1585: gestione di un trappeto di canna da zucchero in un atto ratificato presso un notaio di Gratteri

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Un contratto del 1585 per la vendita anticipata di una grossa partita di zucchero si rivela molto ricco di informazioni sulla gestione del trappeto di Partinico e sulle sue fonti di finanziamento.

L’atto viene  rogato a Palermo dal notaio Giovanni Aloisio Blundo e ratificato a Gratteri presso un notaio oggi non identificato[1]. Con esso il palermitano don Nicolò (Cola) del defunto Francesco Bologna vende al magnifico Giovanni Antonio del Pozzo, suo concittadino ma di presumibile ascendenza genovese, tutti i pani di zucchero di una cotta da pervenire, «piacendo al Signore», dal trappeto di Partinico nella cottura prossima «della propria bontà e qualità come saranno». Le furme, i contenitori in cui verranno collocati gli zuccheri selvaggi, dovranno essere di caputa di venti quartucci per ognuna, con l’obbligo di conteggiare in maniera dettagliata quelle più capienti della misura convenuta e quelle che saranno più piccole (manco). Le forme dovranno essere piene e ben incorpate, la vendita comprende anche tutti i discendenti che perverranno dagli zuccheri, mentre la consegna dovrà avvenire nei magazzini di Partinico dal giorno in cui si comincerà a cuocere la canna e poi cochendo consignando. Le forme dovranno conteggiarsi di giorno in giorno, di cottura in cottura. Il prezzo convenuto è di onze 1.3 a «singulo pane selvaggio», che sappiamo corrispondere a circa 8 chilogrammi, l’anticipo che il compratore promette di erogare a Palermo, a semplice richiesta di don Nicola, è pari a ottocento onze. Lo stesso del Pozzo, inoltre, si obbliga a pagare altre duecento onze al notaio Tommaso La Russa e a Geronimo Tortorici in computo di maggior somma a loro dovuta da don Nicola, giusta la contabilità relativa a generi alimentari presi per gli operai dalla taberna dei due creditori nel ricordato trappeto e arbitrio di cannamele. Il compratore degli zuccheri si obbliga  ancora a pagare cento onze complessive a vari fornitori: a Giuseppe Inbeges per una caldaia e un paraturi acquistati per servizio del trappeto, a Geronimo Costa per prezzo di un fraxino e di un currituri, ad Antonino d’Ancona per spago e corde, a Filippo Benchi per trasporto del citato fraxino e currituri portati dalla località palermitana di Acqua dei Corsari (ex aqua corsalium) al trappeto. Il compratore infine si obbliga a exburzare duecentocinquanta onze per ogni mese a partire da agosto fino a fine cottura, senza andare oltre il mese di marzo. Le somme così versate sono destinate «in costruendo et gubernando cannamelas», cioè per pagamento di gabella delle acque, dei salari dei dirigenti e di tutto il personale impegnato nell’arbitrio e nel trappeto, per taglio e trasporto della legna necessaria alla cottura e per altro che si renda opportuno acquistare, come il concime. Alla fine della consegna degli zuccheri, se il compratore rimarrà debitore dovrà reficere a don Nicola la quantità di zucchero di una cotta  eccedente in ragione di 11 onze a cantàro (un cantàro= Kg 79, 342) e di onze 8.7.10  a cantàro per i rottami. Tra altre clausole, una prevede che don Cola dovrà consegnare pure 140 cantàri di zucchero e oltre 18 di rottami a Giovan Battista Colnago e altrettanti rottami a Bartolomeo Burgisi, che sappiamo originari rispettivamente da Milano e da Genova.
Anche lo zucchero di Partinico prende la via delle piazze settentrionali dove trova collocazione a prezzi remunerativi.
Tra i patti particolari, viene previsto che allo «parari delli cannameli detti cannameli siano netti di radica e parati allo presto come è solito», giacché la canna tagliata non può attendere, se non a scapito della qualità del prodotto. Ed ancora, don Cola dovrà apprestare tutti «li stigli, furmae zuccarorum e cantarelli, cochiri i discendenti, darci lo furno cioè lo brigantino dello mastro per poter cochiri tutti li meli, mixturi et mixturetti», le caldaie grandi e tutti gli altri rami soliti, magazzini, scaffe, locali, ed infine assegnare i luoghi dove prendere la creta e acqua corrente nel baglio per poterla lavorare. Di tutto quanto, Giovanni Antonio del Pozzo dovrà poter disporre entro metà novembre. Lo stesso compratore potrà scegliere il mastro esperto (magister zuccarorum) per la cottura degli zuccheri e cambiarlo a suo piacimento, mentre il suo salario dovrà essere liquidato solidalmente tra il compratore e il venditore. Ancora una volta viene messo in evidenza come il momento della cottura sia quello determinante per il raggiungimento di una buona qualità del prodotto. Per questo motivo il magister zuccarorum, responsabile del preciso momento in cui bisogna interrompere la cottura e versare il prodotto nelle forme e del governo dello zucchero di una cotta, nonché coordinatore generale di tutto quanto attiene alle cotte, una sorta di direttore tecnico che detta i tempi della macchina organizzativa, figura altamente specializzata, ha il salario più alto tra i lavoratori del trappeto e va scelto con ogni cura. In fondo la buona riuscita della qualità del prodotto dipende soprattutto da lui. Gli altri operai, invece, saranno scelti da don Cola con l’intervento del compratore. Viene anche previsto che le somme anticipate per pagare gli operai saranno trasferite da Palermo a Partinico «a risico, pericolo e fortuna» di don Cola. Infine quest’ultimo vende a Giovanni Antonio mille cantàri di legno barcami et de suvari dei boschi di Castellamare del Golfo (Castri ad mare de gulfo) da consegnare nel trappeto a fine cottura, per il prezzo di un tarì al cantàro, cifra che testimonia quanto può incidere il trasporto nell’approvvigionamento del legno. Ancora a carico del venditore sono due uomini a cavallo per la guardianìa. Fideiussore in favore di Giovanni Antonio del Pozzo viene nominato don Pietro Ventimiglia, conte di Collesano[2] e dominus di Gratteri che dovrà ratificare, presente all’atto donna Anna Bologna e Ventimiglia, moglie del ricordato don Nicolò venditore, che stipula col consenso del marito. Testi all’atto risultano il magnifico Bartolomeo Burgisi, Giovanni Vincenzo Casapinta, Agostino Crollalanza, probabilmente di origine milanese, e Vincenzo Carxagio, tutti operatori attivi nel settore dello zucchero in parte impegnati nei trappeti di Roccella e Buonfornello, ai piedi delle Madonie, nel ventennio precedente.
Rosario Termotto
[1] Archivio di Stato di Palermo, sezione di Termini Imerese, Notaio N. N., vol. 964, II serie, cc. 292r-303v, Gratteri 8 luglio 1585.
[2] In realtà i Ventimiglia avevano perso definitivamente Collesano sin dal secondo decennio del Quattrocento e solo a titolo di pretensione continueranno a portare e a reclamare, vanamente, il titolo di conti di questo centro, ancora per secoli. In effetti, nel periodo in questione, Collesano è saldamente in mano ai Moncada che la deterranno molto a lungo.