La Splendidissima nel Grand Tour. 1776: Jean Hoüel a Termini Imerese

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Poco più di una decina di splendidi acquarelli relativi a Termini Imerese sono compresi nel corpus delle vedute siciliane realizzate da Jean Hoüel, viaggiatore, pittore, architetto e naturalista francese del Settecento,

che si conservano in Russia, a San Pietroburgo, nel Museo Statale Ermitage (nome ufficiale russo Gosudarstvennyĭ Ėrmitazh, in inglese The State Ermitage Museum), appartenenti alla collezione europea di belle arti (Collection European Fine Art), sezione disegni dell’Europa occidentale (Western European Drawing). Un’ampia rassegna ragionata delle opere conservate in detta sezione del museo è stata raccolta in  corposo catalogo, curato dallo storico dell’arte Yuri Kuznetsov (cfr. Y. Kuznetsov, I. Grigoryeva, T. Ilatovskaya, A. Kantor-Gukovskaya, M. Korshunova, I. Novoselskaya, A. Voronikhina, Western European Drawing. The Hermitage, Aurora Art Publishers, Leningrad 1981, 500 pp.).
Una rassegna di 79 acquarelli siciliani (spicca l’assenza di almeno uno di quelli termitani) e maltesi, è comodamente consultabile nel sito ufficiale del museo sovietico (all’indirizzo on line https://www.hermitagemuseum.org/wps/portal/hermitage/search-results#search=Houel, ultimo accesso 21.04.2021).
Prima di ripercorrere le tappe della dimora a Termini Imerese di Jean Hoüel è doveroso tracciare la biografia di questo artista e naturalista.
Jean-Pierre-Louis-Laurent Hoüel (questa è la grafia del cognome con cui egli firmava le sue opere, mentre gli autori italiani dell’epoca lo chiamano Hovel, cfr., ad es. A. M. Gargotta, Su i bagni termo-minerali di Termini-Imerese notizie storiche, Dato, Palermo 1830,p. 17), nacque a Rouen, in Normandia, nel quartiere di S. Nicasio, Martedì 28 giugno 1735, da Jean-Pierre e da Marie-Louise Chefdeville, e si spense a Parigi, Domenica 14 novembre 1813.
Il padre di Jean era un artigiano, specializzato nella costruzione e manutenzione di tetti, che egli  realizzava in assicelle lignee, tegole e lastre di ardesia (couvreur-plâtrier en essente, tuile et ardoise). La madre, dedita a quei compiti che una volta erano considerati “lavori donneschi” (ouvrages de dames), era «marchande filassière», cioè venditrice di filati di lino, probabilmente di produzione propria (cfr. R. Herval, Un artiste normand trop oublié: Jean Houel, peintre et graveur (1735-1813), in “Revue des Sociétés Savantes de Haute Normandie – Histoire de l’Art”, n. 8,  4e trim., 1957, pp. 19-26, in particolare, p. 19; F. Morvan Becker, L’ école gratuite de dessin de Rouen, ou la formation des techniciens au XVIIIe siècle, Université de Paris VIII–Saint-Denis, UFR Histoire, Littératures, Sociologie, Genre, École doctorale Pratiques et Théories du Sens, Doctorat d’Histoire, 2010, 890 pp. Troisième partie, chapitre trois, dictionnaire biographique, Bibliothèque numérique Paris 8, on-line all’indirizzo https://octaviana.fr/document/161049583, ultimo  accesso 16.04.2021, in particolare, pp. 604-611). Da notare che la storica dell’arte Francesca Gringeri Pantano, nel suo documentato saggio sul soggiorno siracusano dell’artista, riferisce soltanto che il padre di Jean era “costruttore di tetti d’ardesia” (cfr. F. Gringeri Pantano, Jean Hoüel. Voyage a Siracusa. le antichità della città e del suo territorio nel 1777, Catalogo della mostra – Siracusa, 8 maggio-8 giugno 2003, prefazione di Pierre Rosenberg, Sellerio, Palermo 2003,p. 17).
I genitori, avendo constatato la naturale propensione del figlio Jean per il disegno, pensarono saggiamente di favorire lo sviluppo di questo talento, anche a costo di sacrifici economici non indifferenti. Nel 1751, Jean iniziò così a frequentare l’École des beaux-arts di Rouen sotto la direzione diJean-Baptiste Descamps (1714-1791) e, nel contempo, studiò architettura presso il concittadino Charles Thibault (cfr. Ch. de Beaurepaire, Notes sur les architectes de Rouen de 1750 à la Révolution, “Bulletin des amis des monuments rouennais”, Rouen 1908, pp. 109-129, in particolare, pp. 118-120; Ch. Lecarpentier, Notice sur M. Houël, peintre lue le 1er décembre 1813, à la Société Libre d’Emulation de Rouen, Baudry, Rouen 1813, p. 5).
Nel 1755, il giovane Jean si trasferì a Parigi, per fare pratica delle tecniche dell’incisione, su segnalazione del suo insegnante Descamps, presso l’atelier parigino di Jacques-Philippe Le Bas o Lebas (1707-1783), divenendo ben presto uno degli allievi più promettenti del maestro (cfr.https://www.oxfordartonline.com/benezit/view/10.1093/benz/9780199773787.001.0001/acref-9780199773787-e-00089900).
Negli anni seguenti, a partire dal 1764, Jean raffinò la sua preparazione sotto due abili pittori che avevano degli avviati atelier parigini: Francesco Casanova (1727-1803), artista d’origine italiana naturalizzato francese, fratello minore del celeberrimo Giacomo,  specializzato nella raffigurazione di scene di battaglie e di paesaggi,  ed il suo concittadino Louis Le Mire (1738-1757), fratello dell’incisore Noël (1724-1801).
Hoüel ebbe poi l’occasione di essere presentato alla signora Marie-Thérèse Rodet Geoffrin (1699-1777), un’agiata vedova (il marito, Pierre François Geoffrin era stato amministratore della casa fornitrice reale Manufacture des glaces deSaint-Gobain, produttrice di vetri pregiati in concorrenza con Murano) che lo introdusse nel suo celebre salotto parigino. Il sobrio ricevimento degli ospiti avveniva nel palazzo Geoffrin in rueSaint-Honoré, che si apriva di lunedì, ogni due settimane, molto frequentato dal fior fiore dell’intellighenzia parigina: dagli Enciclopedisti, Denis Diderot (1713-1784) e Jean Le Rond D’Alembert (1717-1783), ai filosofi Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) e Voltaire (al secolo François-Marie Arouet, 1694-1778), sino al romanziere, poeta e drammaturgo Jean-François Marmontel (1723-1799). Questo salotto era frequentato da pittori del calibro di François Boucher (1703-1770), Charles-André van Loo (1705-1765), Joseph-Marie Vien (1716-1809) e François-André Vincent (1746-1816), ma anche da naturalisti della levatura di Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788).
Nel 1768, Hoüel poté coronare il suo sogno di soggiornare in Italia. Giunse infine nella città papale come «pensionnaire», cioè come borsista,  su sovvenzione regia, avendo come meta la sede dell’Académie royale de France a Palazzo Mancini in Via del Corso, che svolgeva anche la funzione di convitto per i giovani talenti francesi. Il soggiorno nella città eterna, aveva lo scopo di far perfezionare i giovani e promettenti artisti, attraverso lo studio ravvicinato dei grandi capolavori storici, architettonici ed artistici sia della Roma imperiale, sia di quella rinascimentale, traendone ispirazione per dei saggi di bravura, da sottoporre a giudizio nella madrepatria.
Jean poté usufruire di questa grande opportunità di crescita artistica, grazie all’interessamento di Étienne François de Choiseul (1719-1785, già ambasciatore francese presso il Vaticano), del pittore-disegnatore Charles-Nicolas Cochinjunior (1715-1790), ma soprattutto per l’appoggio speciale di Abel Poisson (1727-1781), marchese di Marigny, Surintendant général des Bâtiments, Arts, Jardins et Manufactures du Roi (Sovrintendente generale dei Fabbricati, Arti, Giardini e Manifatture del Re), fratello di Jeanne-Antoinette Poisson (amante ufficiale del re Luigi XV, divenuta marchesa di Pompadour).
Nel suo soggiorno romano, Hoüel ritrovò l’amico e collega Vincent, anch’egli pensionnaire (dal 1771 al 1775), il quale nel 1772 volle eseguirne il ritratto ad olio su tela, di forma ovale (assi: cm 58×48) oggi conservato presso il Musée des beaux-arts di Rouen (cfr. M. Pinault-Sørensen, Jean Hoüel (Rouen, 1735-Paris, 1813). Collections de la Ville de Rouen, Rouen Musée des beaux-arts, 2001, Catalogue de l’exposition; si veda anche, https://mbarouen.fr/fr/oeuvres/portrait-du-peintre-jean-pierre-houel-1735-1813).
Un’ulteriore occasione giunse nuovamente grazie ai buoni uffici di Étienne François de Choiseul, Jean ebbe il privilegio di poter visitare per la prima volta Napoli e la Sicilia (nel 1770), essendo stato scelto per accompagnareil cavaliere Anne-Gabriel-Pierre de Cardevac d’Havrincourt (1739-1824) nel suo viaggio in Italia, con tappa anche a Malta (cfr. G.Brunel, dir., Actes du colloque «Piranèse et les Français» Rome, Villa Médicis, 12-14 mai 1976, collection Académie de France à Rome n. 3, Edizioni dell’Elefante, Rome/Dijon/Paris 1978, 616 pp., in particolare, pp. 151-153; su de Cardevac, cfr. J. Balteau, M. Barroux, M. Prevost,  J.-Ch. Roman d’Amat, H. Tribout de Morembert, M. Barroux, J.-P. Lobies, R. Limouzin-Lamothe, Y. Chiron, Dictionnaire de biographie française, XXI voll. pubblicati, Letouzey et Ané, Paris 1932-2011, si veda in particolare, M.Prévost, J.-Ch. Roman d’Amat, vol. VII, 1956, 1528 pp., ad vocem, p. 1126). Fu così che egli poté subire per la prima volta il fascino ammaliatore della Trinacria.
Ritornato a Parigi nel 1772, fu ammesso come paesaggista (peintre de paysages) all’Académie Royal de Peinture et Sculpture nel 1774, e poté esporre più volte ai Salons de Beaux-Arts (1775, 1781, 1789, 1791, 1804, 1806, 1807) ed al Salon de la Correspondance(1781, 1783). Fu membro associato dell’Académie de Rouen (1783) e della loggia massonica parigina des Neuf Sœurs del Grande Oriente di Francia, membro dell’Accademia di Belle Arti di Parma, della Société d’Emulation de Rouen, socio fondatore dell’Athénée des Arts de Paris, della Société libre des Sciences, Lettres et Arts, socio corrispondente della Société Philotechnique, socio della Société Académique des Enfants d’Apollon.
L’attività di Jean, rientra in quello che lo storico dell’arte Giuliano Briganti (1918-1992) ha definito “vedutismo dei pittori viaggianti” dediti sia allo studio delle antichità, sia ai fenomeni naturali (cfr. G. Briganti, Il Vedutismo a Napoli, in G. Briganti e N. Spinosa, All’ombra del Vesuvio. Napoli nella veduta europea dal Quattrocento all’Ottocento, catalogo della mostra, Napoli, Castel Sant’Elmo, Electa, Napoli 1990, pp. XXI-XXIII). Del resto, secondo i teorici dell’arte del tempo, la veduta andava intesa come «il ritratto di un luogo fatto dal vero» (cfr. C.-H. Watelet, P-Ch. Lévesque, Dictionnaire de arts de peinture, sculpture et gravure, 5 voll., 1792, vol. V, p. 835, v. Vue), quindi con assoluta fedeltà documentaria e correttezza prospettica e, nel caso di soggetti naturalistici, con una puntuale osservazione ed illustrazione degli aspetti zoologici, botanici, geologici etc., dettata da un approccio fortemente analitico.
Le sue vedute romane, napoletane esiciliane, dipinte à gouaches (tempera a base di gomma, generalmente arabica) o ad olio, con i cieli tersi e luminosi, esposte nel 1775 ai Salons, riscossero un notevole successo di  pubblico. Visto il promettente riscontro avuto dalle sue opere, Jean pensò bene di tornare in Sicilia con il proposito di realizzare un’opera di grande respiro, affiancante la pittura di paesaggio al resoconto di viaggio, illustrante l’Isola (e quelle circonvicine sino a Malta), con una puntuali descrizione e raffigurazione dei monumenti dell’antichità, dei paesaggi, delle peculiarità naturalistiche, dei costumi degli abitanti etc. In questa novella mirabile avventura, avrebbe dovuto accompagnarlo l’incisore, saggista ed enciclopedista, Claude-Henri Watelet (1718-1786), il quale però, nonostante il diniego a partire, intervenne presso Charles Claude Flahaut de La Billarderie, conte d’Angiviller (1730-1809), amico personale di Luigi XVI (che lo aveva nominato Surintendant général des Bâtiments, Arts, Jardins et Manufactures du Roi), per avere un sostegno finanziario all’entusiasmante impresa. Quest’ultima, infatti,  poté avvenire grazie ad un’ulteriore borsa di studio (ammontante a 275 luigi d’oro) ottenuta ancora per volontà regia (cfr. G.Brunel, dir., Actes du colloque «Piranèse et les Français»… cit., p. 151).
Il suo secondo viaggio, con la Sicilia come meta principale, ebbe finalmente inizio il 16 marzo 1776: Hoüel partì da Parigi alla volta del porto di Marsiglia. Fece tappa a Vaucluse per vedere le celebri sorgenti, poi Saint Remi, Avignone ed infine Marsiglia, dove salpò per Napoli, giungendo nella città partenopea dopo cento ore di navigazione.
A Napoli ritrovò i vecchi amici, salì sul Vesuvio ed assistette alla liquefazione del sangue di S. Gennaro, il primo sabato del mese (4 maggio). La sera del 12 maggio, imbarcatosi su un vascello francese, partì per la Sicilia. La nave giunse alla volta del porto di Palermo dopo trentotto ore e, avendo ottemperato ai controlli sanitari, poté finalmente attraccare.
Iniziò così il suo soggiorno siciliano. Il nostro viaggiatore era accompagnato dal suo domestico, da due guardie armate (campieri), avute dal console generale di Francia in Sicilia, Gamelin, e da un mulattiere (bordonaro).
Questo soggiorno in Sicilia, che nelle prime intenzioni dell’artista avrebbe dovuto esaurirsi in un anno, invece si prolungò ben oltre un triennio, precisamente fino al 10 giugno del 1779, quando lasciò l’Isola partendo per la Francia dal porto di Messina.
L’antica Trinacria, con le sue vicende storiche, gli usi, i costumi, il susseguirsi dei dominatori, lasciò in lui un segno indelebile. Nel suo Voyage, scriveva tra l’altro: «mai si ravvisa un’epoca in cui il popolo siciliano abbia avuto soltanto l’idea di governarsi da solo; sembra che tutti i popoli abbiano il diritto di governarsi da soli; e invece pare che tutti i popoli abbiano il diritto di governare questo bel paese tranne quello che lo abita».
Tornato a Parigi, l’artista diede in dono al re, ben 46 vedute eseguite àgouaches (oggi conservate al Louvre, Fonds des dessins et miniatures, cfr. M.Pinault-Sørensen, K. De Kersauson, Hoüel. Voyage en Sicile. 1776-1779. Catalogue de l´exposition du Louvre (Mars-Juin 1990), Éditions Herscher, Paris 1990, 118 pp.; http://arts-graphiques.louvre.fr/detail/artistes/0/1291-HOUEL-Jean-Pierre).
In patria, si mise al lavoro per trarre dal resoconto di viaggio e dai disegni realizzati, il testo e l’apparato iconografico per l’opera che aveva in progetto. Trascorsero ben otto anni di duro lavoro per poter incidere, con la tecnica dell’acquatinta, le 264 lastre di rame che dovevano corredare il suo monumentale resoconto. Finanziare una pubblicazione così impegnativa e fare quadrare i bilanci fu un’impresa ardua, per cui Hoüel, suo malgrado, si vide costretto a vendere un cospicuo numero dei suoi splendidi acquarelli (preparatori per le incisioni a corredo dell’opera in progetto) che, tramite l’intermediazione del critico Friedrich Melchiorvon Grimm (1723-1807), furono acquistati dalla zarina Caterina II di Russia, è ciò spiega perche oggi si conservano all’Ermitage di San Pietroburgo (Cfr. I. Grigorieva, M.Pinault-Sørensen, L’acquisition du Cabinet Houel par Catherine II, in “Gazette des Beaux-Arts”, nov. 1995, vol. 126, n° 1522, pp.171-86; M. Pecoraino, a cura di, La Sicilia di Jean Houel all’Ermitage, Palermo, Civica Galleria d’Arte Moderna Empedocle Restivo, 5 dicembre 1988 – 30 gennaio 1989, Sicilcassa, Palermo 1989, 349 pp.; J. Ch. Steward, ‎S. Androsov, ‎S. Olegovitch Androsov, The Collections of the Romanovs. European Art from the State Hermitage Museum, st Petersburg, Merrell, London-New York 2003, 208 pp.). Altre incisioni di Houel si conservano a Parigi nel Cabinet des Estampes de la Bibliothèque nationalede France (cfr. Y. Bruand, M. Hébert, Inventaire du fonds français, graveurs du XVIIIe siècle, Cabinet des Estampes de la Bibliothèque nationale, Paris, 1970, pp. 387-388; https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b103025148/f1.item#).
Finalmente, la sua opera più nota, fu edita tra il 1782 ed il 1787 con il titolo: Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari Où l’on traite des Antiquités qui s’y trouvent encore; des principaux Phénomènes que la Nature y offre; du Costume des Habitans, & de quelques Usages (Viaggio pittoresco delle isole di Sicilia, di Malta e di Lipari, dove si tratta delle Antichità che vi si trovano ancora; dei principali fenomeni che la Natura vi offre; del costume dei suoi Abitanti; e di qualche Usanza), Paris, De l’Imprimerie de Monsieur [Pierre-François Didot], in quattro volumi, dove l’autore si fregia del titolo di «Pittore del Re» (Peintre du Roi). L’apparato iconografico che correda la pubblicazione, per complessive 264 tavole, stampate a sanguigna, dessinées d’après nature, rende questo trattato uno dei capolavori europei del libro illustrato del Settecento. Le tavole ritraggono prevalentemente monumenti, opere d’arte e paesaggi. A ragione, questa monumentale opera è da annoverare come una delle più importanti del XVIII secolo legate al Grand Tour, indispensabile viaggio di formazione nell’Italia delle antichità classiche che, secondo la moda di quei tempi, doveva necessariamente completare l’educazione dei rampolli dell’alta società europea (cfr. C. De Seta, L’ Italia nello specchio del Grand Tour, Collana “I Sestanti”, Rizzoli, Milano 2014, 480 pp.).
Negli anni seguenti, Jean continuò ad incidere e dipingere, spinto da quella passione che non l’abbandonò giammai per tutta la sua esistenza, e da quella voglia di ampliare costantemente i propri interessi artistici e culturali (cfr. M. Volberg, Jean Houël, peintre et graveur, 1735-1813, Naert, Paris 1930, 199 pp., fig., 62 planches; M. Pinault-Sørensen, Un Artiste partisan des Lumières: Jean Hoüel, Vincennes, Presses universitaires, 1992, 12 pp.).
La sera del 24 Marzo 1798 (4 germinal anno VI, cfr. R. W. Jr. Burkhardt,  La Ménagerie et la vie du Muséum, in: C. Blanckaert et al.,eds, Le Muséum au premier siècle de son histoire, Muséum national d’Histoire naturelle, Archives, Paris 1997, pp. 481-508), dall’Olanda (occupata dalle truppe francesi nel 1795), al terzo tentativo e dopo un rocambolesco viaggio, arrivarono a Parigi due elefanti, Hans e Marguerite (in origine Parkie) appartenuti a Guglielmo V d’Orange (1748-1806), ultimo statolder  (luogotenente) delle Province Unite dei Paesi Bassi, per essere destinati al parco zoologico pubblico del Museo nazionale di storia naturale (ménagerie du Jardin des plantes duMuséum national d’histoire naturelle), e ciò destò grande interesse in ogni ceto e moltissima curiosità popolare tanto che giornalmente c’era una ressa incredibile di persone che correvano a vedere le due nuove attrazioni (cfr.  J. Renouvier, Histoire de l’Art pendent la Révolution depuis 1789 jusq’à 1804 considéré principalement dans les estampes, II, Artistes, Renouard, Paris 1863, 594 pp., in particolare, pp. 65-67). L’avvenimento dovette colpire moltissimo l’estro del nostro artista, il quale si appassionò talmente allo studio naturalistico di questi due animali, da rimanere ad osservarli per 8 settimane e dedicando loro un’opera corredata da un apparato iconografico, costituito da 20 stupende tavole b. n., tratte da disegni realizzati dal vero ed incise dallo stesso artista, con didascalie e testo esplicativo. Ivi è tratteggiata la storia naturale dei due elefanti, catturati nel 1784 nell’isola di Ceylon (oggi Sri Lanka), giunti al porto di Flessingues in Olanda e trasportati, dapprima nell’Het Kleine Loo di Voorburg, poi all’Het Loo, presso Apeldoorn, sino al loro partenza definitiva, il 25 septembre 1797, destinazione Parigi (cfr. Histoire naturelle des deux Éléphans, mâle et femelle du Muséum de Paris, venus de Hollande en France l’an VI; par J. P. L. L. Hoüel, Première Livraison, Pougens,Paris an XII-1803, 122 pp., on-line nel sito della Bibliothèque nationale de France all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k135081d/f163.item#). Da notare che Houel (p. 16 nota n. 1), curiosamente, fornisce come data di arrivo dei due elefanti al Muséum de Paris, il 4 frimaire dell’anno VI, corrispondente al 24 novembre 1797, anticipandola di quattro mesi rispetto ad altre fonti. Questa pubblicazione fu dedicata al Consigliere di Stato, Antoine-François de Fourcroy (1755-1809), chimico e medico parigino. Nell’opera, l’autore (che fornisce come suo recapito l’Hôtel d’Angeviller, Rue de l’Oratoire), citando le proprie referenze scrisse orgogliosamente di essere: «Peintre-Graveur, Naturaliste, Auteur du Voyage pittoresque de la Sicile, Lipari et de Malte, Ancien Pensionnaire de l’Académie de France à Rome, de la ci-devant Académie royale de Peinture de Paris; Membre de l’Académie des Beaux-Arts de Parme, de la Société d’Emulation de Rouen sa patrie, de l’Athénée des Arts de Paris, de la Société libre des Sciences, Lettres et Arts; Correspondant de la Société Philotechnique, et l’un des Fondateurs de l’Athénée de Paris».
Per ulteriori approfondimenti sulla curiosissima storia della coppia di elefanti, rimandiamo all’esauriente opera dello zoologo francese Philippe Candegabe, conservatore delle collezioni del Muséum d’Histoire naturelle de Bourges (che peraltro comprendono l’elefante Hans naturalizzato) dal 1994 al 2004 (cfr. Ph. Candegabe, L’incroyable histoire de l’éléphant Hans. Des forêts du Sri Lanka au Muséum d’Histoire naturelle, Vendémiaire, Paris 2016, 224 pp.).
Hoüel, dunque, fu anche un appassionato cultore delle scienze naturali come sottolineato dalla storica dell’arte Madelaine Pinault-Sørensen (cfr. M. Pinault Sørensen, The painter as naturalist from Dürer to Redouté, Flammarion, Paris 1991, 286 pp., in particolare, p. 176). La sua attitudine di naturalista, del resto, traspare già dal titolo, dalla prefazione e dal testo del Voyage. Nella prefazione, relativamente alle caratteristiche geognostiche dell’Isola, egli scriveva: «Si osserva in molti luoghi di quest’isola, che ha per base in fondo al mare delle materie vomitate dai vulcani, e che erano state ricoperte da depositi marini di ogni specie, come delle rocce calcaree di ogni tipo, semplici o composte, omogenee o riempitedi strati diversi: in altri luoghi si trovano dei gessi, degli alabastri, dei marmi; in altri luoghi delle sabbie, delle arenarie, delle puddinghe [conglomerati ciottolosi], delle argille, delle agate, dei diaspri, dei basalti, etc.».  Nel testo, ad esempio, Jean indugiava a descrivere le emissioni di gas naturale delle maccalubetra Girgenti (Agrigento) ed Aragona, oppure si appassionava a trattare dei livelli asfaltiferi del Ragusano.
In Francia circolava un piccolo ritratto a stampa del Nostro,  inscritto in un medaglione, con la dicitura J.-P.-L.-L. Hoüel, amateur, peintre du Roi, de l’Académie de Royal de peinture et de sculpture, disegnato dal già citato Cochin, chevalier de l’ordre du Roi, ed inciso da Madame Lingée, cioé Thérèse Éléonore Lingée, nata Hémery (n. 1753), moglie di Charles Louis Lingée (1748-1819, anch’egli incisore), socia dell’Académie royale di Marsiglia. Infine, sue vedute, ammirabili anche on-line (cfr. Joconde. Portail des collections des musées de France, http://www2.culture.gouv.fr), sono conservate a Tour (Musée des beaux-arts), Nantes (Musée départemental Dobrée) e Dijon (Musée national Magnin).
Poco dopo la sua scomparsa, l’elogio fu scritto da Charles-Jacques-François Lecarpentier (1744-1822), pittore, storico dell’arte e professore dell’École de dessin et de peinturedi Rouen, il quale ricorda Jean anche per il suo umore allegro e per il vezzo di dilettarsi di poesia, non disdegnando di recitare i propri versi in società (cfr. Ch. Lecarpentier, Notice sur M. Houël…cit.).
Jean è inoltre ricordato tra gli uomini illustri della sua città natia (cfr. Th.-É. Lebreton, Biographie rouennaise. Recueil de Notices Biographiques et Bibliographiques sur les Personnages nés à Rouen qui se sont rendus célèbres ou qui se sont distingués à des titres différents, Le Brument, Rouen 1865, 358 pp., in particolare, pp. 190-191).
Il seguito di questo nostro studio, focalizza sul secondo viaggio in Sicilia di Jean Hoüel, con particolare riguardo al suo soggiorno a Termini Imerese (Thermini). Dopo una breve visita a Palermo, visitò il settore più occidentale dell’Isola: Borgetto, Alcamo, Segesta, Trapani, Monte San Giuliano (oggi Erice), Mozia, Marsala con le saline e la grotta della Sibilla, Mazara, Castelvetrano, Selinunte, Sciacca. Dopo di ciò, alla fine di Giugno, ritornò alla volta di Palermo, soffermandosi a Corleone (Coniglione), a Bagheria (Bagaria),  nella località di S. Ciro (Mare dolce) e, via mare, nella tonnara di Vergine Maria, poi alla Zisa, a Cinisi, a S. Martino delle Scale ed a Monreale. A Palermo descrisse i principali monumenti, descrivendo  i cinque giorni del festino di S. Rosalia, da Sabato 13 Luglio a Mercoledì 17 Luglio 1776.
Nel capitolo ottavo, finalmente, viene raccontato il suo soggiorno a Termini Imerese (Thermini). Al suo arrivo nella cittadina, provenendo da Bagheria, Hoüel si presentò da Don Giuseppe Gandolfo (n. c. 1728; m. 17 Dicembre 1789 in casa sua, sepolto nella chiesa e convento dei Reverendi Padri del 3° Ordine di S. Francesco, cfr. Archivio storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, d’ora in poi AME, Defunti, vol. 114 f. 155) con delle lettere di presentazione da parte di due negozianti di Palermo: Grano & Vierne.
Il Gandolfo gli procurò un alloggio a Termini Bassa, nel piccolo convento annesso alla chiesa di S. Anna (per precisione S. Maria di Porto Salvo sotto il titolo di S. Anna), presso i frati del terzo ordine francescano, ormai ridottisi a tre componenti compreso il priore.
Giuseppe Gandolfo fu un personaggio di spicco nel panorama culturale termitano essendo il principale mecenate della locale Accademia Euracea (dal Monte S. Calogero od Euraco, ritenuto l’antica sede dei Pastori Imeresi) che era stata fondata il 12 gennaio 1774, dai sacerdoti Giuseppe Ciprì, Giuseppe Maria Gargotta ed Antonio Comella-Fileti.
L’indomani mattina, in compagnia del Gandolfo, si recò a conoscere vari personaggi locali (gli accademici euracei?), nonché il pittore Francesco Ugdulena (1729-1792), che nel Voyage è chiamato D[on]. Francesco Lugdolena, dal «vero talento».
Visitando il chiostro dei Domenicani gli fu mostrato un frammento di scultura marmorea (ora nel locale museo civico) probabilmente appartenente ad una statua colossale della quale sarebbe rimasto soltanto un piede calzato, con ricca ornamentazione nella scarpa: «niente può avere più nobiltà e più eleganza» essendo «una delle più belle cose che sussiste ancora del lavoro degli antichi: è di marmo bianco, è alta tredici pollici per diciannove di lunghezza»; nella sua interezza avrebbe avuto la lunghezza di ventiquattro pollici, mentre «la figura di cui era la base era quindi di sedici piedi».
Fu poi condotto in un luogo sito fuori Porta Palermo, piantato a vigneto, dal quale si godeva un’ampia veduta della valle del San Leonardo con i suoi giardini e, pertanto, allora detto Belvedere, nell’attuale piano Giancaniglia (odierno cimitero). «Vi si vede questo monumento sepolcrale sprofondato nel terreno fino a due terzi della sua altezza. Non c’è niente all’esterno che fissi gli occhi. Si entra dai fori che il tempo ha fatto nella volta. L’interno è illuminato solo dagli squarci attraverso i quali molti detriti sono caduti e cadono ogni giorno che riempiranno questo luogo e che lo nasconderanno agli sguardi dei curiosi».
Alla base della torre campanaria  della Chiesa Madre poté ammirare un frammento marmoreo di cornice romana di stile corinzio: «Fuori dal muro laterale a destra della Cattedrale di Termini, è stato incastonato un pezzo di trabeazione in marmo antico, che è molto notevole, di ottimo gusto e di ottima fattura». Mentre nel Palazzo Comunale vide la collezione di antichità, alcune delle quali volle riprodurre in un’apposita tavola. E Hoüel scrisse: «diremo solo che questi splendidi resti sono la prova che le arti sono state portate in questa città al massimo grado di perfezione e che possiamo, senza rischiare di essere vittima della sua credulità, ammettere ciò che la storia racconta delle meraviglie e dei prodigi delle Arti coltivate in queste terre felici».
Pionieristicamente, riconobbe l’esistenza di più acquedotti antichi (ai quali accenna en passant), attribuendoli al tardo impero. Specificò che, dopo un lungo percorso, queste opere idrauliche adducevano l’acqua in città: «Nelle campagne, a sud di Termini, troviamo i resti di diversi acquedotti costruiti negli ultimi giorni dell’Impero Romano. Questi acquedotti che hanno portato acqua in questa città, venivano a volte da molto lontano». Egli però relativamente alle opere acquedottisti che puntualizzò soltanto sulle strutture ubicate «vicino alla porta di questa città, che è chiamata porta di Palermo» dove si vedevano «porzioni considerevoli di uno di questi acquedotti, che attraversò una valle molto profonda per raggiungere Termini. Né la sua costruzione, né ciò che ne resta, offrono qualcosa che mi è sembrato degno di essere disegnato. Entrando nel comune di Termini, si vedono in una grande piazza vicino alla piccola Chiesa di San Giovanni, porzioni di mura antiche che si estendono in direzioni differenti: si distinguono le parti degli acquedotti che terminavano in una cisterna di cui riconosciamo ancora il recinto, e pochi accessori che non hanno quasi nessun carattere distintivo; vediamo solo che appartenevano a qualche grande edificio». Concluse però sottolineando il bisogno di indagini archeologiche per chiarire la funzione delle strutture: «Per riconoscere correttamente, sarebbe necessario fare notevoli scavi. Ne ho tratto alcune cose; ma non essendo questi muri degradati e informi né pittoreschi né capaci di far luce sulla storia, non li ho incisi».
La descrizione di Hoüel necessita di alcuni chiarimenti. Egli, infatti, sintetizzando le sue osservazioni in loco, scrisse che uno di questi acquedotti «attraversò una valle molto profonda per raggiungere Termini», cioè l’opera idrica in questione (della quale riferisce non aver fatto disegno alcuno), nel suo tragitto esterno all’abitato, dovette superare un avvallamento torrentizio molto profondo,  che a nostro avviso si identifica con il vallone Figurella, parte alta del torrente Barratina; infatti, possiamo essere certi che Jean qui alluda all’acquedotto ed al ponte di Figurella (che egli infatti non dipinse). Invece, non riteniamo plausibile che Hoüel possa essersi riferito alle strutture acquedottistiche romane poste più a valle, che scavalcavano direttamente il torrente Barratina, come ipotizzato dall’amico archeologo Oscar Belvedere («verosimilmente si tratta dei resti del sifone Barratina», cfr. O. Belvedere, L’acquedotto Cornelio di Termini Imerese, Istituto di Archeologia – Università di Palermo, Studi e Materiali, 7,L’Erma di Bretschneider, Roma 1986, 202 pp., si veda: p. 15, nota n. 14), perché in tal caso lo scrittore francese sarebbe caduto in una palese contraddizione, visto che proprio a queste ultime opere idrauliche, dedicò l’acquarello raffigurante la mole esagonale della famosa torre di compressione in contrada S. Arsenio (sponda destra della Barratina), che originariamente recava l’iscrizione dell’Aqua Cornelia (cfr. O. Belvedere, Jean Houel a Termini Imerese, on-line all’indirizzo https://beniambientalieculturaliimeresi.wordpress.com/2016/10/06/jean-houel-a-termini-imerese-dal-1776-al-1780/).
In merito alle strutture acquedottistiche dell’opera idrica che Jean non ritenne degne di essere disegnate, egli ci informa che erano visibili anche «vicino alla porta di questa città, che è chiamata porta di Palermo» ed ubicate intra moenia: «entrando nel comune di Termini». Le opere murarie più imponenti che allora affioravano al di sopra del piano di calpestio, nel piano di San Giovanni, erano quelle dell’anfiteatro, già parzialmente inglobate in strutture abitative, nonché quelle oggi intercluse nel perimetro della villa Palmeri, che si connotano soprattutto per la grande sala provvista di emiciclo, poi identificate con la cosiddetta Curia, a seguito degli scavi del 1827 ad opera del poligrafo Baldassare Romano (1794-1857) e dell’economista e storico Nicolò Palmeri (1778-1837). A tal proposito, per maggiori approfondimenti rimandiamo il lettore al saggio di B. Romano, antichità termitane, Lao, Palermo 1838, 178 pp. e, nello specifico, pp. 29-31. In assenza degli scavi archeologici, da lui agognati, Jean non poté fare a meno di pensare ad una interdipendenza tra i resti dell’antico acquedotto e le strutture murarie affioranti a breve distanza della chiesa di S. Giovanni (di questa ultima rimane oggi la torre campanaria cuspidata e qualche altro rudere), interpretandole come avanzi di una cisterna.In effetti, uno degli scriventi ha scoperto che nel quartiere S. Giovanni o Barlaci (toponimo di cui resta traccia nell’odonomastica urbana ad indicare uno slargo ubicato nel perimetro dell’antico anfiteatro), esistette un antico lavatoio pubblico, posto in un sito che i documenti del tardo Cinquecento e del primo Seicento collocano in posizione retrostante al convento delle clarisse sotto il titolo di S. Marco, e che dava il nome all’omonimo quartiere ed addirittura allo stesso Piano dei Barlaci (cfr. A. Contino, Aqua Himerae, pp. 178-179). Nei primi decenni del Seicento, il lavatoio era alimentato dalla cuba (torre piezometrica o castelletto) dall’acquedotto comunale di Favara, sita nella Piazza di città (attuale Piazza Duomo). Alla luce di questi dati archivistici recentemente rintracciati e resi noti, è del tutto plausibile che Hoüel poté vedere effettivamente dei resti di una condotta di alimentazione appartenente all’antico lavatoio attestato sin dal XVI secolo che, non è escluso potesse riprendere una più antica linea, magari di epoca romana. Le indicazioni fornite dai documenti sinora reperiti, purtroppo un po’ vaghe e, allo stato attuale delle ricerche, non permettono di ipotizzare un riuso come lavatoio né dei resti della cosiddetta Curia, né tampoco di quelli dell’anfiteatro romano  (opera che comunque dovette essere ben rifornita di acqua potabile).
Anche Ignazio Paternò Castello principe di Biscari (cfr. I. Paternò, Viaggio per tutte le antichità della Sicilia,Simoniana, Napoli MDCCLXXXI, p. 184), non sappiamo se influenzato da Hoüel, scrisse che «Nel piano di S. Giovanni si vedono le rovine di un’Acquedotto [sic], che sembra pertinenza di una gran fabbrica; della quale se ne conoscono le traccie [sic] poco elevate da terra, con diverse divisioni, che mostrano essere stato un’Edificio [sic] di molto conto. Il cammino di questo Acquedotto s’incontra fuori la Città in molti luoghi, e in varj pezzi, fabbricato con magnificenza sopra archi di pietre di mediocre grandezza, e mattoni, che per la distanza di più di un miglio di tanto in tanto si fanno vedere: e ricevevano le acque, che portavano in Città da una abbondante sorgente sopra la montagna. Meritano queste rovine essere ben considerate, per conoscerne l’intero destino; giacché si osservano in alcuni luoghi certi canali, che danno indizio o di alcune singolari particolarità, o che forse in quel luogo eseguivasi la divisione dell’acqua a diversi usi destinata».
Riprendendo il resoconto del soggiorno termitano di Hoüel, egli sottolineò chiaramente l’importanza economica della cittadina con il Caricatore, complesso di magazzini per lo stoccaggio temporaneo di vettovaglie da sottoporre a dazio prima dell’imbarco: «Termini è uno di quei piccoli porti siciliani che in Sicilia chiamano Caricatore, perché vì caricano sulle navi i cereali e gli ortaggi che vi vengono portati dalle campagne limitrofe. La riva essendo adatta per stabilirvi delle tonnare, ne vediamo parecchie: questa pesca e quelle di qualche altro pesce occupano il popolino di questa città, e anche quello dei paesi circostanti».  La produzione di cordami ricavati dal Chamærops humilis Linné, un palmizio nano detto in siciliano giummarra, venne altresì ricordata: «Le reti delle tonnare sono costituite da una specie di corda ricavata da una pianta chiamata jounmare [giummarra] in Sicilia (…) in Francese Palmieren éventail. In Sicilia cresce come un cespuglio sulle rocce; e nei terreni, essendo coltivata, sorge come una palma con un fusto: se ne vede a Parigi nel Giardino del Re». Gli uomini si occupavano dell’accurata selezione e pulizia della pianta. Le donne, invece, dei cordami che ottenevano prendendo «due fili, li attorcigliano tra le dita, poi ne aggiungono un terzo, impegnato a metà lunghezza: li arrotolano con singolare grazia e destrezza. Formano così funi lunghe da dieci a dodici braccia, che a volte lasciano trascinare per strada dietro di loro. Quindi le raccolgono in piccoli fasci (…) a volte uniscono insieme due o tre di queste corde, e formano corde più o meno spesse che vengono utilizzate per vari scopi, in particolare per la pesca. Andando nel giardino di Dom [Abate] Stanislao Ceose [Sceusa, attuale edificio del Collegio di Maria], vicino a Santa Lucia, si vedono molte donne impegnate in questo tipo di lavoro (…). Le donne di questa classe si vestono diversamente dagli altri siciliani. Si avvolgono la testa, le braccia ed il corpo in un pezzo di stoffa bianco o nero, di forma quadrata, che scende fino all’altezza del ginocchio (…). Ho anche visto in questo giardino dei resti che mi sono sembrati abbastanza curiosi (…) ». Si trattava di una colonna scanalata e relativo capitello, due lastre di pietra con motivi vegetali, uno con tralci e grappoli d’uva, portati alla luce durante gli scavi di fondazione dell casa grande degli Sceusa.
Successivamente Jean rilevò nel dettaglio la planimetria e descrisse accuratamente l’edificio termale: «Ho inserito (…) anche la pianta delle Terme di Termini, come furono ricostruite, così si dice, da S. Calogero sulle rovine di quelle che avevano costruito i Romani. La forma di questo piano (…) è rotonda, e consiste di due gallerie (…). Formavano ciascuna un quarto di cerchio: si è lasciato tra loro lo spazio che forma la piccola stanza (…). Il suo pavimento composto da lastre di pietra è perforato da dodici fori da tre a quattro pollici di diametro. Al di sotto di questo piano è stata scavata una sorta di volta in cui l’acqua calda arriva dopo aver attraversato la piccola grotta (…), dove viene ricevuta emergendo immediatamente dalla roccia. Questa grotta (…), essendo lunga ventiquattro piedi e larga dodici, ha un’area di duecentottantotto piedi: e la stanza (…) avendo solo quindici piedi per sei, non presenta che novanta piedi di superficie, e di conseguenza riceve in questo spazio la più grande quantità di vapori che possa contenere. La massa d’acqua è racchiusa nel caveau e nella grotta, contribuisce io credo ancora, per la sua profondità, ad aumentare l’intensità del calore. Questo caldo è tale da non poter essere sopportato: non potevo scrivervi, il foglio vi diveniva umido in un attimo, e presto era talmente penetrato dall’umidità, che non poteva ricevere né le linee della matita, né quelle della scrittura. Le porte  di questa piccola stanza sono molto strette, in modo che perdano meno calore quando vengono aperte, cosa che avviene sempre in modo molto brusco. In questo luogo vengono portati solo i malati che necessitano di una sudorazione molto abbondante per essere curati. Sarebbe curioso sapere se i Romani hanno costruito questa stanza, e se ne facevano lo stesso uso; Bisognerebbe per assicurarsene demolire parte delle mura moderne, e scavare finché non si ritrovano le antiche fondamenta: ed è quello che non si è tentato di fare. Le gallerie laterali (…), sono indubbiamente antiche; ricevono l’acqua calda attraverso i canali (…), che la conducono a rubinetti posti nelle nicchie (…), che la versano nel grande bagno (…), e che riempiono la parte più bassa contenuta tra il muro (…) e i gradini (…), da dove scendono i malati che vogliono bagnarsi. L’acqua è calda; la si fa salire all’altezza che si vuole, si rinnova costantemente, e scorre attraverso un acquedotto sotterraneo che la conduce al mare. Credo che al tempo degli Antichi questi due bagni si estendessero fino all’ingresso (…), e che il centro (…) fosse un vasto bacino di acqua fredda per bagni diversi. Una fontana (…) di acqua fredda, la quale non è piazzata lì che all’occasione di questi antichi bagni, mi ha fatto fare questa congettura». Pertanto auspicò la possibilità di realizzare «dei saggi senza distruggere nulla», che avrebbero permesso di fare «delle scoperte istruttive su come gli antichi costruirono questo edificio». Successivamente, descrisse le strutture portanti interne dell’edificio, ritenendole erroneamente di epoca romana, tratto in inganno dalla tecnica costruttiva, ispirata all’arte antica, mentre sono opere seicentesche attribuibili ad un progetto organico voluto dall’architetto civico, il palermitano Antonino Spatafora (cfr. A. Contino e S. Mantia, Architetti e pittori a Termini Imerese tra il XVI ed il XVII secolo, GASM, Termini Imerese 2001 p. 19): «La volta di questa galleria circolare lascia vedere la sua antica costruzione. Gli archi della volta sono costruiti con mattoni molto grandi, molto spessi e molto belli, nel modo in cui furono fatti nei bei tempi dei Romani. Gli intervalli di questi archi erano di pietra da costruzione. I passaggi delle pareti laterali che portano questi archi sono tutti costruiti in mattoni: questi passaggi erano collegati tra loro da altri archi anch’essi formati di mattoni, i cui intervalli erano di pietra da costruzione (…)».
I pazienti potevano poi usufruire della terapia delle docce di acqua termale, così descritte: «Il paziente viene posto sotto la caduta perpendicolare dell’acqua: quest’acqua scola da una vasca fissata ad una certa altezza; un uomo, usando una scala, la riempie d’acqua, che ha preso da un rubinetto in fondo alla galleria (…). Anche la caduta dell’acqua, il suo calore e le parti saline di cui sono piene le acque termali contribuiscono ugualmente al loro effetto. È necessario continuarne l’uso per un tempo piuttosto lungo; spesso è necessario andare più volte al bagno per ottenere delle guarigioni che i primi tentativi non avevano fatto che preparare». Una pecca notevole era la mancanza di ambienti appositamente destinati per svestirsi e rivestirsi: «La porzione di muro che si vede a destra (…) è moderna.  Fa un piccolo rifugio per i bagnanti che vogliono spogliarsi e vestirsi senza essere esposti alla vista dei passanti. Perché non c’è anticamera; e anche questi bagni non ricevono la luce che attraverso la porta della strada». Hoüel, nella sua operasi compiacque difornire al lettore una descrizione delle principali proprietà fisico-chimiche e medicamentose delle acque termali: «(…) questi bagni hanno la proprietà di guarire le paralisi, la gotta, i reumatismi, e generalmente le malattie che interessano le gambe (…). L’acqua in questi bagni è così calda che se immergiamo in essa il barometro di Réaumur, sale a trentasette gradi [46,25 °C]».
Hoüel, nel suo racconto sottolineò la gestione comunale delle terme e la fruizione totalmente libera: «Questi bagni sono mantenuti a spese della città. Vi si bagna gratuitamente». Nemmeno gli inservienti venivano pagati dai bagnanti per le incombenze ordinarie, mentre specifica che era consuetudine dare «loro del denaro per i servizi speciali che ricevono». Il servizio sanitario delle terme era affidato a medici locali: «Ci sono anche Medici della città che seguono i malati, che devono eseguire le prescrizioni del Medico straniero che li ha inviati a fare questi bagni, e che li dirigono a seconda dell’effetto più o meno efficace che i bagni hanno su di loro». Concludette il resoconto sulle terme riportando le osservazioni chimico-fisiche eseguite dal medico termitano Luciano Romano Occorso (n. 1720): «L’acqua di questa sorgente è cristallina, un po’ più pesante dell’acqua di fonte e lascia un leggero sapore salato sulla lingua. Due libbre e mezzo depositano evaporandosi un’oncia e mezza di un sedimento salato con un gusto molto pungente. Sono presenti anche parti solforose e parti nitrose. Il sale supera il nitro, che sembra abbondarvi più che lo zolfo, che vi è solo in quantità molto piccole. D[on]. Luciano [Romano], il primo medico della città, mi ha dato questi risultati».
Il Voyage poi riprendeva il tema del legame tra il culto di S. Calogero e le acque termali: «Si dice che queste terme furono riparate dalle cure di S. Calogero; e ci sono due montagne in Sicilia che portano questo nome. Queste due montagne hanno acque termali (…)». Trattasi dei due monti detti S. Calogero, rispettivamente, di Termini Imerese (antico Euraco) e di Sciacca (antico Cronio). «Il nome di Calogero è una parola greca, che significa un buon o un santo vegliardo. Lo si dava nella Chiesa greca a tutti i monaci: li si chiamava i Calogeri».
Ci piace riportare, qui di seguito, perché a nostro avviso ancora molto attuale, quanto ebbe a scrivere Hoüel a proposito della propensione dei termitani di quel tempo, soprattutto a livello popolare, nel volere fare fortuna attraverso la febbrile ricerca di tesori (‘a truvatura), oppure sperperando denari invano per una chimerica vincita alla lotteria: «Vi si cerca, come in molti altri posti, di aumentare la propria fortuna, e questo non è ciò che mi ha sorpreso: ma sono rimasto sbalordito nel vedere che ci si è applicato seriamente all’arte di trovare tesori, e l’arte non meno chimerica di indovinare i numeri dei biglietti che dovrebbero vincere la lotteria. Da straniero, da viaggiatore, come Francese può essere, sono passato ai loro occhi più valentuomo che alcuno dei loro concittadini; mi hanno persino preso per un grande indovino; mi hanno assalito con le domande più incredibili e mi hanno fatto le proposte più strane sui tesori nascosti e sui numeri della prossima estrazione. (…) Tale è l’ignoranza e la credulità della gente comune di questo paese, e anche di poche altre persone. Un giorno dissero a uno dei Frati del Convento in cui vivo, che era fortunato di poter ottenere da me degli ottimi numeri: capì che effettivamente era circondato dai mezzi di far fortuna. Pochi giorni prima di quello previsto per la mia partenza, mi prese da parte e mi chiese come ricompensa per i buoni servizi che mi aveva reso in questo paese, di dargli tre numeri della lotteria per la successiva estrazione. Sono stato imbarazzato per alcuni istanti; rifiutarlo, negare il mio favore, non era disilluderlo, era angosciarlo, offenderlo, farmi sembrare ingrato, ed anche umiliarlo; ho preso una decisione, mi sono concentrato, e con l’aria più grave che ho potuto mostrare, gli ho scritto i primi tre numeri che mi sono venuti in mente; come fare? E gli ho augurato buona fortuna. Li ricevette con la gioia più sincera e la più viva convinzione che la sua fortuna fosse fatta».
Nel Voyage, i toni del racconto di Jean divennero francamente lirici alla vista del paesaggio termitano con le sue «belle campagne» e con i monti dominati dall’imponente mole calcareo-dolomitica del S. Calogero:«Sono molto coltivate: la varietà di colori che ne deriva, produce l’effetto di un ricco ricamo. L’irregolarità del terreno che presenta dalla riva ai monti i diversi gradi di elevazione, queste montagne stesse che s’innalzano ad anfiteatro le une sulle altre, e che sono tutte dominate da quella di S. Calogero, presentano mille tavolati deliziosi, la cui riunione ne forma uno così raro e perfetto che può essere paragonato solo a se stesso. Il Monte S. Calogero è anche chiamato il Monte di Termini; è, dopo l’Etna, una delle montagne più alte della Sicilia [dopo l’Etna (3340 m) sono le Madonie i monti più alti dell’Isola con il Pizzo Carbonara (1979 m), cui seguono il Pizzo Antenna Grande (1977 m), il Monte San Salvatore (1912 m), il Monte Mufara (1865 m) ed il Monte dei Cervi (1794 m), mentre il Monte S. Calogero (1326 m) è il rilievo più alto dei Monti di Termini Imerese-Trabia]: alla sua sommità, che spesso si perde tra le nuvole, si trova un eremo occupato da uomini che si dicono successori di S. Calogero, che si crede esser morto in questo luogo: questi buoni eremiti godono in anticipo il piacere della beatitudine celeste, dalla dolcezza della loro società e dalla santa religione che professano. (…) Ogni volta che tornano dalla questua, arrivati con delle grandi fatiche, essi si credono in questo luogo di pace e tranquillità, lontano dagli uomini che sono relegati ad una distanza profonda sotto di loro, nella dimora dell’agitazione e del tumulto dove regnano l’inquietudine, gli intrighi, le fatiche, i bisogni, le sofferenze e le vicissitudini di ogni genere. Qui questi predestinati, nella regione celeste che loro abitano, sono liberati dai terrori che sgomentano gli uomini. Godono della contemplazione di un cielo sempre puro, di un sole senza nuvole, immagine per il suo splendore del Dio che adorano: se sorge dall’orizzonte, spesso vedono solo lui, ed egli sembra non apparire al mondo che per loro: è a metà del suo corso, è per infiammarli dell’amore divino: ritorna all’orizzonte, le nuvole dietro cui si nasconde, prendendo mille forme diverse, lasciano degli intervalli dove egli riappare; e subito dopo, attraverso la loro trasparenza dorata, non vedendo più che gli ultimi raggi, questi pii mortali possono quindi contemplare lo splendore di questa suprema torcia della natura, e adorare in lui il Dio nel seno di cui essi fanno voto di vivere per sempre».
Hoüel concludette il suo racconto sulla città di Termini descrivendo le tecniche messe in atto dai nostri sagaci pescatori per catturare le prede marine, nello specifico sarde, acciughe, muletti etc.: «Nel mio soggiorno a Termini, e durante le mie passeggiate in riva al mare, ho conversato più volte con i pescatori, e spesso ho ammirato con quale industria l’uomo ha studiato le abitudini di altre specie, e ha approfittato dei loro appetiti e delle loro abitudini per ucciderli, e per soddisfare i suoi bisogni e i suoi capricci.
Pesca delle Sardine e delle Acciughe. Per catturare questi pesci, i pescatori gettano in mare una rete larga otto o dieci piedi e della massima lunghezza possibile. Un lato di questa rete è guarnito di [galleggianti di] sughero per tutta la sua estensione: l’altro lato è guarnito di piombo. Così cadendo nell’acqua si solleva verticalmente e si drizza come un muro. Lo si tende in luoghi dove il mare non è molto profondo e dove devono passare acciughe e sarde. Questi pesci incontrano questa rete e, sforzandosi di scivolare attraverso le maglie, vi si impigliano e vi rimangono intrappolati.
Pesca del Muletto. Questo pesce è di un carattere molto vivace; ha muscoli molto forti; salta e scatta fuori dall’acqua ad un’elevazione abbastanza grande. I pescatori sanno distinguere i luoghi in cui vive. Vi formano un vasto recinto di reti poste verticalmente. Attorno a questo recinto viene posta alla superficie dell’acqua un’altra rete posata orizzontalmente, e attaccata a delle canne, separate le une dalle altre alla distanza da otto a dieci pollici. Esse sostengono questa rete e sono come i raggi di questo grande circolo. I pescatori lo percorrono esternamente battendo sulla loro barca. Il pesce, che questo rumore inquieta, cerca di fuggire da questo recinto: non trovando punto d’uscita sott’acqua, si slancia, e saltando al di sopra della rete verticale, cade sulla rete orizzontale, si dibatte, si ferisce scontrandosi contro le canne, respira troppo dell’aria, manca d’acqua, perde le sue forze e si lascia prendere in mano dai pescatori.
Altra Pesca. I pescatori hanno notato che c’era un tipo di pesce che amava l’ombra; hanno immaginato di procurargliene: essi coprono il luogo dove suppongono che questa specie si trova bene, con delle canne leggere, ricoperte di erbe, che formano per questi pesci una piacevole ombra: presto essi vi vengono in folla: allora i pescatori circondano questo posto con delle reti che tirano con corde sott’acqua e che avvicinano poco a poco: il pesce si raccoglie verso il centro; vi si accumula; lo si prende facilmente».
Ecco come Jean descrisse il suo commiato da Termini: «Il momento della mia partenza essendo arrivato, ho preso congedo da tutti i miei conoscenti; ho detto addio al padre Guardiano; gli ho pagato le spese della mia tavola e l’affitto della mia stanza, all’incirca come  avrei fatto in una pensione; ma con i riguardi che sono dovuti a un uomo che non fa affatto mestiere di alloggiare i viandanti, e che si è ben felici d’incontrare in un luogo dove la rarità dei viaggiatori non permette di mantenere una locanda».
Jean proseguì il suo resoconto con la descrizione del viaggio da Termini alle rovine dell’antica colonia greca di Imera, iniziato quando già si era fatto buio: «uscendo da Termini per recarmi al porto dove dovevo imbarcarmi, ho trovato le guardie distese a terra a fianco della porta [della Marina/Dogana?] della città, al fine di custodirla (…), senza stancarsi di veglie e ronde, che il più delle volte sono inutili. Non ho avuto difficoltà; Mi è stato permesso di passare senza dirmi nulla: sebbene nella maggior parte delle città della Sicilia, con il pretesto di controllare i miei bauli, mi avessero fatto sopportare mille molestie, il cui unico scopo era quello di estorcermi dei soldi».
I toni del Voyage, a questo punto del viaggio notturno da Termini, via mare, sino al lido imerese, divennero nuovamente lirici: «Sono arrivato in riva al mare con le mie armi. Ero solo senza domestico: sei marinai che mi aveva procurato Giuseppe Gandolfo avevano portato davanti a me il mio piccolo bagaglio, e l’avevano posto in una piccola barca che giaceva a secco sulla riva». Dopo essere salito sulla barca ed essersi accomodato, «i marinai hanno lanciato la barca in acqua, sono saltati a bordo, hanno afferrato i remi, hanno attaccato il timone, hanno schiumato il mare sotto il gioco dei remi, e presto Termini scomparve dai nostri occhi e si perse nei vapori della notte e dell’orizzonte. Il sole era tramontato da più di cinque ore. Eravamo illuminati solo dalla luce delle stelle e dal bagliore biancheggiante della Via Lattea. La serenità del cielo, la quiete dell’aria, il dolce ondeggiare delle onde hanno dato a questa navigazione un fascino inesprimibile. Dopo aver contemplato per un po’ le bellezze uniformi di questo quadro un po’ troppo monotono, ho ceduto alla dolcezza del sonno, sebbene non fossi troppo a mio agio in questa piccola barca, e che i sussulti provocati ad ogni colpo di remo, senza sosta avessero causato degli ostacoli al mio riposo. Ma a malapena ho ceduto al suo potere quando siamo giunti sulla riva».
Finalmente approdarono sulla vasta spiaggia di Battilamano, sormontata dalla torre omonima che un tempo proteggeva il baglio dell’antica tonnara, per poi spostarsi alla volta della masseria di Buonfornello: «Scendemmo ai piedi della torre di Vatelment [sic, Battilamano o Vattilamano], presso la fortezza di Buon-Fornello, a otto miglia da Termini. Il capo dei marinai mi ha accompagnato. Stavamo cercando qualcuno che potesse guidarmi verso l’oggetto che mi ha attratto su questa costa. Trovammo contadini che, sdraiati a terra, custodivano il loro grano nello stesso modo in cui i soldati di Termini sorvegliavano le porte della loro città. Il Sopra Stante, il Superiore, il capo degli operai si svegliò, si vestì e ci guidò attraverso le rovine dell’antica città di Himera (…) su una collina a un miglio di distanza».
Giunti a Buonfornello, gli mostraronola massiccia mole della torre e l’attigua masseria (entrambe non più esistenti), alla cui base riconobbe il basamento a grandi blocchi calcarei ben squadrati di un antico edificio non ben identificato: «Abbiamo visto per la prima volta a mezzacosta, a ponente della frazione detta Buon-Fornello, i resti del basamento di un castello che sembra essere opera degli antichi, a giudicare dalla grandezza delle pietre che lo compongono».
Prima di proseguire con il racconto del Voyage, è doveroso tratteggiare, sia pure a grandi linee, la storia della scoperta, degli scavi e delle ricerche sul cosiddetto tempio della Vittoria ad Imera. Soltanto nel 1822, il già citato Baldassare Romano, allora ventottenne, per primo studiò ed identificò queste antiche strutture come appartenenti ad un tempio greco. La scoperta fu però resa nota l’anno successivo da Nicolò Palmeri (cfr. N. P. [Nicolò Palmeri], Cenni sull’Agricoltura d’alcune campagne di Sicilia e sulle Rovine d’Imera, Reale Stamperia, Palermo 1823, 54 pp., in particolare, p. 8) che correttamente diede la paternità al Romano, “giovane assai caro alle lettere”. E’ curioso che la stragrande maggioranza degli studiosi abbia attribuito il rinvenimento al Palmeri. La paternità è confermata anche in una lettera (Costantinopoli, 13 febbraio 1878) del P. Giuseppe Romano, fratello di Baldassare, al nipote ex sorore Peppino Russitano (cfr. V. Di Giovanni, Il P. Giuseppe Romano e l’ontologismo in Sicilia sulla metà del secolo XIX. Discorso letto alla R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo nella tornata del 19 Gennajo 1879, Giornale di Sicilia, Palermo 1879, 74 pp., [lettera] VIII,  pp. 61-62).
Nel 1861, il palermitano prof. Giuseppe Meli (1807-1893), pittore, frescante e critico d’arte, si attribuì la paternità della scoperta del tempio periptero esastilo, segnalandola al Regio Commissario delle Antichità e delle Belle Arti in Sicilia (cfr. relazione del 20 Maggio, citata da A. Salinas, Le grondaie del tempio di Imera conservate nel Museo Nazionale di Palermo, “Archivio Storico Siciliano”, Società Siciliana di Storia Patria, n. s., anno I, fasc. I., Virzì, Palermo 1876, pp. 188-197, vedasi a p. 193; G. Patiri, Il Tempio d’Imera. Sua origine – sua importanza nella storia, nell’arte, nell’archeologia, Amore, Termini Imerese 1905, 24 pp.; L. Mauceri, Cenni sulla topografia di Imera e sugli avanzi del tempio di Buonfornello, in “Monumenti dei Lincei”, XVIII, 1907, 2, Milano 1908, coll. 285-436, si vedano coll. 421-425; R. Koldewey, O. Puchstein, Die griechischen Tempel in Unteritalien und Sicilien,Asher, Berlin 1899, Der Tempel von Himera auf Sicilien,pp. 51-52).
Nel XX secolo, dopo sessantanni di lungaggini burocratiche, solo alla fine degli anni 20’ e agli esordi degli anni ‘30, le strutture templari furono totalmente riportate alla luce, distruggendo ben 8 edifici e, purtroppo, sacrificando sciaguratamente anche la torre medievale, alta quasi venti metri (cfr. P. Marconi, Himera. Lo scavo del tempio della Vittoria e del Temenos. Con disegni del prof. R. Carta, Collezione meridionale diretta da U. Zanotti Bianco, Serie III: il Mezzogiorno artistico, Società Magna Grecia, Roma MCMXXXI, 170 pp.; N. Bonacasa, Ipotesi sulle sculture del tempio della Vittoria ad Himera, in: M. L. Gualandi, L. Massei,  S. Settis, a cura di, Aπαρχαι. Nuove ricerche e studi sulla Magna Grecia e la Sicilia antica in onore di Paolo Enrico Arias, I-II, Pisa 1982, pp. 291-304; J. De Waele, La progettazione dei templi dorici di Himera, Segesta e Siracusa, in Secondo Quaderno Imerese, Studi e materiali dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Palermo,3, L’Erma di Bretschneider, Roma 1982, pp. 1-45; Allegro N., La chiusura degli intercolumni nel Tempio della Vittoria, in R. Gigli, a cura di, Meγaλai nησoi. Studi dedicati a Giovanni Rizza per il suo ottantesimo compleanno, Collana Studi e Materiali di Archeologia Mediterranea, 2/3, IBAM – Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali – CNR, CNR – Consiglio Nazionale Ricerche, Catania 2005, pp. 167-176; V. Consoli, Il cosiddetto Tempio della Vittoria a Himera. Per un’alternativa storico-religiosa, in “Workshop di archeologia classica. Paesaggi, costruzioni, reperti”, V, Serra, Pisa-Roma 2008, pp. 43-75; N. Marsiglia, La ricostruzione del Tempio della Vittoria di Himera, in N. Marsiglia, La ricostruzione congetturale dell’architettura. Storia, metodi, esperienze applicative, Grafill, Palermo 2013, pp. 46-56).
Riprendendo il resoconto del Voyage, segue la descrizione del pianoro dove un tempo sorgeva l’acropoli della colonia greca, cosparso di frammenti fittili con qualche traccia di muri perimetrali: «Da lì siamo andati sulla parte pianeggiante di questa collina; è ampia; questo posto è chiamato le pietre di Himera. A sinistra di una gola che divide questa pianura si incontra una prodigiosa quantità di frantumi, canali di terracotta, tegole, mattoni, frammenti di tombe, vasi, ecc. Poco più in basso, volgendo verso est, vediamo le fondamenta di alcuni muri che presentano angoli in direzioni diverse. Queste pareti sono di una costruzione speciale, portano il carattere della più remota antichità. Questi resti non furono rimossi, come tanti altri, per costruire muri nelle frazioni vicine: probabilmente furono preservati dagli alberi che li ricoprivano con le loro radici, e li nascondevano alla vista. Questo è tutto ciò che resta di questa superba Himera che aveva tanto splendore. L’aspetto di questo luogo è molto gradevole: un vasto prato si estende sul lato nord, e sembra finire nel mare che delimita l’orizzonte:a mezzogiorno, a levante ed a ponente, delle masse di rocce e le montagne, molto varie nelle loro forme e nelle loro distanze, offrono costantemente bellezze pittoresche: il gioco dei raggi del sole ed i riflessi della luce che cade su queste vette variandone gli aspetti ad ogni ora del giorno. Lì vicino un piccolo fiume di un’acqua limpida che scorre ai piedi di una collina, completa d’abbellire questo quadro».
Ritornato a Buonfornello, prima di allontanarsi dal territorio di Termini, in direzione di Cefalù,  Jeanb Hoüel avrebbe voluto offrire un compenso in denaro alla persona che l’aveva accompagnato nei luoghi visitati, ma la guida rifiutò categoricamente. Egli rimase sbalordito per tanta generosità, giammai incontrata nell’Isola, tanto che scrisse «questo esempio di disinteresse e di onestà è raro in Sicilia».
A nostro avviso, l’itinerario termitano tardo-settecentesco di Hoüel, che qui abbiamo voluto ripercorrere virtualmente, attraverso il testo del Voyage, vero e proprio documentario di viaggio, può essere riproposto – nelle sue linee essenziali – anche al turista odierno. In tal modo, da iter del passato, più o meno idealizzato, si trasformerebbe in qualcosa di tangibile, capace di far rivivere nella cittadina imerese il fascino avventuroso dell’epopea del Grand Tour, unendo i fili tra passato e presente, in modo da contribuire fattivamente alla riscopertaed alla rivalutazione della nostra città e del suo territorio, nonostante le crescenti modificazioni antropiche inferte negli ultimi secoli al nostro patrimonio paesaggistico. Pertanto, proponiamo ed auspichiamo vivamente, la realizzazione di un apposito percorso didattico-turistico, corredato da appositi pannelli esplicativi e da targhe commemorative, pensato e realizzato per ricordare le principali tappe della visita e del soggiorno a Termini Imerese del viaggiatore, pittore e naturalista Jean Hoüel.
Nell’appendice documentaria riportiamo integralmente il testo francese originale (avendo cura di sciogliere le abbreviazioni, mantenendo intatte la sintassi e l’ortografia autentiche, compresi gli eventuali errori), tratto dalla versione digitale del Voyage disponibile on-line (cfr. https://archive.org/details/gri_33125009359197).
Patrizia Bova e Antonio Contino


Appendice documentaria
Voyage pittoresque des isles [sic, îles] de Sicile, de Malta et de Lipari Où l’on traite des Antiquités qui s’y trouvent encore; des principaux Phénomènes que la Nature y offre; du Costume des Habitans, & de quelques Usages. Par Jean Houel, Peintre du Roi. Paris, De l’Imprimerie de Monsieur. M. DCC. LXXXII. vol. I, pp. 82-91.

[p. 82] Thermini.
J’arrivai à Thermini [sic, Termini], ville maritime située à douze milles de la Bagaria. Je me présentai chez D[on]. Joseph Gandolfe, avec des lettres de recommandation de MM. [=Messieurs] Grano & Vierne, négocians [sic, négociants] de Palerme. Il m’accueillit avec empressement. Ils me procura un bel appartement à Sainte Anne, Couvent de Cordeliers peuplé seulement de trois religieux; le Père Prieur & deux Frères. Je leur fus bien recommandé, & j’en fus bien traité. Le lendemain matin M [onsieur]. Gandolfe vint me prendre, & me conduisît chez différentes personnes; entre autres chez D. Francesco Lugdolena [Ugdulena], amateur & peintre. Ce qu’il m’a montré de ses ouvrages, prouve qu’il avoitun véritable talent.
[p. 83] En visitant le cloître des Dominicains, nous vîmes le très-beau relie d’un pied de figure antiquevoyez Planche XLIII, fig. 2. Rien ne peut avoir plus de noblesse & plus d’élégance: il est de marbre blanc, il a treize pouces de haut sur dix-neuf de long; s’il n’eût pas été mutilé, dans cet état entier il a dû avoir vingt-quatre pouces de long; la figure dont il étoit la base avoit donc seize pieds. Je l’ai dessiné sous deux aspects, pour faire connoître une des plus belles choses qui substite [sic, subsiste] encore du travail des anciens. Ce précieux fragment donne la plus grande idée de la Statue colossale dont il faisoitpartie. II est revêtu d’une chaussure brodée qui se laçoit sur le cou de-pied; & qui, telle que les brodequins, en l’ornant n’en cachoit pas la forme. L’ensemble de ce pied, le choix exquis de ses ornemens [sic, ornements] & la grâce de leur exécution, sont é prouver encore de nouveaux regrets à ceux qui sont capables de sentir de quel modèle les arts ont été privés en perdant la superbe Statue qui s’élevoit sur ce pied.

PLANCHE QUARANTE-QUATRIEME.
Monument sépulcral avec son plan & sa coupe.
II mè
[sic, me] conduisit ensuite dans un lieu planté de vigne, qu’on appelle Belvedere [Piano Giancaniglia]. II est situé hors de la ville, près de la porte, sur la route de Palerme. On y voit ce monument sépulcrale enfoncé en terre jusqu’aux deux tiers de sa hauteur. Il ne présente à l’extérieur rien qui fixe les yeux. On y entre par des trous que le temps a faits à la voûte. L’intérieur n’est éclairé que par les ruptures par lesquelles sont tombés & tombent journellement beaucoup de débris qui rempliront ce lieu, & qui le soustrairont aux regards du curieux.
Cet édifice est bâti en moilons
[sic, moellons], tels qu’ils sont dans ce pays, & de grandes briques à la Romaine. Je le crois du dernier temps de cet Empire.
Dans l’intérieur, tout autour de ce monument sepulcral
[sic, sépulcral], fig. I, on voit les restes de tombeaux qu’on y avoit pratiqués. On n’en peut guère distinguer la forme que dans les parties qui sont aux angles AA; & dans une espèce de petit cabinet voûté B, suité [sic, suitée] à l’occident, & destiné aussi aux sépultures des morts. L’escalier par où l’on arrivoit étoit construit dans l’angle oriental. Voyez C au plan, fig. 3, & à la coupe, fig. 2.
Les places où l’on mettoit les morts étoient des cavités carrées, marquées D au plan & à la coupe.
Elles se fermoient  avec des tuiles, ou avec des tables de marbre ou de pierre.
Ce monument sépulcral est le seul où j’aie vu des sépultures de cette espèce. II n’y avoit d’espace dans chaque cavité que ce qu’il en falloit pour loger un mort très-étroitement. Voyez E. La nouveauté de ce genre de sépulture m’a paru si curieux quelle m’a engagé à la mettre sous les yeux de mes lecteurs.

PLANCHE QUARANTE-CINQUIEME.
Entablement en marbre d’ordre Corinthien. Statue d’un Consul Romain.
Colonnes & Inscription en marbre, &c.
Je prie le lecteur d’observer que les débris représentés dans cette planche sont d’un genre tel que nous n’en avons point encore offert de pareils à leur curiosité. Les débris des édifices antiques de la Sicile sont en pierre, ceux-ci sont en marbre; la beauté de la matière, celle de la composition, & sur-tout celle de leur exécution, ne permettent pas de les passer sous silence. Ces restes précieux justifient ce que disent les historiens de la magnificence des monumens
[sic, monuments] de ce pays, qui sont en petit nombre de cette beauté.
A l’extérieur du mur latéral à droite de la Cathédrale de Thermini, on a incrusté un morceau d’un
[p. 84] antique entablement de marbre, qui est très-considerable, d un tres-bon goût, & d’une tres-belle exécution. Voyez A, fig. i.
On y voit aussi un tambour de colonnes en marbre B, qui vraisemblablement appartenoit jadis à cet entablement A.
Sur ce tambour, pour grouper ces objets, j’ai placé un reste de Statue C, qui est en dehors du Palais Sénatorial de cette ville. C’est celle d’un Consul Romain. II y a au dessous de cette figure une espèce de piédestal avec une inscription D que j’ai gravée telle qu’elle est.
J’ai mis aussi dans la même planche une Tête de femme que j’ai vue dans le vestibule de ce même Palais. Elle est de fort bon goût, d’une belle exécution, & d’un caractère très-agréable E.
Dans la maison d’un particulier qui demeure en face du Palais Sénatorial, j’ai vu le foible
[sic, faible] reste d’une Statue d’Agathocle, avec une inscription placée au dessus F, &. avec la petite colonne de granite G.
De tous ces morceaux épars j’ai formé le groupe représenté dans cette planche. J’y ai mis aussi le vase H, que me fit voir un particulier de cette ville.
Que tels ou tels de ces fragmens
[sic, fragments] viennent d’Himère, ville détruite, dont les débris sont a douze milles à l’orient de Thermini, ou que les monumens [sic, monuments] dont ils sont les restes aient été construits à Thermini même dans des temps où cette ville devenue magnifique du temps de la splendeur des Romains, ce sont des questions qui peuvent occuper le loisir des savans [sic, savants], & sur lesquels nous nous garderons bien d’avoir aucun avis: nous dirons seulement que ces beaux restes sont la preuve que les arts ont été portes dans cette ville au plus haut degré de perfection, & qu’on peut, sans risquer d’être la dupe de sa crédulité, admettre ce que l’histoire raconte des merveilles & des prodiges des Arts cultivés dans ces heureuses contrées.
Dans la campagne, au midi de Thermini, on trouve les restes de plusieurs aqueducs construits dans les derniers temps de l’empire des Romains. Ces aqueducs qui amenoient de l’eau dans cette ville, venoientquelquefois de très-loin; près de la porte de cette ville, qu’on appelle la porte de Palerme, on voit des portions considérables d’un de ces aqueducs, qui traversoit une vallée très-profonde pour se rendre à Thermini. Ni sa construction, ni ce qui en reste, n’offrent rien qui m’ait paru mériter la peine d’être dessiné.
En entrant dans la ville de Thermini, on voit dans une vaste place près de la petite Église de S. Jean, des portions de murs antiques qui s’étendent en différens
[sic, différents] sens: on y distingue les parties des aqueducs qui aboutissoientà un réservoir dont on reconnoîtencore l’enceinte, & quelques accessoires qui n ont guère de caractère distinctif; on voit seulement qu’ils ont appartenu à quelque grand édifice. Pour le bien reconnoître [sic, reconnaître], il faudroitfaire des fouilles considérables. J’en ai dessiné quelques choses; mais ces murs dégradés & sans forme n’étant ni pittoresques, ni propres à éclaircir l’histoire, je ne les ai point gravés.
Thermini est un de ces petits ports qu’on appelle en Sicile
Caricatore, parce qu’on y charge dans des bâtimens les grains & les légumes qu’on y apporte des campagnes voisines. Le rivage étant propre pour y établir des tonnarres [sic, tonnerres], on y en voit plusieurs: cette pêche, & celles de quelques autres poissonsoccupent le bas peuple de cette ville, & même celui des pays circonvoisins.

PLANCHE QUARANTE-SIXIEME.
Femmes qui font des cordes pour les Tonnarres [sic, Tonnerres]. Monnoie [sic, Monnaie] d’Himera. Plan des Bains chauds de Thermini. Fragmens [sic, Fragments] antiques.
Les filets des Tonnarres [sic, Tonnerres] sont composés d’une espèce de cordes qu’on fabrique avec une plante qu on appelle en Sicile jounmare[giummarra], nommée parles Botanistes Chamærops humilis L[inné]. Sp. PI. en françois Palmier en éventail. En Sicile elle croît en buisson sur les rochers; & dans les terres, étant cultivée, elle s’élève comme le palmier avec une tige: on en voit à Paris au jardin du Roi. On la choisit, on la nettoie, on [p. 85] en fait des petites hottes grosses comme les deux poings. Cette préparation est le travail des hommes.
Les femmes entortillent ces petites hottes dans leurs tabliers puis en prenant deux brins elles les tordent dans leurs doigts, elles y en ajoutent ensuite un troisième, engagé à moitié de sa longueur: elles les tordent avec une grâce & une dextérité singulière. Elles forment ainsi des cordes de dix à douze aunes de long, qu’elleslaissent quelquefois traîner dans la rue derrière elles. Elles les rassemblent ensuite en petits paquets, voyez A, fig. 3; quelquefois elles unissent ensemble deux ou trois de ces cordes, & elles en forment des cordes plus ou moins grosses qu’on emploie à divers usages, particulièrement pour la pêche.
Allant au jardin de Dom Stanislas Ceose
[Sceusa], près de Sainte Lucie, on voit beaucoup de femmes occupées à cette sorte de travail. J’en ai représenté deux, fig. i. Elles sont dessinées d’après nature, telles qu’en marchant ou en causant elles s’occupent de ce travail. Les femmes de cette classe s’habillent différemment des autres Siciliennes. Elles s’enveloppent la tête, les bras & le corps d’un morceau d’étoffe noir ou blanc, de forme carrée, qui descend jusqu’à la hauteur des genoux. J’en donnerai la représentation dans la collection de divers habits de la Sicile. J’ai vu aussi dans ce jardin quelques débris qui m’ont paru assez curieux pour les offrir dans cette même planche.
Derrière la femme qui fait une de ces cordes j’ai placé les figures des médailles de la ville d’Himère, telles qu’elles ont été recueillies & gravées sur une table de marbre de trois pieds de haut sur vingt-sept pouces de large, qui se voit dans le Palais du Sénat de Thermini. Voyez fig. 2.
J’ai inséré encore dans cette même planche le plan des Bains de Thermini, tels qu’ils ont été reconstruits, à ce que l’on dit, par S. Calogero sur les ruines de ceux que les Romains avoient bâtis.
La forme de ce plan A est ronde, & consiste en deux galeries B, C. Elles faisoient chacune un quart de cercle: on avoir ménagé entre elles l’espace qui forme la petite chambre D. Son plancher composé de dalles de pierres est percé de douze trous de trois à quatre pouces de diamètre. Au dessous de ce plancher on a creusé une espèce de caveau où l’eau chaude arrive après avoir traversé la petite grotte F, où elle est reçue en sortant immédiatement de la roche. Cette grotte F, ayant vingt-quatre pieds de long sur douze de large, présente deux cent quatre-vingt-huit pieds de superficie: & la chambre D n’ayant que quinze pieds sur six, n’en présente que quatre-vingt-dix de surface, & reçoit par conséquent dans cet espace la plus grande quantité de vapeurs quelle puisse contenir. La masse d’eau qui est renfermée dans le caveau &. dans la grotte, contribue je crois encore, par sa profondeur, à augmenter l’intensité de la chaleur.
Cette chaleur est telle qu’on ne peut la supporter: je ne pouvoispas y écrire, le papier y devenoitmoite en un moment, &. bientôt il étoit
tellement pénétré par l’humidité, qu’il ne pouvoitrecevoir ni les traits du crayon, ni ceux de l’écriture. Les portes E de cette petite chambre sont très-étroites, afin qu’elles perdent moins de chaleur quand on les ouvre, ce qui se fait toujours très-brusquement. On ne conduit en ce lieu que les malades qui ont besoin, pour guérir, d’une transpiration très-abondante.
Il seroit curieux de savoir si les Romains ont bâti cette chambre, & s’ils en faisoient le même usage; il faudroit pour s’en assurer démolir une partie des murs modernes, & fouiller jusqu’à ce qu’on trouvât les fondations antiques: or c’est ce qu’on n’est pas tenté de faire.
Les galeries latérales B, C, sont indubitablement antiques; elles reçoivent l’eau chaude par des canaux H, qui la conduisent à des robinets placés dans des niches II, qui la versent dans le grand bain B, C, & qui en remplissent la partie la plus basse contenue entre le mur I & les marches K, par où descendent les malades qui veulent se baigner. L’eau en est chaude; on la fait monter à la hauteur qu’on veut, elle se renouvelle sans cesse, & elle s’écoule par un aqueduc souterrain qui la conduit à la mer.
Je crois que du temps des Anciens ces deux bains s’étendoientjusques à l’entrée L, & que le milieu A étoitun vaste bassin d’eau froide pour des bains différens
[sic, différents]. Une fontaine M d’eau froide, qui n’est placée là qu’à l’occasion de ces bains antiques, m’a fait faire cette conjecture.
Si l’on pouvoit faire des fouilles sans rien détruire, on feroit des découvertes instructives sur la manière dont les anciens avoient construit cet édifice.
[p. 86]
Aujourd’hui, grâces aux soi-disantes dispositions de S. Calogero, la chambre D est: une étuve: le galeries B, C, sont des bains chauds, N N sont des chambres de toilettes à l’usage des baigneurs. O est un cabinet consacré spécialement à l’étuve D: il communique à l’escalier P qui conduit à un étage au dessus, où logent les gens qui servent dans ces bains. Le passage Q est commun à tous les différens [sic, différents] bains.
RR est une sorte d’antichambre commune à tous les bains. S S est l’extérieur de la maison; on y voit encore les indices du complément du cercle TT, qui voitla forme du plan de cet édifice. II n’existe de son élévation que les deux galeries L, B, L, C , qu’on peut voir dans la planche suivante.

PLANCHE QUARANTE-SEPTIEME.
Vue intérieure des Bains de Thermini, prisé du côté B au point L du plan A dans la Planche précédente.
La voûte de cette galerie circulaire laisse voir à découvert sa construction antique. Les arcs de la voûte sont construits d’une brique très-large, très-épaisse et très-belle, à la maniéré dont on les fabriquoit dans le beau temps des Romains. Les intervalles de ces arcs étoienten moilons
[sic, moellons]. Les endroits des murs latéraux qui portent ces arcs sont tous construits  en briques: ces endroits étoientliés ensemble par d’autres arcs formés aussi de briques, dont les intervalles étoientremplis en moilons [sic, moellons], tels que celui qu’on peut voir à la droite de cette planche.
Ces galeries servent ordinairement de bains, comme je l’ai dit: j’ai choisi pour les représenter dans cette gravure le moment où on donne la douche. On place le malade sous la chute perpendiculaire de l’eau: cette eau s’écoule d’une cuve attachée à une certaine hauteur; un homme, à 1’aide d’une échelle, la remplit d’eau, qu’il a tirée d’un robinet en bas au fond de la galerie, & qui est marqué I dans le plan gravé sur la planche précédente. Le malade que j’ai représenté recevoir la douche sur la tête, & un autre homme lui lançoit avec force de l’eau sur les cuisses. La chute de l’eau, sa chaleur, & les parties salines dont les eaux thermales sont remplies, contribuent également a leur effet. Il faut en continuer l’usage assez long-temps; souvent il est nécessaire d’aller plusieurs faisons de suite au bain pour achever des guérisons que les premières tentatives n’avoient fait que préparer.
La portion du mur que l’on voit à la droite du tableau est moderne. Elle fait un petit abri pour les baigneurs qui veulent se déshabiller & se rhabiller sans être exposés à la vue des passans
[sic, passants]. Car il n’y a point d’antichambre; & même ces bains ne reçoivent de jour que par la porte de la rue.
J’ai placé sur le devant de l’estampe des domestiques qui préparent des habits qu’ils viennent d’apporter pour le malade qui doit s’habiller après avoir reçu la douche.

PLANCHE QUARANTE-HUITIEME.
Vue de la Galerie marquée C au plan des Bains, Planche XLVI.
Baigneurs.
Ces baigneurs sont représentés tels que je les ai vus lorsque j’ai visité ces bains: je les dessinai. Ils s’étoientplacés en cercle pour faire entr’eux la conversation, de manière que tout le monde y pût participer.
J’ai mis à l’entrée du bain un domestique qui attend un malade. & qui lui présente un linceul pour le recevoir & l’envelopper en sortant de l’eau. J’ai placé fur la gauche un personnage qui est soutenu par deux autres qui l’aident à marcher, afin de faire voir que ces bains ont la propriété de guérir les paralysies, la goutte, les rhumatismes, & généralement les maladies qui affectent les jambes.
L’eau de ces bains est si chaude, que si on y plonge le baromètre de Réaumur, il monte à trente-sept degrés.
[p. 87]
Ces Bains sont entretenus aux dépens de la ville. On s y baigne gratis. On n’en paye même point les domestiques, quoiqu’il soit d’usage que les malades leur donnent quelque argent pour les services particuliers qu’ils en reçoivent. II y a aussi des Médecins de la ville qui suivent les malades, qui leur sont exécuter les ordonnances du Médecin étranger qui les a envoyés prendre ces bains, & qui les dirigent sélon l’effet plus ou moins efficace que les bains sont sur eux.
L’eau de cette source est claire comme du cristal, un peu plus pesante que l’eau de fontaine, & laisse sur la langue une légère saveur de sel. Deux livres & demie déposent en s’évaporant une once & demie d’un sédiment salé dont le goût est très-piquant. On y trouve aussi des parties sulfureuses et des parties nitreuses. Le sel l’emporte sur le nitre, qui paroîty abonder plus que le soufre, qui n’y est qu’en très petite quantité. D
[on]. Luciano [Romano], premier Médecin de la ville, m’a donné ces résultats.
On dit que ces bains ont été réparés par les soins de S. Calogero; & l’on trouve en Sicile deux montagnes qui portent ce nom. Ces deux montagnes ont des eaux thermales. La tradition populaire fait de S. Calogero un contemporain des Apôtres, &. ne manque pas de le faire venir en Sicile par l’ordre de S. Pierre; quoiqu’il soit prouvé par histoire & par les monumens
[sic. monuments], que la Religion Chrétienne n’a pas été apportée en Sicile dans le premier siècle de l’Église.
Le nom de Calogero est un mot grec, qui veut dire un bon ou un saint vieillard. On le donnoit
dans l’Église Grecque à tous les Moines: on les appelloitl es Caloyers. Or, la langue Grecque se parloir communément en Sicile. Cette isle [sic, île] avoir adopté les rites de l’Église Grecque, sous la domination des Empereurs de Constantinople. Le nom de Caloyer y désignoit donc les gens livrés à la vie monastique; & lorsque les irruptions des Sarrazins, des Normands, des Germains, des Espagnols [sic, Espagnoles] y eurent fait oublier la langue grecque, ces montagnes où vraisemblablement des Hermites [sic, Ermites] avoient habité, continuèrent à être appelées du nom générique de Moine, dont le peuple fit insensiblement le nom particulier d’un Saint. Cette idée une fois admise, on fit voyager S. Calogero d’une montagne à l’autre. Je sais que quelques hommes ont porté chez les Grecs le nom de Caloyer, comme parmi nous quelques hommes portent celui de le Moine, que le Martyrologe compte deux Saints de ce nom; l’un qui fut un grand Officier de l’Empire; &. l’autre, un malheureux Eunuque, valet de l’impératrice épouse de l’Empereur Décius; mais le Martyrologe ne dit point que l’un ait quitté ses empires, et l’autre ses fonctions serviles pour aller habiter les rochers de la Sicile.
Mes dessins & mes observations concernant ces bains étant achevés, je fus conduit chez differens
[sic, differents] particuliers curieux de me voir. Ils me confirmèrent ce que j’avois déjà remarqué dans cette ville. On y cherche comme dans beaucoup d’autres endroits, à augmenter sa fortune, & ce n’est pas ce qui me surprit: mais je fus étonné de voir qu’on s’y appliquât sérieusement à l’art de trouver des trésors, & à l’art non moins chimérique de deviner les numéros des billets qui dévoient gagner à la loterie. Comme étranger, comme voyageur, comme François [sic, Français] peut-être, jepassoisà leurs yeux pour plus habile-homme qu’aucun de leurs concitoyens; ils me prirent même piège pour un grand devin; ils m’assaillirent de questions les plus inouïes, & ils me firent les propositions les plus étranges sur les trésors cachés, &sur les numéros du prochain tirage.
Je fus si vivement poursuivi par les questionneurs, que je résolus de les éloigner & de faire une expérience sur la crédulité humaine. Je dis donc au plus obstiné, a celui qui me croyoit savant dans la Négromancie, que je pouvois le satisfaire, soit qu’il voulût trouver un trésssor, ou gagner à la loterie; mais que dans les procédés nécessaires au succès, il falloit s’adresser au diable. Il frémit d’abord; il me demanda si l’on ne pouvoit réussir par quelques moyens mathématique, algébrique, arithmétique, ou physique, car il confondoit tout. Non, lui dis-je, il faut un moteur actif, puisant, caché, & capable de rendre mon opération efficace: or vous sentez bien qu’il n’y a que le diable qui puisse faire ce que Dieu ne permet pas dans l’ordre naturel. II s’effraya & renonça alors à l’objet de ses vœux; mais avec tant de regrets, & avec tant de croyance à tout ce que je lui contois, qu’infailliblement il auroit suc
[p. 88]combé, si je l’avois pressé, ou si j’avois pris de ces détours adroits dont se servent les fourbes pour attrapper les sots.
Telle est l’ignorance & la crédulité des gens du peuple de ce pays, & même de quelques autres personnes. On dit un jour à un des Frères du Couvent que j’habitois, qu’il étoit heureux d’être à portée d’obtenir de moi d’excellens
[sic, d’excellents] numéros: il comprit qu’effectivement il étoit environné de moyens de faire fortune. Quelques jours avant celui destiné pour mon départ, il me tira à l’écart, & me demanda pour toute récompense des bons services qu’il m’avoit rendus dans ce pays, de lui indiquer trois numéros de loterie pour le prochain tirage. Je fus embarrassé pendant quelques istans [sic, istants]; le refuser, nier mon favoir, ce n étoit pas le désabuser, c’étoit l’affliger, l’offenser, me faire passer pour ingrat, &. même l’humilier; je pris mon parti, je me recueillis, & de l’air le plus grave que je pus affecter, je lui écrivis les trois premiers nombres qui me vinrent à l’esprit; comment faire? & je lui souhaitai une bonne chance. Il les reçut avec la joie la plus sincère, & la persuasion la plus vive que sa fortune étoit faite.
Chaque jour en revenant à mon couvent, j’admirois avec un nouvel é tonnement le tableau charmant des scènes maritimes & champêtres qui se passoient dans le voisinage, & sous mes fenêtres mêmes où venoient expirer les vagues de la mer. Là, sans cesse arrivoient des pécheurs; les uns descendoient sur la rive, les autres en partoient; d’autres encore chargeoient ou dechargeoient des marchandise, faisoient sécher ou raccommodoient leurs filets. D’un autre côté, des baigneurs jouoient, nageoient ou plongeoient au milieu des eaux; & des curieux de toute espèce, des personnes de tout sexe, occupées ou oisives, augmentoient, par leurs différentes groupes, la beauté du tableau: ils l’animoient; ils y mettoient une ame, un intérêt qui attache le spectateur malgrè lui. Quand les scènes devenoient tranquilles, qu’on pouvoit se résoudre a en détourner les yeux, c’étoit pour les porter sur les belles campagnes dont Thermini est environné. Elles sont très-cultivées: la variété des couleurs qui en résulte, produit l’effet d’une riche broderie. L’inégalité du terrain que présentent depuis le rivage jusqu’aux montagnes les différens
[sic, différents] degrés d’élévations, ces montagnes mêmes qui s’élèvent en amphithéâtre les unes sur les autres, & qui sont toutes dominées par celle de S. Calogero, présentent mille tableaux délicieux dont la réunion en forme un si rare & si parfait, qu’il ne peut se comparer qu’à lui-même. Le Mont S. Calogero est aussi appelé le Mont Thermini; c’est, après l’Etna, une des plus hautes montagnes de la Sicile: à son sommet, qui se perd fouvent dans les nues, se voit un hermitage occupé par des hommes qui se disent successeurs de S. Calogero, qu’ils prétendent être mort en ce lieu: ces bons hermites [sic, ermites] jouissent par anticipation du plaisir de la béatitude céleste, par la douceur de leur société, & par la religion sainte qu’ils professent: le degré d’élévation qu’ils habitent les tient dans une maniere d’être sort singulière; ils sont environnés le plus souvent de nuages fixés sort au dessous d’eux, qui ne leur laissent voir que le petit espace qu’ils occupent, on se croiroit seul dans toute la nature, & qu’elle ne consiste qu’en ce qu’on voit autour de soi; c’est pour eux l’image du Paradis. Chaque fois qu’ils viennent de la quête, parvenus avec de grandes fatigues, ils se croient en ce lieu de paix & de tranquillité, loin des hommes qui sont relégués à une distance profonde au dessous d’eux, dans le séjour de l’agitation & du trouble où règne l’inquiétude, l’intrigue, les travaux, les besoins, les souffrances & les vicissitudes de toutes espèces. Ici ces prédestinés, dans la région céleste qu’ils habitent, sont affranchis des terreurs qui consternent les hommes. Ils jouissent de la contemplation d’un ciel toujours pur, d’un soleil sans nuage, image par sa splendeur du Dieu qu’ils adorent: s’il sort de l’horizon, ils ne voient souvent que lui, & il semble ne paroître au monde que pour eux: est-il au midi de sa course, c’est pour les embraser d amour divin: retourne-t-il à l’horizon, les nuages derrière lesquels il se cache, prenant mille formes diverses, laissent des intervalles où il reparoît; & bientôt après, à travers leur transparence dorée, n’en voyant plus que les derniers rayons, ces pieux mortels peuvent alors contempler la splendeur de ce flambeau suprême de la nature, & adorer en lui le Dieu dans le sein de qui ils font vœu de vivre toujours.
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CHAPITRE NEUVIEME.
Pêches. Voyage de Thermini aux Ruines d’Himere.
Ville de Chefalu. Edifice antique. Ville de Tusa.
Antiquités de Tindare.
DANS mon séjour à Thermini, & pendant mes promenades au bord de la mer, je m’entretins plusieurs fois avec des pécheurs, & j’admirai souvent avec quelle industrie l’homme a étudié les mœurs des autres espèces, & a mis à profit leurs appétits & leurs habitudes pour les perdre, & pour satisfaire ses besoins & ses caprices.
Peche de la Sardine & des Anchoix
[sic, anchois].
Pour attraper ces poissons, les pécheurs jettent en mer un filet de huit ou dix pieds de large & de la plus grande longueur possible. Un des côtés de ce filet est garni de liège dans toute son étendue: l’autre côté est garni de plomb. Ainsi en tombant dans l’eau il se pose verticalement, & se dresse comme un mur. On le tend dans des endroits où la mer n’est pas sort profonde, & où les anchoix
[sic, anchois] & les sardines doivent passer. Ces poissons rencontrent ce filet, & en s’efforçant de se glisser entre les mailles, ils s y embarrassent, & y demeurent pris.
Pèche du Mulet.
Ce poisson est d’un caractère très-vif; il a les muscles très-forts; il saute & s’élance hors de l’eau à une assez grande élévation. Les pécheurs savent distinguer les lieux où il habite. Ils y forment une vaste enceinte de filets posés verticalement. Autour de cette enceinte on couche à la surface de l’eau un autre filet posé horizontalement, &. attaché à des cannes, séparées l’une de l’autre à la distance de huit à dix pouces. Elles soutiennent ce filet, et elles sont comme les rayons de ce grand cercle. Les pécheurs le parcourent extérieurement en frappant sur leur barque. Le poisson, que ce bruit inquiète, cherche à fuir de cette enceinte: ne trouvant point d’issue sous l’eau, il s’élance, & sautant par dessus le filet vertical, il tombe sur le filet horizontal, se débat, se blesse en se heurtant contre les cannes, respire trop d’air, manque d’eau, perd ses forces, & se laisse prendre à la main par les pêcheurs.
Autre Pêche.
Les pêcheurs ont remarqué qu’il y avoit une sorte de poisson qui aimoit l’ombre; ils ont imaginé de lui en procurer: ils couvrent le lieu où ils soupçonnent que cette espèce se plaît, avec des cannes légères, recouvertes d’herbes, qui forment à ces poissons un agréable ombrage: bientôt ils y viennent en foule: alors les pêcheurs environnent ce lieu par des filets qu’ils tirent avec des cordes sous l’eau, & qu’ils rapprochent peu a peu: le poisson se rassemble vers le centre; il s’y entasse; on le saisit facilement.
Le moment de mon départ étant arrivé je pris congé de toutes mes connaissances; je dis adieu au père Gardien; je lui payai la dépense de ma table & le loyer de ma chambre, à-peu-près tel que j’auroisfait dans une hôtellerie; mais avec les égards qui sont dûs à un homme qui ne fait point métier de loger
[p. 90] les passans [sic, passants], & qu’on est trop heureux de rencontrer dans un lieu où la rareté des voyageurs ne permet pas d’entretenir une auberge.
Voyage de Thermini aux Ruines d’Himère.
En sortant de Thermini pour aller au port où je devois m’embarquer, je trouvai les gardes couches à terre au travers de la porte de la ville, afin de la garder, même en donnant, sans ce fatiguer par des veilles & des rondes, qui la plupart du temps sont inutiles.
Je n’éprouvai aucune difficulté; on me laissa passer sans me rien dire: quoique dans la plupart des villes de la Sicile, sous prétexte de visiter mes malles, on m’eût fait essuyer mille tracasseries, dont l’unique but étoit de m’extorquer un peu d’argent.
J’arrivai au bord de la mer avec mes armes. J’étois seul sans domestique: six mariniers que m’avoit procurés Joseph Gandolphe avoient porté devant moi mon petit bagage, & l’avoient placé dans une petite barque qui reposoit
à sec sur le rivage. Je m’y plaçai moi-même: les mariniers lancèrent la barque à l’eau, sautèrent à bord, saisirent les avirons, attachèrent le gouvernail, firent écumer la mersous le jeu des rames, &. bientôt Thermini disparut à nos yeux, & se perdit dans les vapeurs de la nuit &. de l’horizon.
Le soleil étoit couché depuis plus de cinq heures. Nous n’étions éclairés que par le feu des étoiles & l’éclat blanchissant de la voie lactée. La sérénité du ciel, la tranquillité de l’air, le doux balancement des flots donnoientà cette navigation un charme inexprimable.
Après avoir contemplé quelque temps les beautés uniformes de ce tableau un peu trop monotone, je cédai aux douceurs du sommeil, quoique je ne fusse pas trop à mon aise dans cette petite barque, & que les secousses occasionnées par chaque coup de rame apportassent sans cesse des obstacles a mon repos.
Mais à peine cedois-je à sa puissance que nous abordâmes au rivage. Nous descendîmes au pied de la tour de Vatelment
[sic, Battilamano o Vattilimano], près du fief de Buon-Fornello, à huit milles de Thermini. Le maître des mariniers m’accompagnoit. Nous cherchions quelqu’un qui pût me guider vers l’objet qui m’attiroit sur cette côte.
Nous trouvâmes des paysans, qui, couchés sur la terre, gardoient
leurs grains de la même manière que les soldats de Thermini gardoient les portes de leur ville. Le Sopra Stante, le Supérieur, le chef des ouvriers s’éveilla, s’habilla, & nous conduisit sur les ruines de l’antique ville d’Himère. Cette ville a été fondée par les plus anciens peuples qui ont habité la Sicile. Elle a été détruite dès les temps les plus reculés, puisque Thucydide en parle comme d’une ville qui déjà n’existoit plus de son temps.
Ses ruines sont sur une colline à un mille delà met. Nous apperçumes
d’abord à mi-côte, au couchant du hameau qu’on appelle Buon-Fornello, les débris du soubassement d’un château qui paroîtun ouvrage des anciens, à en juger par la grosseur des pierres qui le composent. Delà nous allâmes sur la partie plane de cette colline; elle est étendue; on appelle ce lieu les pierres d’Himère.
A la gauche d’une gorge qui divise cette plaine on rencontre une quantité prodigieuse de débris, canaux de terre-cuite, tuiles, carreaux, fragmens
[sic, fragments] de tombeaux, vases, &.c. Un peu plus bas, en tirant vers l’orient, on voit les fondemens [sic, fondements] de quelques murs qui offrent des angles en sens différens [sic, différents]. Ces murs sont d’une construction particulière, ils portent le caractère de la plus haute antiquité.
Ces débris n’ont pas été enlevés, comme tant d’autres, pour construire des murs dans les hameaux voisins: ils ont été vraisemblablement conservés par les arbres qui les ont couverts de leurs racines, & les ont dérobés aux yeux.
Voilà tout ce qui reste de cette superbe Himère qui a eu tant de splendeur.
L’aspect de ce lieu est très-agréable: une vaste prairie s’étend du côté du nord, & paroîtse terminer à la mer qui borde l’horizon: au midi, au levant & au couchant, des masses de roches & de montagnes très-variées par leurs formes & par leurs distances, offrent sans cesse des beautés pittoresques: le jeu des rayons du soleil &, les reflets de la lumière qui tombe sur ces sommités en varient les aspects a chaque heure du
[p. 91] jour. Pres de là un petit fleuve d’une eau limpide qui coule au pied d’une colline, achève d’embellir ce tableau.
Revenu au hameau de Buon-Fornello, je voulus en vain faire accepter quelque argent à mon guide pour le prix de ces peines, il ne voulut jamais rien recevoir. Cet exemple de désintéressement & d’honnêteté est rare en Sicile, aussi bien qu’en beaucoup d’autres pays.