L’ansia: qualche domanda e qualche risposta

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Panic attack in public place. Woman having panic disorder in city. Psychology, solitude, fear or mental health problems concept. Depressed sad person surrounded by people walking in busy street.

L’ansia, in tutte le sue forme, è una delle cause più frequenti per le quali ci si rivolge prima al medico di base, poi (e spesso solo per caso …) allo psichiatra. Sebbene come tipo di disturbo non sia sicuramente ‘grave’, esso provoca nel paziente sensazioni estremamente sgradevoli, lo fa vivere in uno stato di costante attesa angosciosa, quando non – per forme particolari che questo disturbo assume- limita in misura notevole le sue potenzialità. Una mia paziente, giovanissima, per anni non era potuta uscire più di casa, per i suoi attacchi di panico. Non aveva potuto prendere la patente, aveva limitato in maniera drastica la sua vita sociale e lavorativa. Come si vede l’ansia non è poi cosa da poco. Eppure è anche un disturbo che spesso si sottovaluta: lo si affronta con rassicurazioni, si pensa spesso che sia dovuto ad un capriccio del paziente, e non ad una malattia reale. Quando poi si scoprono ‑ perché prescritti dal medico o perché suggeriti dall’amico (cosa non rara: si tratta infatti di un disturbo frequentissimo) gli psicofarmaci, si rischia di entrare nella spirale della dipendenza, cosa spesso inevitabile quando gli ansiolitici sono assunti senza controllo specialistico.

Da qui una serie di facili mitologie sui pericoli insiti nell’uso degli psicofarmaci. Insomma, problemi e mitologie.

L’ansia è un insieme di reazioni emotive, che si manifesta con delle caratteristiche tipiche, che riguardano sia la sfera psichica sia quella fisica. Dal punto di vista psichico il paziente è irrequieto, impaziente, in apprensione, qualunque stimolo esterno lo può mettere in allarme. Si affatica per nulla, si distrae, ha rilevanti disturbi della memoria, non dorme la notte e, se dorme, dorme male e magari fa anche sogni angoscianti o addirittura degli incubi.

A questi penosi sintomi psicologici si accompagna una serie di disturbi strettamente fisici: ha la sensazione di soffocare, non riesce a respirare bene, si sente la gola ‘stretta’. Sente il cuore che batte forte (cardiopalma) o che ha dei ‘tuffi’, “come se perdesse un colpo di tanto in tanto” (extrasistoli). E’ irrequieto anche sul piano motorio, non riesce a star fermo; suda, ha tremori, ha senso di vertigine, che si accompagna quasi inevitabilmente alla paura di svenire o di morire. Talvolta lamenta anche mal di testa.

Uno degli apparati che maggiormente risente dell’ansia è quello gastrointestinale: il paziente non ha fame, o, al contrario, ha una fame ‘da lupo’. Può avere nausea, talvolta presenta vomito mattutino. Sente un ‘vuoto alla bocca dello stomaco’ – quella zona addominale che anatomicamente si chiama epigastrio, mentre il sintomo viene definito aura gastrica. Ha molto spesso sintomi a carico del colon, con evacuazioni frequenti e abbondanti. Non raramente ha un bisogno frequente di andare in bagno ad urinare. Tutti questi disturbi possono essere presenti contemporaneamente o separatamente ed alcuni possono essere più intensi di altri. Ma quali sono le origini dell’ansia? Esistono, al riguardo molte teorie. Quella psicoanalitica, la più antica, sottolinea che l’ansia è la manifestazione esterna di un conflitto all’interno del sistema psichico, per cui essa è un segnale dell’esistenza di una dissonanza, in genere tra l’Io, la parte cosciente e controllata della mente, e la parte inconscia che è invece depositaria di istinti e pulsioni assolutamente primitive e irrazionali. Quando questi due tipi di contenuto (quello dell’inconscio e quello dell’Io) vengono in conflitto, il soggetto avverte il conflitto attraverso l’ansia. E’ una teoria affascinante, ma di teorie affascinanti ve ne sono tante. Esiste, per esempio, un modello ‘relazionale’ che sostiene che l’ansia è un segnale di disagio all’interno di un sistema di relazioni (familiari, interindividuali, sociali). Allora, quando qualcosa non funziona all’interno della comunicazione (sia essa la comunicazione all’interno di una coppia, di una famiglia, di un sistema anche  più ampio) si manifesta l’ansia, che ha la funzione di messaggero di questo sistema disturbato. Il soggetto, insomma, esprime con l’ansia qualcosa ‑ di cui lui stesso è entro certi limiti inconsapevole ‑ che va decodificato per riportare il sistema alle sue condizioni originarie (e ideali) di equilibrio.

Di particolare interesse è quello che viene chiamato il ‘modello cognitivo’ dell’ansia, che fornisce forse la spiegazione più esaustiva del come e del perché si scateni l’ansia in un soggetto. Lo spiegheremo pertanto più in dettaglio. Questa lettura dell’ansia si origina dalla constatazione che ogni persona ha una propria modalità di risposta emozionale ed affettiva ad uno stimolo. Questo significa che di fronte allo stesso stimolo non tutti i soggetti rispondono nello stesso modo: la modalità della risposta dipende dalle aspettative, dalla personalità del paziente, dalle sue esperienze precedenti. Un soggetto, cioè, attribuisce un significato assolutamente individuale a uno stimolo che, in un’altra persona, può provocare una reazione del tutto opposta. Questa viene chiamata ‘valutazione cognitiva’. Nel caso dell’ansia, è evidente che la persona attribuisce ad uno stimolo il significato di una minaccia soggettiva (indipendentemente dal valore reale dello stimolo stesso, e dalla sua effettiva minacciosità). Il contenuto fondamentale di questa reazione sembra poter essere relativo alla controllabilità o meno di un evento: più un evento appare incontrollabile, più la persona (più quella persona) è preparata alla reazione d’ansia. Questo scatena un’attivazione emozionale, che può essere rappresentata come un percorso a due vie. La prima porta all’esperienza soggettiva, estremamente sgradevole, dell’ansia (il sentirsi in ansia); la seconda (attraverso una mediazione cerebrale che implica soprattutto il sistema limbico e poi l’ipotalamo) attiva il sistema neurovegetativo e neuroendocrino, producendo tutti i sintomi somatici che sono tipici dell’ansia. E’ un modello (peraltro dimostrato sperimentalmente) che consente di capire perché l’ansia sia un fattore così variabile e la risposta ad uno stesso stimolo causi in persone diverse reazioni talmente differenti.  Da un punto di vista strettamente biologico, l’ansia appare correlata a particolari sistemi cerebrali di regolazione. Detto in termini molto semplici, sembrano esistere nel cervello dei sistemi neurochimici che controllano l’ansia in maniera molto complessa, anche attraverso la secrezione di sostanze endogene che sarebbero in qualche modo degli ‘ansiolitici’ naturali o sostanze che al contrario incrementano l’ansia. E’ all’interno di questi meccanismi di regolazione neurochimica che andrebbe cercata l’origine fondamentale dell’ansia. Il che non è affatto in disaccordo, una volta tanto, con la teoria cognitiva dell’ansia; esiste questo complesso meccanismo di risposta a stimoli esterni, che si trasformano poi in stimoli interni per la mediazione di sostanze specifiche; i sistemi di regolazione interna, pertanto, potrebbero essere modificati da risposte emotive causate a loro volta da stimoli esterni. L’’ansia così trova una spiegazione, ma questo modo di valutare l’ansia stessa da conferma di un’enorme flessibilità neuropsicologica, in base alla quale il nostro cervello risponde alle interazioni tra individuo e ambiente, le reinterpreta e le traduce il linguaggio neurochimico.

L’ansia non si presenta sempre nello stesso modo. In psichiatria si distinguono diversi quadri clinici, tutti caratterizzati dalla presenza in varia misura dell’ansia, ma con caratteristiche molto diverse. Quando l’ansia si presenta nel modo che abbiamo descritto più sopra si parla di ‘disturbo d’ansia generalizzata’, nel senso che tutta l’esistenza dell’individuo è permeata da questo stato emotivo e da questi stati d’animo., Ma questo è solo un modo nel quale l’ansia si presenta. Un tipico stato d’ansia è, per esempio, l’agorafobia [dal greco: paura delle piazze, degli spazi aperti]. Il paziente con questo disturbo ha ‘paura’: paura di trovarsi da solo per strada, di andare in luoghi affollati o chiusi, di attraversare piazze grandi, o semplicemente di uscire da solo. Non guida, anche se prima guidava, non prende più il treno o l’aereo, non esce più da solo. Ha paura che gli succeda qualcosa, che possa svenire, o addirittura morire. Se esce da solo (e in certi stati non molto gravi succede) segue solo percorsi particolari costellati da precisi punti di riferimenti, luoghi nei quali se stesse male potrebbe trovare aiuto. Non si discosterà da quei percorsi tracciati dalla sua paura per nulla al mondo. Spesso associato a questo disturbo ce n’è un altro, il Disturbo da Attacchi di Panico: il paziente, sia che abbia la sua agorafobia sia anche che non l’abbia, è preso improvvisamente dal panico, in apparenza senza alcuna causa scatenante. Avverte una intensa paura, ha una sensazione di morte imminente e presenta tutta una serie di sintomi fisici tipici dell’ansia: palpitazioni, senso di soffocamento, tremore, vertigini, sudorazione profusa, paura di perdere i sensi. In genere questi pazienti si rivolgono immediatamente al medico, o vanno al pronto soccorso per sincerarsi di non avere avuto un attacco cardiaco. Molto spesso iniziano a sottoporsi ad esami clinici anche complessi, ed entrano nella spirale di una medicalizzazione continua.

Il DAP può, o meno, essere associato all’agorafobia, che complica, ovviamente la situazione. Abbastanza spesso, dopo il primo attacco di panico, il paziente tende accuratamente ad evitare tutte le situazioni (del tutto casuali) che erano connesse all’attacco stesso: se era in una strada molto grande, eviterà con cura tutte le strade con quelle caratteristiche. Se stava guidando eviterà di guidare o almeno di guidare da solo, se era al cinema, si rifiuterà caparbiamente di andare al cinema. Ed è inutile tentare di convincerlo: tutte queste situazioni, infatti, gli scatenano una ‘ansia anticipatoria’, che non riesce assolutamente a controllare.

La paura è una caratteristica degli stati di ansia (che si potrebbe classicamente definire  ‘paura di avere paura’), e spesso si manifesta, comunque, con caratteristiche molto delimitate, quelle che chiamiamo ‘fobie specifiche’. Si tratta di paure assolutamente irragionevoli; ne esistono decine, tutte identificate con un termine che trae abitualmente origine dalla parola greca che indica l’oggetto di cui si ha paura: allora, abbiamo la paura degli spazi chiusi (claustrofobia), la paura delle altezze (acrofobia), la paura degli animali (zoofobia), la paura dei cani (cinofobia), e chi più ne ha più ne metta (in fondo esistono centinaia di cose di cui si può, a ben pensarci, avere paura). Un particolare tipo di fobia è la ‘fobia sociale’, cioè la paura irrazionale di tutte quelle situazioni che ci mettono a contatto con gli altri. Si ha una paura irragionevole di ciò che gli altri possano pensare di noi, del giudizio altrui, insomma. Rimarco il termine irragionevole. Il paziente con questo disturbo ha una grande paura di essere criticato, e pertanto eviterà tutte quelle situazioni nelle quali potrebbe perdere la stima degli altri. Questi sono i principali quadri clinici che definiamo ‘ansia’.

Esistono però numerosi altri disturbi d’ansia, anche perché, come dicevamo, l’ansia è una condizione che, lungo un range che va dalla normalità alla patologia anche grave è estremamente diffuse. Esiste però almeno un altro quadro clinico fortemente caratterizzato da ansia patologica: si tratta del DOC (acronimo di Disturbo Ossessivo Compulsivo). Il Disturbo Ossessivo Compulsivo sino a poco tempo fa veniva considerato un classico disturbo d’ansia, mentre ora si reputa che abbia una origine ed un meccanismo più complesso, sebbene la sua manifestazione fondamentale, sul piano dei sintomi, sia proprio l’ansia. Il paziente che ha questo disturbo avverte dei pensieri del tutto irrazionali, ma che gli creano una importante quota di ansia: sono pensieri che riguardano la paura e la tentazione di fare qualcosa di errato, criminoso o osceno, che in realtà il paziente non farebbe mai. Anzi, spesso questi pazienti sono delle persone di grande utilità sociale: puliti, correttissimi, coscienziosi e attenti sono delle vere e proprie ‘colonne’ della società. Vivono però perseguitati da questi pensieri ossessivi, continui che non riescono a scacciare dalla mente, o meglio riescono a farlo solo se compiono dei ‘riti’ veri e propri, ovvero delle azioni che si svolgono (si devono svolgere!) sempre nella stessa maniera: lavarsi le mani un certo numero di volte, e sempre quel numero di volte o un multiplo esatto di quel numero di volte; fare un’azione anche banale in un certo modo stereotipato – per esempio chiudere la porta un certo numero di volte, etc. Il sintomo, quindi, è caratterizzato da una idea ossessiva, e da un rito che ne controbilancia gli effetti, e che non può non essere evitato perché in quel caso il paziente avverte un’ansia intensissima, intollerabile. Talvolta questa sindrome è così grave da limitare in modo significativo le capacità lavorative, relazionali, intellettuali di questi pazienti: costretti a perdere un’enorme quantità di tempo per sistemare la sedia a tavola in un certo modo,  lavarsi le mani un certo numero di volte e a fare, insomma, una serie di altre azioni compulsive e passano gran parte del loro tempo a compiere questi riti ‘esorcistici’, dei quali non possono fare a meno, perché altrimenti la loro ansia assumerebbe proporzioni dirompenti. Del DOC sono state proposte diverse interpretazione, compresa quella psicoanalitica (Freud si occupò specificamente di questo disturbo), In realtà oggi sappiamo che si tratta di un disturbo psichiatrico con una precisa origine biologica. Le componenti psicologiche possono riguardare casomai il livello di adattamento sociale e relazionale del soggetto con DOC e la sua capacità di gestire e controllare le proprie ossessioni e compulsioni.

Una forma particolare di ansia è il Disturbo da Attacchi di Panico (DAP). Esso si manifesta con una sintomatologia, talvolta imponente e al tempo stesso di tipo cognitivo e psicofisicologico.  Esso occupa un posto importante nella gerarchia dei disturbi psichiatrici ed ha una storia  particolarmente complessa, che ha portato a diverse fasi interpretative della natura del disturbo. In realtà per molto tempo esso è stato visto esclusivamente nei suoi aspetti psicologici e psico – dinamici dalla psichiatria ad orientamento dinamico, nei suoi aspetti puramente somatici (specialmente cardiologici) dai medici internisti, escludendo o minimizzando così gli aspetti più propriamente cognitivi. In effetti è abbastanza recente la collocazione del DAP nel contesto più consono: quello di una specifica entità nosologica che si presenta con delle caratteristiche tipiche non solo dal punto di vista sintomatologico, ma anche da quello della sua storia naturale, compresi alcuni aspetti relativi alla familiarità, alla risposta ai farmaci e ai correlati biologici. In effetti, la distinzione del disturbo da attacchi di panico da altre sindromi ansiose apparirebbe difficile sulla scorta dei soli dati clinici, e i confini tra una sindrome e l’altra sono spesso in effetti abbastanza sfumati. Le differenze fra il DAP e altre sindromi ansiose diventano chiare se il Disturbo da Panico viene valutato alla luce delle specifiche caratteristiche biologiche che la condizionano. Per esempio, si sa che si tratta di un disturbo con una certa ‘familiarità’, nel senso che i figli di genitori affetti entrambi da questo disturbo potranno a loro volta svilupparlo, mentre questa percentuale scende al 42 per cento se è un solo genitore a presentarlo. Questo non significa che sia un disturbo ‘ereditario’, bisogna tenere presente che un bambino che vive in un ambiente dove questo disturbo è presente potrà anche apprenderlo. L’età di esordio è in genere giovanile ‑ adolescenziale. Sindromi che insorgono più precocemente, come la fobia scolare, o l’ansia di separazione o la claustrofobia, possono rappresentare modalità attenuate della stessa malattia.

Il disturbo da attacco di panico è una malattia psicologica, legata insomma a conflitti e fatti inconsci, insomma come l’ansia?

In realtà l’ansia ha anche una base organica, come dimostrato dai risultati di una serie di esperimenti e di Infine, si è visto che è possibile scatenare un attacco di panico in pazienti che presentano un disturbo da attacchi di panico con l’infusione di sostanze particolare, come il lattato di sodio in forma racemica. Queste caratteristiche degli attacchi di panico, sostanzialmente slegate da motivazione psicodinamiche, ma afferenti con precisione all’area del biologico, hanno consentito un approccio clinico diverso. Tale approccio è fondato sullo studio di modelli animali, nei quali potere riprodurre le manifestazioni della sindrome in questione. Si tratta peraltro di un approccio storico, che ha trovato il primo grande mentore in Pavlov con i suoi studi sui riflessi condizionati; semplicemente invertendo, nei cani, la sequenza di stimolo e risposta, si produceva un quadro assai simile nelle sue modalità comportamenti al quadro esteriore della ‘nevrosi ansiosa’. Simili esperimenti furono ripetuti con successo su scimmie. Ma ha un senso studiare un fenomeno mentale tipicamente umano sugli animali? I modelli di ricerca animali nel campo della psichiatria e della psicologia clinica trovano oggi una applicazione certa  e rispondono ad un razionale che, anche se pone in secondo piano le eventuali componenti psicodinamiche, può essere giustificato in chiave strettamente etologica. Basti qui ricordare i tentativi di produrre disturbi dell’affettività o comportamenti simili alla “follia” nelle scimmie.

Ma quali sono le terapie per l’ansia?

Oggi esistono ottimi rimedi terapeutici. Anzitutto diverse classi di farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale, per così dire sulle “fonti fisiche” dell’ansia – cioè sulle sostanze che sono implicate nell’insorgenza dei vari quadri clinici e sulle loro interazioni.. I farmaci più famosi sono le benzodiazepine, che comunque non hanno in genere effetti risolutivi, ma sostanzialmente solo sintomatici. I farmaci più efficaci appartengono alla cosiddetti antidepressivi, cosiddetti perché, inventati per la depressione, si è visto che curano, e molto bene, sino alla completa guarigione, i disordini ansiosi, anche quelli più severi. La ricerca farmacologica è riuscita a minimizzarne gli effetti collaterali e a renderli sempre più sicuri e tollerabili. L’unico inconveniente che presentano è il “tempo di latenza”, il periodo cioè che deve intercorrere fra l’inizio della terapia e i primi effetti terapeutici: in genere si tratta di un periodo di circa un mese. Questa lentezza d’azione degli antidepressivi viene comunque compensata dall’associazione con farmaci ansiolitici, che vengono in genere usati come ‘sintomatici’ sino a quando l’antidepressivo non inizia a funzionare bene. Poi vengono sospesi. Le terapie antidepressive comunque devono poi proseguire per periodi di tempo variabili, ma abbastanza lunghi (almeno da sei mesi a due anni). Studi clinici dimostrano peraltro che terapie prolungate rendono meno probabili eventuali ricadute. I farmaci vanno ovviamente assunti sotto stretto controllo medico specialistico.

Poi naturalmente esistono le psicoterapie, da quelle comportamentali (efficaci per le fobie, o il disturbo ossessivo compulsivo, per esempio) a quelle di tipo cognitivo o cognitivo-comportamentale e tante altre ancora.  Le psicoterapie – se ben fatte – sono molto efficaci, specialmente nei casi in cui la sintomatologia ansiosa è, come accade spesso, legata a situazioni esistenziali, problemi relazionali, difficoltà di adattamento. Trattamenti psicofarmacologici e psicoterapia vanno spesso associate per produrre una completa guarigione. Perché dall’ansia, sia chiaro, si guarisce. Basta seguire le indicazioni giuste che possiamo così sintetizzare:

  1. Non sopravvalutarla (in fondo l’ansia è una reazione di adattamento), ma nemmeno sottovalutarla. Le sindromi ansiose possono condizionare la vita quotidiana in modo anche severo.
  2. Rivolgersi, allora, senza pregiudizi, ad uno psichiatra per una terapia farmacologica o per un terapia combinata farmacologica e psicoterapica. Il problema è che spesso la parola stessa ‘psichiatra’ viene associata alla follia o comunque a gravi malattie mentali, e quindi farsi visitare dallo psichiatra significherebbe ammettere di avere qualche rotella fuori posto C’è anche la diffusa convinzione che l’ansia sia una ‘malattia nervosa’ o un ‘esaurimento nervoso’, e quindi rivolgersi al neurologo sembra la scelta più adeguata. Ancora, spesso il paziente preferisce credere che i suoi sintomi siano puri fatti “psicologici” ed ecco allora la scelta di rivolgersi subito allo psicologo. Si tratta di un errore dovuto sia a convinzioni culturali sia – e forse ancora più frequentemente – a “difese psicologiche”: la persona che ha un disturbo d’ansia non riesce ad accettare il fatto di avere un vero e proprio disagio mentale, per quanto lieve possa essere.
  3. Non autogestire in alcun modo i farmaci, magari per consiglio di un amico o per sentito dire. Non tutti i farmaci per l’ansia (sia ansiolitici sia antidepressivi) sono “equivalenti”. Sarà lo specialista a capire qual é il farmaco giusto, qual é la posologia più adeguata e per quanto tempo dovrà essere assunta. Il vostro psichiatra deve essere anche il “regista” di un’eventuale psicoterapia.

Si tratta, come vedete, di poche regole elementari. Eppure seguirle o non seguirle fa spesso la differenza fra una rapida guarigione e la cronicizzazione dell’ansia. E non si tratta di una differenza da poco…

Giovanni Iannuzzo