Alla fine del mondo con Sepulveda, combattente sognatore

0
192

La veglia è un altro sogno/Che sogna di non sognare. Jorge Louis Borges.
Luis Sepúlveda ha fatto sognare tutti. Anche me.
L’ultima volta è successo qualche mese fa quando, in qualità di membro della Giuria del  Premio Letterario Elsa Morante, pensai a lui per la sezione “Scrittori d’Europa”. E tra i colleghi giurati fu un’ovazione.

Ma era europeo Sepúlveda, viste le sue origini cilene? O era spagnolo, visto che viveva a Gijón, in Spagna? O francese visto che ne aveva preso la cittadinanza? O era italiano visto il suo amore per l’Italia, di cui parlava la lingua con inflessione morbida e accattivante? Visto che in lui scorreva anche sangue italiano per parte della nonna livornese emigrata lì, “alla fine del mondo”, in Patagonia, stregata da un capo indio? Vista la sua manifesta simpatia per la nostra Terra? Visto che il suo gattone bell’imbusto, Zorba, di “Storia di una gabbianella…” frequentava i locali italiani di Amburgo dove è ambientata la storia?
C‘era senz’altro molta italianità in Sepúlveda, come in altri grandi dell’America Latina; come in Pablo Neruda, che elesse più volte l’Italia a domicilio per i suoi soggiorni di esule; come in Jorge Luis Borges, che era nato nel quartiere di Buenos Aires che porta l’appellativo di “Palermo”, città di cui sentì talmente forte il richiamo da eleggerla a meta per non pochi e intensi soggiorni; come Gabriel García Márquez, che prediligeva amici italiani, in primis Cesare Zavattini con cui intrattenne una fervida amicizia; come chi la poesia se la porta dentro di sé, come componente del suo essere, nella sua valigia di combattente errante.
Già, perché c’è molta lirica nelle opere di Sepúlveda, così come c’è tanta ironia e partecipazione umana per la gente comune, per i popoli, per i Paesi, anche per il Cile che l’aveva perseguitato, torturato e ostracizzato e di cui, poi, nel 2017, aveva ripreso la cittadinanza con caparbia e convinta determinazione, con fierezza e orgoglio nazionale. E, soprattutto, c’è tanto amore. Quell’amore che lo accompagnò tutta la vita alla ricerca del suo primo Amore, Carmen Yáñez, la grande poetessa, la dolcissima “Pelusa” (Monella), come la chiamava lui, che aveva sposato quand’era ventiduenne e risposata dopo circa trent’ anni.
Già, trovarsi e perdersi; e poi ancora ritrovarsi, questa è poesia.
Questa è la lezione di Sepúlveda dove tutto esiste e coesiste: dal maschione (il gatto bellimbusto Zorba) che fa la femmina e scopre un inaspettato appagamento nel sentirsi chiamare “mamma” e tanto benessere nell’essere un “diverso”; alla lumaca che ritrova l’importanza della lentezza divenuta al giorno d’oggi quasi una chimera; al protagonista de “Il mondo alla fine del mondo” e al ritrovamento di quell’agognato habitat incontaminato, quello di cui, in quegli stessi anni, si solfeggiavano le note di canzoni di Celentano e Gaber che lui, Luis, conosceva e forse, magari, canticchiava; alla Spagna di Miguel de Cervantes e del suo eroe vagabondo e immortale; a tutto ciò che è mito, leggerezza, poesia; a tutti coloro che sono soldati di un altro esercito, un esercito in borghese.
“Scrivo perché credo nella forza militante della parola”, diceva Sepúlveda.                                        
Già, scrivere, riflettere vagabondare e ancora fermarsi e riflettere ma, soprattutto, essere cittadini del mondo, di quella Terra dove, in quel momento, metti i piedi, magari per una volta soltanto, ma li metti sul serio, con convinzione e partecipazione, come uomo, cittadino e soldato, perché è proprio da lì, da un posto sperduto, magari alla fine del mondo, che possono arrivare grandi messaggi, persino quello dell’attuale Pontefice, Jorge Mario Bergoglio,  anche lui con ascendenze italiane. Ce le abbiamo ancora qui, impresse nella mente, le parole di quella sera, all’atto della sua elezione, alla finestra di Piazza San Pietro: “Sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo”.
Vagabondare e combattere, perché Sepúlveda, in primis, era un combattente, un militante che ha provato torture ed esilio pur di rimanere fedele alle sue idee.
Combattere e sognare, perché lottare significa seguire e perseguire grandi ideali.
Cileno, nato a Ovalle, cresciuto tra la costa di Valparaíso e la capitale Santiago, forgiato dalle idee anarchiche di uno zio e i libri d’avventura di Salgari, Cervantes, Melville, dopo essersi iscritto alla gioventù comunista, mosse i primi passi nel giornalismo e nel campo letterario. Un talento precoce, premiato addirittura con un viaggio nell’Unione Sovietica da dove fu cacciato, pare, per un flirt con la moglie di un burocrate.
Viaggi forzati, repentine e improvvise fughe, cacciate e lunghi esili, misti, sempre e comunque, a tanta poesia e a quella fierezza di essere latinoamericano: questa la vita di Sepúlveda che, espulso dalla gioventù comunista, passò qualche anno in Bolivia dove militò tra le fila dell’Esercito di liberazione nazionale.
Il ritorno in Cile non tardò, coincidendo con il sogno di un nuovo Cile che trovava in Salvador Allende l’uomo del riscatto. Entrò nel Partito socialista, divenne colonna portante del GAP, il Grupo de Amigos Personales, il servizio di sicurezza del Presidente, un organismo sciolto nel 1973 con l’avvento di Pinochet e il colpo di stato che vide la fine tragica di Allende. Arrestato all’interno del palazzo presidenziale, fu vittima di indicibili torture. Rilasciato dopo sette mesi, riprese la sua attività di scrittore e di giornalista: un impegno di aperta critica contro il regime di Pinochet che gli procurò un nuovo arresto. Poté lasciare la prigione ad una condizione: accettare l’esilio in Svezia. A Buenos Aires, però, nel bel mezzo di uno scalo aereo, fuggì in Paraguay. Anche qui il cattivo rapporto con il regime al potere lo convinse a rinunciare all’ospitalità e a trovare nell’Ecuador un paese più accomodante. Visse con gli indios, affinò il suo pensiero politico, si arruolò nelle Brigate internazionali di Simon Bolivar combattendo in Nicaragua. Nel 1979 lasciò il Sudamerica per l’Europa, dove la sua produzione letteraria si fece più prolifica. Dapprima Amburgo, dome approfondì la conoscenza della letteratura tedesca, poi la Francia. Intanto il suo impegno politico virò verso una svolta ecologista al seguito di “Greenpeace”. Poi, nel 1986 il ritorno in Cile. Ma fu in Europa che lo scrittore decise di vivere per sempre. Stavolta la Spagna, l’asturiana Gijón divenne il suo nuovo approdo, fino alla fine, pochi giorni fa, strappato via da un nemico invisibile contro cui non ha potuto lottare.
“Il peggior castigo è arrendersi senza avere potuto lottare”, si legge nelle sue opere.
Ma si legge ancora: “Gli amici non muoiono e basta”  (“Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico”).
Appunto: chi ama le sue opere lo ha considerato non come un semplice cantore di fatti e di storie, ma come un buon amico, un saggio, capace di regalare storie luminose che rischiarano le vite altrui, che sono validi esempi di coraggio, testimonianze da custodire. Libri come “Patagonia Express. Appunti dal sud del mondo” o “Le rose di Atacama” sono diari di bordo, taccuini ricchi di resoconti da un continente, quello Sudamericano, vissuto da persone comuni, da eroi di tutti i giorni che, proprio per questo, meritano di essere ricordati.
Avventure di una straordinaria quotidianità dove la cifra linguistica sta nell’attitudine di avere tinto di poesia esistenze ordinarie.
Le sue favole in realtà sono apologhi, parabole che regalano al mondo pagine indimenticabili, dove significati e significanti si fondono e si confondono di continuo, in un misto di linguaggi e di prose dell’anima, in una sorta di tappe di un nomadismo poetico ricercato e vagheggiato. “Si dice – scrisse un giorno Sepulveda – che ogni uomo deve scoprire qualcosa che giustifichi la sua vita. E lui, scandagliando le esistenze altrui, ne ha giustificato la sua: quella di un intellettuale colto, di un poeta coraggioso e determinato, quasi un militante dell’amore, dai principi saldi e uniformi.
A questo punto, però, penso sia giusto, e soprattutto saggio, non dilungarsi oltre, memore di quell’insegnamento che si ritrova tra le pieghe de “Il generale e il giudice”, il libro, forse, più coraggioso dello scrittore cileno che recita: “Le biografie degli uomini coerenti sono brevi”.
La moglie di Luis Sepúlveda, la poetessa Carmen Yáñez, che amo particolarmente, ha fatto sapere che, appena possibile, tornerà in Cile per disperdere le ceneri dello scrittore al largo delle coste dell’Oceano Pacifico: “Era nato nel nord del Cile, ma è in Patagonia che voleva tornare”, quella Terra che è sullo sfondo di “Patagonia Express”: un libro i cui  personaggi leggendari vivono sullo scenario di una natura indimenticabile, dove l’avventura non solo è ancora possibile, ma è dimensione quotidiana del vivere.
Luis Sepúlveda, Lucho, come lo chiamava lei, Pelusa, se ne va così, ancora una volta da cittadino del mondo, da combattente, nelle acque della Patagonia dove finivano anche i “desaparecidos” ai tempi della dittatura argentina guidata da Videla, gettati dagli aerei militari nelle acque del Rio de la Plata, in fondo all’Oceano.
Ma lui, Sepúlveda, ora, ritorna in quelle acque di propria volontà, come in un mitico sogno, come nel ventre di una Grande Madre, e questa volta senza costrizione o violenza, con la leggerezza della gabbianella Fortunata che, alla fine, impara a volare perché “vola solo chi osa farlo”. Lì, alla fine del mondo.
Teresa Triscari