Si fa presto a dire stress…

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La parola ‘stress’ è oggi, di certo, una delle più diffuse. Viene utilizzata con grande frequenza, per definire una serie di situazioni e di condizioni tra le più varie: si è ‘stressati’ se si è stanchi, se si è oberati di lavoro, se si fatica a dormire, se si va in vacanza ‘intelligente’, se si hanno ospiti a cena. Insomma, la parola stress è diventata un ‘contenitore’ che indica tutto e non indica nulla.

La definizione del concetto di stress e la sua relazione con la vita sociale ha portato a due ordini di conseguenze: uno di tipo medico, l’altro di tipo psicosociologico. Dal punto di vista medico è risultato evidente che una serie di condizioni – dette stressors appunto – possono influenzare direttamente e indirettamente l’organismo e condizionare quindi l’insorgenza di un gran numero di condizioni patologiche. Dal punto di vista psicosociologico, la conseguenza fondamentale è stata una valutazione più attenta e circostanziata di quelle condizioni sociali che rappresentano di per se stesse un fattore di rischio per l’insorgenza di malattie psicosomatiche.

Ciò è del tutto indipendente dalla coscienza del fatto che la società contemporanea, con i suoi livelli di complessità, è per certi versi una società patogenetica. Per citare le parole di Bruno Bettelheim nel 1960: “Oggi non dobbiamo più fremere per timore delle epidemie e della fame o degli spiriti maligni nascosti nelle tenebre o degli incantesimi delle streghe, ma siamo stati alleviati dal peso delle fatiche più sfibranti, e le macchine, non il lavoro delle mani, ci daranno presto non soltanto quasi tutto ciò di cui manchiamo, ma anche ciò di cui in verità non abbiamo bisogno (1960)”.

Parole profetiche, visto che risalgono a più di sessant’anni fa. Ma se queste considerazioni possono stimolare la riflessione, ciò che necessita è la definizione esatta di come la complessità sociale possa produrre stress – e quindi patologia psicosomatica. E’ fuori discussione che esista, oggi, una ‘società psicosomatica’, almeno quanto esiste una famiglia e un individuo ‘psicosomatico’. Il problema scientifico sembra quello di stabilire se esistono dei fattori ‘psicosomatogeni’ assoluti, e soprattutto se tali fattori siano correlati – e in che modo – con la complessità sociale, entrambi compiti di importanza fondamentale ai fini di una corretta prevenzione primaria. D’altra parte è del tutto illusorio pensare che la relazione tra stile di vite e malattie sia acquisizione della medicina moderna. Già Ippocrate aveva compiuto osservazioni al riguardo, quando esaminando lo stile di vita degli Sciiti aveva evidenziato come gli appartenenti alle classi più elevate soffrissero di malattie specifiche, che non si ritrovavano invece nelle classi più basse, tutte attribuite dallo stesso all’abitudine di stare gran parte del tempo in sella ai loro cavalli – il che produceva tra l’altro secondo Ippocrate, obesità e disturbi sessuali.

Nella valutazione di questi fattori ci si trova di fronte ad alcuni problemi abbastanza complessi. Il fondamentale di essi è quello di determinare il peso obiettivo di uno stressor e il peso soggettivo che ad esso è attribuito dall’individuo, da ciò che viene chiamato il suo “filtro cognitivo”. In altre parole, individui diversi possono reagire in maniera molto differente ad uno stesso stimolo stressante. Ma se il filtro cognitivo può modificare la percezione di uno stress, l’attenzione maggiore va data allo stressor in quanto tale o ai fattori psicodinamici e relazionali che caratterizzano la reazione individuale allo stress?

Il problema è ancora ben lungi dall’essere risolto. E’ stato dimostrato, in questo contesto, che tre fattori psicosociali sembrano avere valore di stressors: l’eccessiva responsabilizzazione; l’eccessiva deresponsabilizzazione; la frustrazione e l’insuccesso.

Ne consegue che di fronte ad uno stesso stimolo, individui differenti possano reagire in maniera differente, il che sposta il problema preventivo e igienico mentale dalla sfera psicosociale a quella individuale e relazionale. Ne consegue che quello che ci interessa non è tanto una valutazione della complessità sociale in quanto tale – compito che demandiamo ai sociologi, o alla psicologia sociale – quanto il modo in cui un individuo internalizza e rielabora, in base ai propri vissuti la complessità sociale stessa che pertanto diviene un valore relativo e astorico.

La volgarizzazione, purtroppo tanto diffusa, del concetto di stress presuppone, nel modello popolare, che gli aspetti sociali siano di due tipi: buoni e cattivi, i primi connessi ad una situazione ideale di salute mentale e psicofisica, i secondi ad una condizione, appunto di stress. Questa valutazione fu intuita come errata persino dallo stesso Hans Selye, il teorizzatore moderno del concetto di stress, quando distinse opportunamente, un eustress da un distress: un tipo di stress naturale, biologico, in altri termini ‘ecologico’, e uno stress patogeno, anti-ecologico.

Ma a definire la qualità dello stress sembrano intervenire fattori individuali che nulla hanno a che vedere con la realtà psicosociale.  L’individuo ha la capacità di stabilire cosa sia o non sia stressante per se stesso. Tale capacità si può estendere agli eventi o alle situazioni più varie, caratterizzando non solo la risposta percettiva, ma anche l’integrazione di tale risposta. Si è visto, per esempio, come la risposta allo stress in una condizione sperimentale può variare significativamente in relazione alla personalità del soggetto, per cui soggetti esposti allo stesso stimolo stressante possono reagire in maniere molto differenti. Non è allora tanto la complessità sociale a determinare la risposta allo stress, bensì il modo in cui tale complessità sociale viene vissuta e percepita.

Lo studioso Levi, ideatore di un modello psicosociale di risposta allo stress, precisò che fattori ambientali, rapporti interpersonali e risposte emotive si pongono in relazione con il programma psicobiologico individuale, e che è proprio tale programma a modulare il tipo e l’entità della risposta.

Nella concezione di Selye lo stress è infatti una risposta ‘aspecifica’ dell’organismo all’ambiente: il suo valore patogenetico risiede allora nella convergenza tra essi stessi e quegli stati transitori di natura emozionale che Levi stesso definisce ‘precursori di malattia’. Sono le variabili interagenti, cioè, a determinare il valore di uno stimolo.

Un esempio tipico del valore relativo della complessità sociale nel determinare il valore dello stress è dato da un questionario usato come strumento di valutazione, la Social Readjustment Rating Scale di Holmes e Rahe.

In essa vengono elencati alcuni eventi stressanti che, sommandosi, possono produrre una condizione emozionale predisponente all’insorgenza di una malattia psicosomatica o più genericamente psichiatrica. Ciò che ha suscitato, in diversi studiosi, perplessità è proprio il fatto che, per quanto espressioni di complessità sociale, le domande della scala non lasciano spazio al peso soggettivo. Tanto per fare un esempio, non è detto che tutti gli individui considerino alla stessa maniera un ‘mutamento di abitudini personali’, un divorzio o, semplicemente, le vacanze o le feste natalizie. Il peso attribuito da persone diverse a ciascun evento è individuale: può cioè essere modificato da vissuti, convinzioni, paure, fantasie. Se è vero allora che il ‘mutamento di abitudini’, per esempio, è un prodotto tipico della attuale complessità sociale (si pensi semplicemente all’enfasi posta sul problema della ‘mobilità lavorativa’ nella società attuale), è difficile attribuirle un peso oggettivo.

Un altro fattore importante da tenere in considerazione è quello relativo alla cultura, e quindi al ‘paradigma’, al modello di mondo. La complessità sociale, ovvero, può essere vissuta in termini diversi in base al proprio modello di realtà e alla propria capacità di accettare o rifiutare i diversi aspetti che la compongono. In ogni individuo è ipotizzabile un modello di realtà nel quale esistano aspetti ‘buoni’ e aspetti ‘cattivi’ la cui definizione qualitativa prescinde dal loro peso obiettivo.

Così, prendendo come esempio le voci della scala di Holmes, è possibile indagare non solo il loro peso obiettivo, ma il loro peso soggettivo culturale. Per fare un esempio, il ‘peso’ di un divorzio sarà molto differente tra soggetti con diverse visioni religiose o morali del mondo (per esempio, un cattolico e un agnostico).

Considerazioni di questo tipo, ci costringono a spostare l’attenzione dalla complessità sociale al vissuto della complessità sociale e alle sue determinanti culturali. Anche volendo prescindere dalla variabilità individuale, è anche la cultura di appartenenza che decide quali fattori di complessità sociale vadano considerati stressanti e quali no.

Ogni cultura stabilisce dei modelli che le sono propri per identificare cosa sia normale e cosa non lo sia, per cui il concetto di norma sembra equiparabile ad un continuum nel quale sono rintracciabili tutti gli aspetti dell’esistenza – la cui importanza viene definita dalla cultura dominante. L’unica norma generalizzabile appare quella biologica, culturalmente immodificabile, e quindi unica fonte di normatività.

Lo stress è una risposta biologica, che stabilisce una norma: ovvero che l’organismo reagisce a qualunque stimolo esterno. La patogenicità, cioè la correlazione fra lo stimolo esterno ‘subìto’ e l’insorgenza di una malattia psicosomatica o di un disturbo psicologico, è variabile ed è condizionata sia dalle caratteristiche individuali, sia dall’ambiente culturale nel quale si verifica questa sequenza ‘stimolo-risposta’. Ciò implica che un soggetto risponda allo stress in base a modelli individuali e sociali, indipendenti, per larga misura dalla complessità sociale in se stessa.

Questo non significa ovviamente negare importanza ai fattori sociali obiettivi, sempre più deterioranti, o allo stile di vita da essi imposti, come fattori di rischio per le malattie psicosomatiche. Significa semplicemente valutarne l’importanza con maggiore obiettività. In altre parole: diamo a Cesare quel che è di Cesare…

Giovanni Iannuzzo