Giacomo Giardina, il poeta pecoraio che si innamorò del Futurismo

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Giacomo Giardina (Godrano 1901 – Bagheria 1994) rappresenta un caso a sé stante di genialità innata, forse unico per quanto se ne sappia, non solo in Italia: da guardiano di pecore, a tipografo, venditore ambulante, poeta.

Parte della sua vita l’ha trascorsa a Bagheria, infatti lo scrittore Stefano Malatesta lo ha definito “Futurista-pecoraio di Bagheria”, un particolare di cui si tiene conto al momento di includerlo tra gli artisti madoniti. Infatti la sua fortuna di poeta futurista inizia con gli anni della sua scelta di abbandonare la nativa Godrano dove era stato custode di gregge e stabilirsi nella città dove spiccavano le operosità artistiche di Guttuso e quelle poetiche di Buttitta e di Castrense Civello.
A Bagheria, il Giardina lavorando in una tipografia aveva cominciato a frequentare un mondo nuovo rispetto a quanto aveva potuto  nella nativa Godrano, da pecoraio. Qui aveva trovato un importante sodàle in un altro poeta privilegiato da Marinetti, il prima citato Castrense Civello la cui precocità d’ingegno aveva suscitato l’interesse del fondatore del futurismo. E futurista sarà infatti l’impegno di Giacomo Giardina. Certamente diversi i due casi; infatti se per Civello l’entusiasmo e l’interesse di Marinetti era precipuamente rivolto alla precocità dell’ingegno, per Giacomo Giardina era il caso del poeta istintivo che lo aveva entusiasmato al punto da presentarlo a Palermo in occasione della Mostra d’Arte futurista, e poi di aver prefato e fatto pubblicare dall’editore fiorentino Vallecchi la silloge delle poesie di “Quand’ero pecoraio”. Un intervento, quello del capo del Futurismo, che non rimase il solo a favore del Giardina, cui  nel 1930, in occasione del Circuito di Poesia Meridionale a Napoli, venne assegnato il premio futurista del “Casco di Alluminio.    Insomma Marinetti riconoscendo il poeta di autentiche ispirazioni e rese letterarie, non smise mai di seguirne i successi e di agevolare l’Autore avallandone i contributi di scritture futuriste su organi di stampa nazionali, ai quali il buon Giardina non avrebbe potuto sicuramente accedere senza l’autorevole intervento del capo del Futurismo.
Su questo privilegio ha poi dedicato parole di sarcasmo e dissacrazione Stefano Malatesta nel suo libro pubblicato da Neri Pozza nel Duemila: “Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani”, una scheda poco generosa che il noto giornalista ha inserito nel suo libro sui siciliani  che si erano distinti per  bizzarrie e originalità di comportamenti, dimostrando  però poca generosità verso il “Poeta pecoraio” su cui ha scritto: “Giardina era nato dalle parti di Rocca Busambra, dentro le cui forre i mafiosi gettavano i cadaveri. Da ragazzo aveva scelto di fare il pastore perché non riusciva a rimanere all’interno della quattro mura di una scuola elementare, dove insegnava il padre. Più che badare alle pecore, scriveva poesie che furono raccolte in un libro e pubblicate addirittura da Vallecchi: un caso letterario dell’Italia di strapaese. A modo suo era un filologo perché non leggeva libri, ma solo il vocabolario, che metteva nella borsa con gli scartafacci, i mozziconi e si suppone con qualche frutto di carrubo. Aveva una faccia allegra e un animo leggero. Durante la guerra continuò ad andare in giro, questa volta in veste di venditore ambulante di camicie, calze e mutande. Da prima della guerra viveva a Bagheria, negli ultimi anni in un garage attrezzato a semi povertà, attendendo invano il vitalizio per gli artisti della legge Bacchelli. L’unico lusso era una saracinesca di ferro azionata elettricamente, che si rompeva spesso. È morto a 93 anni, nel 1994. Sulla sua tomba ha voluto una lapide con il titolo di una sua raccolta di versi: “Dante/ambulante del mio paese”. I parenti si sono affrettati a vendere ai collezionisti il quadro che gli aveva regalato Guttuso, le lettere di Marinetti, e gli altri carteggi che non erano già stati rubati dagli amici venuti da Palermo per il funerale”.
Potrebbe, la ingenerosa memoria del Malatesta, costituire una “falsa traccia” per una biografia a grandi linee  ma in versione ossimora rispetto a quella che sembra dettata da una fonte che abbia seguito con malanimo e pregiudizio i trionfi di un personaggio che aveva trasformato la “sorte in gabbia”, assegnatagli  fin dalla nascita, in volo libertario di artista. Comunque Giacomo Giardina le sue piccole soddisfazioni le ha avute finché visse. Fossero state quelle sole che gli procurava la stima di Marinetti che non smise di stimarlo e di aiutarlo a inserirsi in una linea culturale a riverberi nazionali. Ed è stato anche attore cinematografico, Giacomo Giardina, sotto la guida di Rosi nel film Cristo si è fermato a Eboli.
Come poeta è stato celebrato in un documentario realizzato da Nuccio Vara per la Rai, un filmato nel quale è stata “immortalata” la sua avventura umana e artistica. Inoltre la sua produzione poetica che aveva trovato in Marinetti lo “sponsor” entusiasta, ha poi continuato a essere argomento di condivisione e persino di studio. Anna Maria Ruta, la docente dell’Università di Palermo, specialista in ricerche sul Futurismo in Sicilia, in un importante saggio pubblicato dalla Pungitopo di Patti nel 1991, saggio che fa il punto sulla storia del movimento marinettiano nell’Isola, ha tracciato un profilo esaustivamente e scientificamente puntuale su Giardina poeta e scrittore futurista, un riconoscimento che accompagnerà il “poeta pecoraio” in tutte le occasioni care agli studiosi del Futurismo e delle sue anime siciliane.
Tra le sue opere, oltre  quella pubblicata da Vallecchi in esordio, l’antologia delle poesie scritte tra il 1929 e il 1982 intitolata Dante ambulante nel mio paese. Una verità amara c’è nella citata scheda ingiustamente dissacratoria del Malatesta, quella della dispersione di lettere e testimonianze dell’archivio del Giardina “fatte fuori” da interessi non certamente utili al ricordo del poeta e delle sue relazioni. Una dispersione a opera di “amici” che alla morte del poeta  hanno fatto seguire comportamenti cinici del tipo celebrato dal Pascoli nell’allegoria de “La quercia caduta”: ognuno loda ognuno taglia. Ma è la quasi sempre vita di chi resta e non più per colpa di chi se n’è andato senza aver preordinato quanto salvare a futura memoria di sé stesso.
Mario Grasso
Dipinto: Totò Calò omaggio al poeta Giacomo Giardina.