intellettuale, emotiva, sociale, e sviluppa creatività e immaginazione.
Un buon libro sul comodino non dovrebbe mancare mai.
Salvina Cimino