ll Velario quaresimale della Parrocchia di Sant’Agata di Montemaggiore Belsito

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Nel 2018 è stato ritrovato un telo quaresimale alto quindici metri e largo nove, e dopo decenni fu nuovamente esposto dal parroco di Montemaggiore Belsito p. Salvatore Panzarella.

Sarebbe uno dei più grandi di cui si ha notizia nel palermitano, secondo solo a quello di ‘San Domenico’ a Palermo. Risalente alla prima metà del 1700 è attribuito a Filippo Randazzo.  La tela è semi trasparente ed ha una lunghezza pari all’altezza di un palazzo a 5 piani. Una superficie di 135 metri quadrati. Con una diagonale di 17,5 metri. Il lato maggiore è quanto il lato minore di un campetto di calcio a 5. La tecnica pittorica è quella del guazzo per ottenere l’effetto cromatico del grisaille (grisaglia in italiano) o monocromo indica varie tecniche nella pittura. La parola proviene dal francese e deriva da gris (“grigio”), inteso come metodo per rendere le sfumature di grigio. In generale indica una decorazione o una pittura fatta a monocromo. Tutto su di un telo di lino e la scena raffigura il momento della deposizione. Raffigura il Cristo deposto dalla Croce con l’Addolorata e, ai lati, le figure dei dolenti: San Giovanni, Maria Maddalena, Veronica e Giuseppe D’Arimatea. Più in basso si trovano i simboli del martirio e del sacrificio: i chiodi ed il martello della deposizione, la corona di spine e un porta-balsamo per la mistura di mirra e d’aloe, il sudario.  Al centro della tela la Madre con il Figlio morto posto amorevolmente sul suo grembo e adagiato sul telo funebre di lino. Sullo sfondo uno scorcio della città di Gerusalemme vista dal Golgotha e alberi d’olivo sul lato opposto.
Altri dettagli simbolici che si trovano in questo telo quaresimale sono un bacile e un pezzo di tela per tergere il corpo del Cristo crocefisso. Probabilmente s’intravede tra gli oggetti la spugna per la Posca (la mistura dissetante di acqua e aceto) che un pretoriano porse a Gesù sulla Croce, un gesto di misericordia verso un condannato alla pena di croce, non un atto di crudeltà, infatti i romani dicevano: “Posca fortem, vinum ebrium facit “. Nella metà superiore c’è una lunga croce circondata dalle nubi che si squarciano nel cielo. A destra e a sinistra, vicino alle estremità dei bracci corti, vediamo due gruppi di teste di puntini alati, rispettivamente di tre e due elementi.  La raffinatezza della pittura che si nota in tutti i suoi dettagli, si riscontra per esempio nel particolare che evidenzia i quattro chiodi che uniscono i bracci della grande croce. E ancora finezza, nei bei decori e abbellimenti, tutt’intorno al perimetro della pittura.  La grandissima tela pittorica è visibile per tutta la Settimana Santa e poi nella notte di Pasqua è calata per disvelare l’antica statua del Cristo risorto al tocco delle campane slegate.
Era tradizione stendere questa tela nella chiesa Madre Basilica di fronte all’altare, nel transetto centrale. Legata con robuste corde, grosse pietre nella parte inferiore la tenevano distesa e non la facevano ondeggiare eccessivamente alle correnti d’aria. Nella notte di Pasqua il sacrista, dopo le celebrazioni di rito e nel momento topico della Resurrezione, slegava le cime che la tenevano sospesa e il tutto cadeva giù quasi come una cortina o un sipario. La rappresentazione del Cristo deposto dalla croce lasciava il posto alla Luce del cero pasquale e alla Resurrezione, al simulacro del Cristo risorto che in quel momento si disvelava nuovamente.  L’ultimo dei parroci (1913-1949) che permise tale rito fu mons. Raffaele Arrigo che lo sospese per il rischio e il trambusto nel momento della “calata di la tila” così era detto l’evento.
Santi Licata