As – Sahrah o Castrum… di Sabbia? Qualche riflessione in merito per ripristinare la verità sui fatti

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Qualche giorno fa, navigando sulla rete, mi sono imbattuto per caso nel video della presentazione del volumetto “As-Sahrah o Castrum Roccellae fra bizantini e musulmani. Manoscritti arabi e accadimenti storici”

di Luigi Lo Bue, personaggio noto al pubblico locale per aver scritto nei decenni passati alcuni testi su Campofelice. Preso da curiosità, colpito dagli sguardi stupiti e ammirati che i presenti offrivano alle presunte scoperte e chiarificazioni storiche sull’origine della Roccella e dalle parole di encomio che presentavano il libro e il suo autore, mi sono procurato una copia del testo, di cui non conoscevo l’esistenza, e a lettura ultimata mi sono sentito in dovere, per ripristinare verità sui fatti, di esprimere qualche riflessione in proposito.

Qualche giorno fa, navigando sulla rete, mi sono imbattuto per caso nel video della presentazione del volumetto “As-Sahrah o Castrum Roccellae fra bizantini e musulmani. Manoscritti arabi e accadimenti storici” di Luigi Lo Bue, personaggio noto al pubblico locale per aver scritto nei decenni passati alcuni testi su Campofelice. Preso da curiosità, colpito dagli sguardi stupiti e ammirati che i presenti offrivano alle presunte scoperte e chiarificazioni storiche sull’origine della Roccella e dalle parole di encomio che presentavano il libro e il suo autore, mi sono procurato una copia del testo, di cui non conoscevo l’esistenza, e a lettura ultimata mi sono sentito in dovere, per ripristinare verità sui fatti, di esprimere qualche riflessione in proposito.

Innanzitutto sono rimasto stupito dalla consistenza del testo: su un argomento tanto studiato soltanto la bibliografia avrebbe dovuto occupare più spazio di quello presentato come testo completo (appena trentanove pagine, di cui dodici occupate da immagini a tutta pagina e il resto con corpo del testo a interlinea doppia).

Colpisce di più, però, la sufficienza con cui vengono trattati argomenti tanto difficili quanto complessi, che hanno visto negli ultimi decenni un acceso dibattito fra storici di caratura internazionale delle università di tutto il mondo e di cui nel testo non c’è traccia, perché l’autore non conosce la bibliografia specifica sull’argomento che vorrebbe trattare o perché vuole apparire agli occhi di lettori poco accorti come lo scopritore del “tesoro”? In ogni caso l’autoreferenzialità nella ricerca è sintomo di pressappochismo e poca affidabilità. A questo si aggiunge l’assoluta mancanza di metodologia scientifica, che una ricerca storica seria pretenderebbe, sfociando così in argomentazioni confuse e inconcludenti, spacciate per certezze inconfutabili, e in considerazioni generali e transunte da altri testi che però non vengono menzionati. Inoltre definire Idrisi, di cui ormai a livello scientifico si usa la traduzione di Umberto Rizzitano e non più quella di Amari, “fonte inedita” mi pare davvero visionario.

Il testo si divide in due piccoli articoli che trattano rispettivamente dell’origine della Roccella e delle “Feste nel castello della Roccella in occasione della venuta del duca di Veraguas (5 novembre 1698)”.

Alla base del primo articolo sta la presentazione di “antiche cronache arabe, recuperate presso la Biblioteca Nazionale di Parigi” che affermerebbero con “certezza storica la datazione bizantina della Roccella”. Queste famigerate “fonti di prima mano” sono in realtà testi noti, pubblicati e discussi da oltre un secolo e mezzo, che l’autore non ha fatto altro che ritradurre con l’aiuto di un’esperta di arabistica, non apportando fra l’altro alcuna novità rispetto alle precedenti traduzioni. Peccato poi che i manoscritti di Al-Nuwayrī della Bibliothèque nationale de France si trovino alla collocazione Mss or., Arabe dal n. 1573 al n. 1579, e non alla segnatura riportata nel testo (tratta dal vecchio inventario ottocentesco), e che il manoscritto di Ibn al-Athīr denominato Al-Kāmil della biblioteca parigina (Mss or., Arabe 1898) sia una copia del XVII secolo, mentre l’originale si trova al Cairo.

Ritorniamo però ai contenuti. Come detto, esiste un ampio dibattito storico sull’identificazione del toponimo “Qasr-al-hudajd”, che Michele Amari, seguito da altri studiosi, identifica con la fortezza di Gagliano, che guarda caso riceve nel XIX secolo l’appellativo ufficiale di Castelferrato coincidente con la traduzione del toponimo arabo e che inoltre si trova sulla strada per Enna, in un contesto dove le fonti arabe si concentrano proprio sui vari tentativi islamici di assalto alla munita fortezza bizantina. Il Lo Bue trova impossibile che nello stesso anno l’esercito arabo possa aver assalito Cefalù e poi Gagliano, poiché troppo distanti. In realtà la distanza fra i due centri è di circa novanta chilometri e le Madonie non sono le Alpi: un esercito poteva coprire tranquillamente questa distanza nel giro di una settimana.

Altro toponimo che si vuole riferito alla Roccella è “Qasr-al-gadid”, che in arabo significa castello nuovo, utilizzato come prova che la Roccella sarebbe stata costruita dai bizantini poco prima dell’assalto del 858 ad opera dei mussulmani. A parte il fatto che si tratta di un toponimo e quindi non necessariamente riferito a un castello di nuova costruzione, gli storici e gli archeologi sono propensi comunque a identificarlo con la fortezza di Castronovo (Castrum novum in latino e quindi Qasr-al-gadid in arabo). Recentemente sono state ritrovate le mura della fortezza bizantina del Kassar di Castronovo, che confermerebbero l’identificazione, mentre per la Roccella bisognerebbe dimostrare che ci fosse stata lì una fortificazione in grado di contenere il migliaio di persone citato dai cronisti arabi (resti di mura, reperti archeologici…) altrimenti parliamo di niente. E poi dove è detto che i luoghi citati si riferiscono a “un castello posto fra Termini e Cefalù”? Questa è una supposizione dell’autore e non una deduzione tratta dalle fonti.

Ma se proprio vogliamo ipotizzare (e non certificare) l’identificazione del “Qasr-al-hudajd” o anche del “Qasr-al-gadid” con la Roccella, la paternità di questa proposta va data a Henri Bresc, non proprio l’ultimo arrivato, che la formulava già nel 1984, e non a Luigi Lo Bue.

Ma andiamo a qualche notazione di carattere metodologico.

Le didascalie sono lacunose, in quanto non specificano i dati dell’immagine a cui si riferiscono, rendendone impossibile l’identificazione.

Sembra davvero di cattivo gusto la pubblicazione a tutta pagina della ricevuta della Bibliothèque nationale, dove fra l’altro non si evince che cosa è stato richiesto, che cosa è stato concesso e a quando risale il documento. Anche perchè i testi arabi riprodotti a tutta pagina non sono tratti dai decantati manoscritti rintracciati a Parigi ma dalla pubblicazione ottocentesca a stampa di Michele Amari (comprese le note).

A Pagina 13, alla nota 3, un manoscritto viene detto “unico in Europa”, ma un manoscritto è per definizione unico e quindi tutti i manoscritti sono unici non solo in Europa ma nel mondo, al limite ci possono essere delle copie.

La “r” dietro il numero in un supporto a doppia faccia, compresi i fogli scritti, sta per “recto” ossia la faccia principale e non per “retro”, terminologia della moderna stampa che indica l’esatto contrario.

I Bizantini nei testi arabi vengono chiamati “Rum”, cioè romani, e non “greci”.

Passando poi al secondo articolo le conclusioni rasentano il paradosso.

Il piccolo saggio si prefigge di riproporre un presunto perduto scritto di Pasquale Cipolla dallo stesso titolo. Giusto per non dilungarmi troppo mi vorrei soffermare soltanto su due punti.

Il Lo Bue afferma che quello fondato nel 1205 alla Roccella non era “un ospedale ma una succursale del Convento [sic!] di Cefalù”, dimostrando di non conoscere il significato del temine medievale “hospitalis”, che non era un luogo di degenza per i malati, ma serviva ad accogliere pellegrini e senza tetto che si trovavano a passare occasionalmente da un determinato posto. L’ospedale o ospizio medievale aveva una sua struttura ben precisa con chiesa e portico antistante che si rispecchia in alcune costruzioni superstiti del borgo della Roccella, anche se trasformate nel tempo.

Ma dove si dimostra privo di fondamento il testo del Lo Bue è nel chiamare in causa il canonico Mongitore, e in particolare il manoscritto della biblioteca comunale di Palermo, Diario Palermitano, per provare che “il 5 novembre del 1698, il Duca di Varaguas sbarcò in Roccella all’interno della quale si intrattenne fino al 6 dello stesso mese”, come aveva sostenuto il Cipolla. Per sfortuna del Lo Bue, il manoscritto del Mongitore è stato pubblicato a suo tempo da Gioacchino Di Marzo e oggi è facilmente consultabile on-line (A. Mongitore, Diario Palermitano, in G. Di Marzo, Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia, vol. VII, Luigi Pedone Lauriel editori, Palermo 1871). Qui, a pagina 180, si legge:

«A 30 detto [ottobre 1698]. Partì da Messina il vicerè, per far ritorno in Palermo, viaggiando parte per terra, parte per mare.

A 5 novembre. Arrivò il vicerè nel territorio di Palermo, e volle fermarsi per riposo nel casino del prencipe di Petraperzia alla contrata dell’Aspera, dove pernottò».

Ci risiamo, quindi. Già nelle precedenti pubblicazioni il Lo Bue aveva mistificato la realtà storica scambiando i dati riferiti a Roccella Valdemone con la nostra Roccella, adesso crea ancora più confusione (non voglio assolutamente prendere in considerazione l’eventualità che la diffusione di notizie errate sia dovuta a malafede, ma solo a incompetenza).

Per concludere. Nessuno nega che il sito della Roccella possa essere stato utilizzato dai bizantini o dagli arabi, e forse anche prima dai greci e dai romani, ma ad oggi queste rimangono ipotesi da verificare con riscontri certi, oltre che con futuri scavi e con il recupero di eventuali reperti.

La differenza fra uno storico di professione e un dilettante della storia sta nel fatto che il primo formula ipotesi che restano tali finché non vengano dimostrate, il secondo promulga certezze errate sulla base di indizi anche poco chiari e non riconosce, o semplicemente non conosce, il lavoro di chi lo ha preceduto: questa piccola pubblicazione è un lavoro da dilettante.

Cresce il rammarico perché le spese di tipografia sono state sostenute con soldi pubblici dal nostro Comune, anche se in nessuna parte del testo viene riconosciuto il patrocinio, e oltre tutto il libello è destinato a rimanere, per fortuna direi, nei cassetti del dimenticatoio in quanto mancando persino di codice ISBN non può essere neanche donato alle biblioteche pubbliche né ricercato col sistema bibliotecario nazionale, tutto questo mentre studi ben più seri giacciono da anni nei cassetti di chi li ha scritti e non vengono ritenuti degni di contributi: viene il sospetto che si sia finanziata la persona e non il suo povero contributo.

Giuseppe Fazio