Psichiatria, cultura e terapia

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A classroom of immigrants at school

L’etnopsichiatria è uno specifico approccio alla malattia mentale e al disagio psichico, che nasce dalla convergenza tra etnologia e psichiatria, ovvero come momento di osservazione dell’evento psichiatrico mediante la parallela utilizzazione sia di modelli psichiatrici sia di modelli etnologici. Da questo punto di vista l’etnopsichiatria si pone come uno dei tanti modi possibili di approccio al disagio psichico; e sebbene sia nata dall’osservazione dei fatti psichiatrici in culture non-occidentali, e dalla loro lettura in chiave etnografica, può essere applicata a qualsiasi contesto culturale.

L’etnopsichiatria rappresenta un aspetto marginale della psichiatra moderna, decisamente ‘debole’ rispetto ad aspetti più forti. E se lo stesso Freud può essere considerato il fondatore dell’etnopsichiatria, con le sue riflessioni sul pensiero dei primitivi e i suoi studi genericamente etno-psicoanalitici (Totem e Tabù), originariamente l’attenzione psichiatrica verso l’etnologia si fondava sulla presunta equivalenza tra pensiero ‘primitivo’ e pensiero infantile, e quindi pensiero primitivo e pensiero nevrotico. Questo tipo di indirizzo è stato gradatamente superato già da Geza Roheim, con i suoi studi sul campo e la rivalutazione del pensiero e delle pratiche primitive.

Dopo di lui si pose in maniera decisamente innovativa lo psichiatra  Devereux. L’orientamento iniziale era quello di vedere nel primitivo uno ‘psicopatico naturale’: dopo questi due autori il primitivo o il soggetto non-occidentale è stato considerato una persona altra, con una sua cultura, e si è tentato di ridarle una “dignità parallela”. Questa, sebbene sia stata definita etnopsichiatria, in realtà è soltanto la sua antenata: una più corretta definizione sarebbe quella di psichiatria transculturale, lo studio cioè di forme culturalmente definite di psicopatologia, inquadrabili nel contesto dell’invarianza del sintomo prodotta dalla psichiatria occidentale, o di come si modifichi in altre culture la patologia osservata in Occidente.

L’etnopsichiatria sposta l’attenzione dall’osservazione dei modelli tradizionali di diagnosi e terapia psichiatrica, che per quanto dignitosi sono comunque ‘altri’, alla considerazione dei modelli tradizionali come gli unici veri per i soggetti che ad essi culturalmente aderiscono e all’interno dei quali la prassi psichiatrica deve prendere corpo.

La conseguenza di questo approccio è che non esiste una psichiatria scientifica, né un continuum di psichiatrie scientifiche (per esempio da quella occidentale moderna, che sarebbe il massimo, a quella degli aborigeni australiani, il minimo). Esistono invece tante psichiatrie quante culture ed è ogni singolo sistema culturale che fonda una sua psichiatra’ intesa ovviamente come insieme di norme e regole che caratterizzano la definizione del fatto psicopatologico, la sua eziologia, la sua terapia. Ciò è possibile perché esistono relazioni profonde tra psiche e cultura, assai più di quanto la psichiatria forse non abbia mai riconosciuto. La cultura è una struttura specifica di origine sociale che contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico, un sistema di regole, credenze, metodi e modelli che contribuisce alla costruzione del mondo di un individuo e lo garantisce da una crisi di presenza, sia esterna, sia interna. E’ l’esistenza di questo filtro che assicura il sentimento di identità, coerenza e coesione dell’individuo sociale.

La cultura può essere considerata il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano. Ed esiste una certa ‘circolarità’ tra psiche e cultura. Se è vero infatti che non vi può essere alcun funzionamento psichico senza struttura culturale, è pur vero che non vi può essere fenomeno culturale che non sia alimentato, talvolta anche determinato, dallo psichico. I due elementi interagiscono in maniera continua. Per comprendere un meccanismo di questo tipo si potrebbe utilizzare un paragone informatico: la cultura è l’hardware sul quale ‘gira’ un software che è in grado di modificare, una volta attivato, l’hardware che ne consente il funzionamento. Di fatto esiste una forma di ‘ingranamento’ tra cultura e psiche, di cui ci si accorge utilizzando il criterio della scatola nera e valutando l’output di una cultura al tempo stesso psichico ed etnico: è indiscutibile che tra i prodotti della psiche e la cultura esiste una correlazione evidentissima. Leggendo un romanzo arabo si scorge un mondo diverso da quello che si vedrebbe leggendo un romanzo, per esempio, americano.

Proprio per questo ingranamento tra psiche e cultura, è ovvio ipotizzare che possono esistere dispositivi che lo interdicono, lo deviano, lo banalizzano o lo distruggono; ma alla stessa maniera esisteranno dispositivi, stavolta terapeutici, che favoriscono l’ingranamento reciproco tra cultura e psiche.

Il primo problema che si evidenzia sul piano clinico è la difficoltà che il paziente esterno alla cultura occidentale, per esempio l’immigrato, ha nel rapporto con lo psichiatra. Ciò è dovuto al fatto che il paziente non-occidentale viene costretto all’interno della nosologia occidentale e sradicato dal suo contesto culturale originario. La clinica psichiatrica occidentale utilizza, ovviamente, quelle che si possono definire le diagnosi di natura, come quelli stabiliti dalla nosografia europea o americana. Ma nella realtà, la diagnosi di natura è solo un’operazione ideologica che si autoconvalida, mentre bisognerebbe sempre riconoscere la singolarità del paziente e la sua possibilità di entrare in una relazione di trasformazione terapeutica senza rimanere intrappolato all’interno di un gruppo nosografico che non lo descrive come persona, né tantomeno come portatore di disagio psichico. Il punto critico del processo terapeutico con i pazienti non-occidentali è allora costituito dalla scoperta e dalla comunicazione delle eziologie tradizionali, dalla loro accettazione e dal loro uso. Lo psichiatra diventa il traduttore, l’interprete di un’eziologia psichiatrica culturalizzata, e non più lo ‘stigmatizzatore’ del paziente, della sua famiglia, della sua cultura.

Campi di applicazione

Di norma si reputa che l’obiettivo dell’etnopsichiatria debba essere quello di soggetti di cultura non-occidentale che giungono all’osservazione dello psichiatra in un contesto occidentale. Ma non è vero. L’etnopsichiatria può essere applicata anche alla maggioranza della popolazione italiana, che in generale mantiene legami misconosciuti e comunque vincolanti con le culture tradizionali originarie.

Questa realtà è stata occultata dai processi di modernizzazione strutturale e di omogeneizzazione culturale, ma persiste nelle pieghe e negli interstizi della società italiana contemporanea e da queste profondità continua ad esercitare specifici effetti culturali e psicopatologici.

Obiettivo dell’etnopsichiatria è l’intervento nel contesto delle differenze culturali emergente dai processi di trasformazione generale della società nazionale (analisi delle culture contadine e delle classi subalterne; studio sulle migrazioni interne e internazionali della popolazione italiana; ricerche sugli effetti psicopatologici di queste migrazioni di massa). E’ importante evidenziare come uno dei campi elettivi dell’etnopsichiatria sia il disagio che deriva dai contatti interculturali, tema oggi di straordinaria importanza. In quest’area, caratterizzata da disordini cognitivi, affettivi, somatici e comportamentali variabili da cultura a cultura, fenomeni come lo scambio culturale, l’emigrazione, lo sradicamento dal proprio contesto culturale originario assumono una connotazione fortissima. In senso generale il campo d’azione è costituito da tutte quelle fenomenologie cliniche che possono dirsi alimentate dalle trasformazioni culturali delle società complesse. L’approccio etnopsichiatrico è stato usato nel trattamento dei disturbi alimentari, degli stati di dipendenza, delle sindromi borderline, dei comportamenti disfunzionali da affiliazione a gruppi religiosi, ideologici e competitivi, della tortura politica, dei problemi insorgenti in matrimoni e adozioni interculturali.

Bisogna ammettere che l’Italia rappresenta un’area ideale per sperimentazioni etnopsichiatriche. E’ in un simile contesto culturale, infatti, che si è sviluppato un dispositivo che tenta di collegare l’individuo sofferente al proprio contesto sociale, ricercando in tale contesto le risorse potenziali per la realizzazione di processi terapeutici efficaci. All’interno di questo dispositivo (la psichiatria territoriale) si sono sperimentati per quasi vent’anni, processi di ibridazione e integrazione di saperi eterogenei, che non hanno ancora ricevuto una sistematizzazione teorica sufficiente. Questo è un terreno ideale per l’etnopsichiatria.

Il punto di vista si sposta dall’uso degli strumenti concettuali della psichiatria moderna all’immersione, sempre problematica, nei profondi nuclei esperienziali di specifiche culture (o sottoculture), che posseggono una ‘terapeutica’ alla cui logica si va ad aderire. Si tratta di abbandonarsi a un particolarissimo flusso di continuità lasciandosi ‘infiltrare dalle dinamiche operatorie del pensiero tradizionale. Si comprende come questa interazione appaia particolarmente intensa e rischiosa, per cui diventa importante che l’operatore riesca a inscriversi nella propria specifica identità culturale, sempre contenuta dietro la sua identità tecnico-professionale, in cui dimora quasi clandestinamente.

Questo ritorno alla realtà delle proprie origini culturali, equivalente a una sorta di ‘seconda nascita’, rappresenta lo strumento principale che garantisce il funzionamento tecnico e mentale di colui che interagisce con l’alterità culturale, proponendosi di trasformarla e venendone puntualmente trasformato.

Esistono differenze importanti nella percezione che l’individuo e il suo ambiente comunitario hanno del disagio psicologico. Per quanto la psichiatria abbia da sempre tentato di classificare e semplificare nosografie, eziologie e modelli eziopatogenetici un dato incontrovertibile, che scaturisce dalle osservazioni etnologiche, è che una definizione di malattia e disagio psichico deriva sempre e comunque dal sistema culturale nel cui contesto essa origina. E’ anche all’interno di questo contesto che il ‘disturbo psichiatrico’ trova una sua collocazione, una sua spiegazione, un suo senso. Per dirla con Lanternari: «dove un’intera comunità o un paese segue concordemente, condivide fideisticamente la validità, la coerenza e consistenza d’una data rappresentazione del male e delle sue cause extra-biologiche (cioè, per noi, extra-scientifiche), si creano le condizioni di base per le quali si rende credibile, sperabile e possibile l’efficacia oggettiva di pratiche terapeutiche che a quelle “cause” date unanimemente per certe, si attagliano e adeguatamente si contrappongono».

Approccio e terapia acquisiscono un’efficacia tanto maggiore quanto più è coerente con il sistema: un’efficacia che è simbolica assai prima che scientifica.

L’operatore

In una cultura tradizionale sembra prevalere una modalità di approccio sincretistica, olistica, globale, ove il contributo di ciascun operatore si fonda sul suo ‘potere’, sulla sua capacità di leggere segni e decifrare messaggi, percepire il silenzio che è sotteso al frastuono, e l’impensabile rumore dei silenzi. L’operatore efficace è quindi anzitutto un interprete culturale, in grado – indipendentemente dalla sua posizione professionale e dalla sua funzione formale – di partecipare attivamente al processo della presa in carico e dell’elaborazione diagnostica e terapeutica, in grado di mediare tra la cultura dominante e quella subalterna. Nell’approccio etnopsichiatrico gli operatori si pongono nei confronti del paziente non come ‘professionisti’ del disagio, ma come ‘lettori’ della teoria di malattia che in quella data cultura spiega il disagio, le sue origini e le terapie possibili.

L’etnopsichiatria clinica implica l’annullamento della diversità delle culture e la strutturazione di una comunicazione omogenea caratterizzata dal ‘parlare nella stessa lingua’. Sarebbe un errore, però, ritenere che tutto ciò debba implicare una ‘compenetrazione’ o una ‘commistione’ tra due culture diverse. La concordanza culturale non è identità. E’ invece la messa in gioco, nella relazione terapeutica, di quegli aspetti della cultura altra che sono anche nell’operatore, ancorché sovrastati dagli aspetti di una diversa cultura. Bisogna che l’operatore scopra in se stesso tutto ciò che può consentirgli un dialogo con l’altro, sul piano culturale. Tutti i valori comuni, le credenze, i simboli, e le convinzioni fanno parte di una simile concordanza, la costruiscono, la rendono reale.

E’ questa concordanza che consente all’operatore non di abbandonare la propria cultura di origine, ma di sospendere il giudizio e leggere nell’interlocutore il senso del disagio, la categoria alla quale esso appartiene, le strade percorribili per risolverlo. Il passo successivo potrà essere molto diverso: talora sarà possibile e facile lavorare come ‘terapeuti’ nel rispetto della teoria di malattia del paziente. In questi casi è come se il paziente sapesse, a un livello del tutto inconscio, che cosa può risolvere il suo problema psichiatrico, ma gli manchino la consapevolezza e il potere di risolverlo. Il terapeuta è colui che ha il potere, quindi la capacità in termini pratici di riuscire a fare elaborare al paziente la sua teoria di malattia e la terapia culturale adeguata. Quest’ultima verrà ‘caricata’ e resa efficace dal potere del terapeuta, vero e proprio trasduttore messo in connessione tra disagio e cultura del paziente per decodificare gli aspetti simbolici e pragmatici che trasformano il sistema culturale in sistema terapeutico efficace. Una buona dimostrazione pratica di questa efficacia è descritta nel caso che riporto.

L’approccio etnopsichiatrico, insomma, è dimostrabilmente efficace nel momento in cui il disagio psichico viene considerato nelle sue caratteristiche di sindrome mediata e caratterizzata dalla cultura originaria del paziente (cultural-bound syndrome). Esistono certamente spazi per la sua utilizzazione in una serie assai vasta di situazioni cliniche, ma a condizione che l’équipe di operatori sia disponibile ad utilizzare strategie anche decisamente eterodosse e che l’integrazione tra gli operatori venga sempre mediata dalla concordanza culturale con il paziente. Il setting etnopsichiatrico è aperto, flessibile, elastico. Esso deve implicare la presenza di figure professionali differenti, caratterizzate da una conoscenza quanto più possibile specifica della cultura, del sistema di credenze, della lingua, del luogo. Si deve cercare insomma dietro la domanda del paziente il modello culturale che la condiziona e trovare una concordanza con la propria cultura. Solo in questo modo la comprensione del paziente sarà aperta, libera da pregiudizi, non condizionata da una cultura dominante.

Giovanni Iannuzzo

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U SCANTU

La paziente, che chiameremo G. L., si presenta all’ambulatorio distrettuale di un importante centro madonita. E’ poco più che ventenne ed è studentessa universitaria di una facoltà scientifica. In quanto tale risiede per buona parte dell’anno a Palermo. Espone il suo caso con molta precisione, ben attenta alle parole che utilizza. L’anamnesi psichiatrica personale e familiare è negativa A seguito di un evento traumatico – avere assistito a un incidente – la paziente ha sviluppato una sindrome ansiosa, con disturbi del sonno, depressione, idee ossessive angoscianti legate all’evento traumatico. Il livello delle sue performance è precipitato, ha solo idee fisse legate a quell’evento. Viene posta diagnosi di Disturbo Post-traumatico da Stress e le viene prescritta una terapia a base di ansiolitici e antidepressivi, nel contesto di frequenti incontri di sostegno. Nonostante questo la situazione, dopo un paio di settimane non accenna a migliorare. Permangono soprattutto sogni angosciosi, caratterizzati da un’intensissima sensazione di paura incoercibile. Gli aumenti posologici dei farmaci non sembrano sortire alcun effetto.

La ragazza appare perfettamente consapevole della natura reattiva del suo disturbo, ma non riesce a controllare la sintomatologia. Parlando dei sogni dice che ha addirittura paura di addormentarsi, perché sa che in sogno le ricomparirà la scena traumatica, con tutto il conseguente carico di angoscia. Lei tenta molto di razionalizzare, ma i risultati sono del tutto inadeguati. In una riunione di gruppo un’operatrice suggerisce che sembra proprio un caso di ‘scantu’ (spavento): a causa dell’evento traumatico, lo spavento le è entrato dentro, e bisogna toglierglielo.

La sindrome ‘ru scantu’ è caratteristica di quel contesto sociale, e in qualche modo si ricollega ad altre sindromi cultural bound (il ‘mal de susto’ dei Paesi latino-americani). Consiste nel fatto che dopo un evento traumatico la paura sembra ‘possedere’ la vittima e l’unica terapia appare quella di ‘livari u scantu’, togliere lo spavento, utilizzando pratiche di medicina tradizionale: alcune persone possiedono il dono di compiere riti che ‘tolgono lo spavento’, che si tramandano di generazione in generazione. Non è certo una spiegazione scientifica, ma è profondamente radicata nel contesto culturale al quale la paziente appartiene, nonostante la sua ‘vernice’ di inculturazione.

Nel colloquio successivo le dico che ho l’impressione che il problema stia nel fatto che tenta troppo di razionalizzare la paura e che forse è proprio questo che le crea un conflitto, tra la paura che avverte e la convinzione di non dover avvertire paura. I suoi sogni angosciosi sono espressione di questo conflitto. Dobbiamo trovare una soluzione a questo dilemma. All’incontro successivo la paziente appare molto turbata. Racconta un sogno. Dice di avere sognato la nonna paterna, una contadina che lei ricordava appena da piccola, che le diceva che l’unica cosa da fare era farsi ‘livari u scantu’; diceva anche che doveva farlo il più presto possibile.

La ragazza parla quasi con vergogna del sogno, si aspetta di essere criticata, precisa che lei non ci crede, che ha una cultura scientifica e che si limita a raccontare i fatti. La rassicuro e le spiego che la cosa importante è trovare una soluzione, non definire una soluzione.

La paziente torna due settimane dopo. Mi dice che ha sospeso tutti i farmaci ma si sente bene, non ha più sintomi. Mi dice anche che, dopo l’ultimo colloquio, si era decisa ad andare da una che ‘cirmava’, che le aveva tolto lo spavento. Da quella stessa sera (il rito si svolge sempre dopo il tramonto) non aveva presentato alcun sintomo. Un follow-up effettuato tre mesi dopo non mostrava alcuna recidiva del quadro clinico.

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