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Giovani Democratici Madonie. La Sicilia dimenticata: tra Burocrazia lenta e abbandono istituzionale

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La Sicilia continua a essere vittima di un profondo disinteresse da parte di chi governa, costringendo i cittadini a fare affidamento sull’auto-aiuto delle comunità locali.

Le problematiche sono evidenti e riguardano ambiti cruciali, dalla manutenzione delle infrastrutture alla gestione delle emergenze quotidiane.
Le strade, ad esempio, sono un simbolo di questa crisi. La loro manutenzione spetta alle Province, lasciando i Comuni impossibilitati a intervenire con prontezza.

Questo sistema burocratico rallenta ogni iniziativa, aggravando situazioni che necessiterebbero di interventi immediati.
Un esempio concreto riguarda la gestione della rete idrica: per riparare una semplice perdita d’acqua possono servire settimane, con conseguenti sprechi enormi in una regione dove ogni goccia è un bene prezioso.

Lo stesso vale per la pulizia delle strade invase dal fango, come accade allo svincolo di Irosa, nodo fondamentale per le Madonie, dove i lavori di messa in sicurezza procedono a rilento, penalizzando un’intera comunità.
Questa lentezza amministrativa è un peso che la Sicilia non può più sostenere. È necessario un cambio di passo: servono interventi rapidi, concreti ed efficienti, oltre a un’attenzione politica finalmente all’altezza dei bisogni di un’isola che merita molto di più.

Giovani Democratici Madonie

Termini Imerese, la signora Rosa Gatto ha festeggiato cento anni

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La signora Rosa Gatto ha festeggiato pochi giorni fa un secolo di vita. A celebrare i suoi cento anni in un ristorante cittadino erano presenti i due figli Mariella e Pippo, i cinque nipoti e un numero crescente di pronipoti. Era inoltre presente il Sindaco che ha consegnato una pergamena a nome dell’Amministrazione.

Rosa Gatto è la prima di dieci figli, di cui quattro emigrati in Canada, a Toronto. Sposata con Salvatore Piazza Palotto ha superato in età il record  della mamma, Ignazia Coniglio, morta a Toronto, pochi mesi prima  di compiere 100 anni.

Proveniente da una famiglia povera la signora Rosa perse il papà molto presto, che lasciò i figli orfani di cui alcuni in tenera età, e aiutò tantissimo la mamma nella crescita dei fratelli più piccoli.

Alla signora Rosa Gatto gli auguri del nostro giornale.

L’ultima Fiat 500 prodotta a Termini Imerese si trova a Seregno e ha quasi mezzo secolo

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Sul cruscotto è stato inciso: «Ultimo esemplare prodotto negli stabilimenti di Termini Imerese»: è il 31 luglio 1975. Si tratta della Fiat 500 modello R di color turchese farfalla che uscì alla fabbrica siciliana.

Oggi l’auto esiste ancora, ha quasi mezzo secolo e si trova a Seregno in provincia di Monza ed è di proprietà di Luciano Toma, impiegato presso l’ufficio tecnico del comune di Vedano al Lambro.

La vettura è stata comprata dal padre e immatricolata (con targa PA 441783) nel settembre del 1975. Venne acquistata a rate per 950mila lire, con un acconto di 100mila lire e finanziamento Fiat Sava. In realtà l’auto era stata riservata al direttore dello stabilimento SicilFiat di Termini Imerese e destinata alla moglie, che però l’aveva rifiutata perché la riteneva troppo piccola. Quindi la macchina era tornata in vendita nella concessionaria palermitana. Il padre di Luciano, Gaetano Toma, che lavorava all’ufficio vendite, l’aveva notata, forse con un occhio da esperto ma, forse ancor più, attratto dal colore.
Che fosse l’ultima 500 uscita dallo stabilimento Luciano l’ha scoperto quasi per caso, per una piccola scritta sul cruscotto, coperta dal colore, poco visibile e che nessuno aveva notato dopo l’acquisto. «Nel 1977, mentre viaggiavo con mio padre – racconta Luciano Toma – gli avevo fatto presente che sul cruscotto c’erano dei taglietti come se fosse rovinato, ma in controluce si leggeva la scritta «Ultimo esemplare prodotto negli stabilimenti di Termini Imerese». Una seconda punzonatura sul copri ruota del bagagliaio, uguale alla prima, l’ha notata invece il carrozziere durante la riverniciatura nel 1985». E aggiunge: «Una decina di anni fa consultando un forum di auto storiche attraverso il numero del telaio ci siamo accorti che effettivamente era proprio quella che per ultima aveva lasciato lo stabilimento di Termini Imerese. La conferma ci è stata data dalla stessa Fca che ha autenticato la vettura».

Cinquant’anni portati splendidamente per una piccola Fiat 500 R che è entrata di diritto nella storia dell’automobilismo italiano: ultimo di 5.231518 esemplari prodotti in Italia dalla casa torinese. Una utilitaria davvero particolare: con motore 126 e cambio sincronizzato, sedili ribaltabili, accessori e bloccasterzo in basso a sinistra, le punzonature, serratura cofano motore tipo 126 pentagonale e non a maniglia».

La storica autovettura nel corso degli anni ha ricevuto numerosi premi, fino al 2022 quando è stata eletta Auto Classica dell’anno.

Il prossimo anno l’originale esemplare tornerà nella sua terra natia: «Con la vettura scenderemo in Sicilia – afferma ancora Luciano – riportandola alle origini e in visione al museo della 500 dei Nebrodi.

Montemaggiore Belsito ricorda mons. Raffaele Arrigo: educatore che dedicò la vita al servizio della comunità

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Montemaggiore Belsito, un piccolo paese dell’entroterra siciliano, deve molto al carisma e all’intraprendenza di monsignor Raffaele Arrigo, sacerdote, educatore e visionario, che dedicò tutta la sua vita al servizio della comunità e che la parrocchia festeggia proprio in questi giorni. Nato il 21 dicembre 1873 da una famiglia di artigiani, mons. Arrigo manifestò fin da bambino una vocazione profonda per il sacerdozio. Ordinato il 13 giugno 1897, dopo una brillante formazione culminata nella laurea in Teologia conseguita a Roma nel 1901, scelse di tornare nel suo paese natale, rinunciando a una promettente carriera ecclesiastica nella capitale.
Al suo ritorno a Montemaggiore, mons. Arrigo si distinse subito per il suo zelo pastorale. Si dedicò alla formazione dei giovani con corsi di preparazione alla Prima Comunione, fondò la Congregazione Mariana e quella dei Luigini, oltre alla Congregazione delle Madri Cristiane. Fu un innovatore e un promotore instancabile: nel 1908 creò il circolo femminile dell’Azione Cattolica, seguito nel 1909 da quello maschile.
Negli anni successivi, la sua missione lo condusse in vari luoghi, dove si distinse per il suo insegnamento di teologia nei seminari di Patti e Cefalù e per l’assunzione di incarichi di rilievo, tra cui quello di precettore del giovane figlio, affettuosamente chiamato “Bebè”, del Principe di Baucina a Malta. Il suo spirito profetico lo portò anche oltre i confini nazionali, come durante un periodo di intensa riflessione nel deserto del Sahara. L’8 giugno 1913 mons. Arrigo divenne parroco di Montemaggiore Belsito. Fu una guida coraggiosa e decisa, capace di coniugare fede, cultura e amore per la sua terra. Lavorò instancabilmente per il restauro delle chiese e della basilica locale, che dotò di illuminazione elettrica e di una nuova cupola. Ma il suo impegno non si limitava al piano spirituale: promosse il progresso economico e civile, come l’arrivo delle prime automobili e l’adesione al consorzio idrico di Montescuro, migliorando la vita quotidiana della sua comunità.
Mons. Arrigo aveva una visione chiara: creare un luogo sicuro dove i giovani potessero crescere, formarsi ed evitare i pericoli della strada. La sua idea prese forma nel progetto dell’Istituto Santa Lucia Filippini, destinato a essere un faro per l’educazione cristiana e umana. Per raccogliere i fondi necessari, nel 1926 si recò negli Stati Uniti, dove la comunità montemaggiorese emigrata rispose generosamente al suo appello.
Nonostante le calunnie e gli ostacoli, mons. Arrigo non si arrese mai. Affidò l’istituto alle Suore di Santa Lucia Filippini, la cui missione educativa era in sintonia con la sua visione. Poco prima della sua morte, il 18 novembre 1945, vide finalmente realizzato il suo sogno: un luogo aperto ai giovani, simbolo del suo amore per le nuove generazioni.
Monsignor Raffaele Arrigo ha lasciato un segno indelebile nella storia di Montemaggiore Belsito. Fondò la Società Automobilistica Montemaggiorese favorendo la mobilità locale (prima che il servizio di auto trasporti fosse gestito dall’attuale ditta Macaluso). E pubblicò opere come “Venator Animarum” (Tipografia S. Davite – Firenze, 1932), biografia del Venerabile Mercurio Maria Teresa, tuttora apprezzata. Ricordiamo “L’intimità con Gesù: indirizzo ascetico per seminaristi” (Editrice Ancora – Milano, 1942). Oltre al suo impegno concreto, mons. Arrigo incarnò una fede profonda e una capacità profetica che gli permisero di anticipare i bisogni della sua gente.
Oggi, le sue spoglie riposano nella cappella dell’Istituto Santa Lucia Filippini, circondato dai bambini che erano la “pupilla dei suoi occhi”. La sua memoria continua a ispirare, ricordandoci che il servizio agli altri è la più alta forma di amore. A lui è intitolato l’Istituto Comprensivo Raffaele Arrigo, che comprende le scuole elementari e medie.
Santi Licata

“L’architettura al servizio dello spazio umano”: a Bagheria dialogo con Cesare Capitti, autore di saggi di antropologia urbana

Si terrà venerdì 29 novembre 2024 alle ore10,00 presso la “Sala Borremans” di Palazzo Butera a Bagheria l’incontro dibattito dal titolo: “L’architettura al servizio dello spazio urbano e umano”: dialogo con l’arch. Cesare Capitti (nella foto), autore di saggi di antropologia urbana. Dopo i saluti di Filippo Maria Tripoli, Sindaco di Bagheria, di Antonella Insinga, Assessore comunale alla Pubblica istruzione, di Maria Giammarresi, Presidente BCsicilia di Bagheria, e di Maurizio Lo Galbo, Capo Segreteria Sindaco Città Metropolitana di Palermo, sono previsti gli interventi di Lina Bellanca, già Soprintendente ai BB.CC.AA. di Palermo, di Marcello Panzarella, Ordinario di composizione architettonica e urbana UNIPA, di Ferdinando Trapani, Associato di urbanistica e pianificazione territoriale UNIPA, e di Giuseppe Zanniello, Professore emerito di Didattica e Pedagogia UNIPA, Coordinerà i lavori Alfonso Lo Cascio, Presidente regionale BCsicilia. Agli architetti verranno riconosciuti 3 Crediti formativi. L’incontro è organizzato da BCsicilia, Ordine degli architetti, Università di Palermo, con il patrocinio del Comune e della Città metropolitana di Palermo, del Comune di Bagheria e dell’Assessorato Regionale BB.CC.AA. e I.S.

Cesare Capitti (1951) architetto, già Dirigente Capo Servizio del Dipartimento Urbanistica dell’Assessorato regionale del Territorio Ambiente della Regione Siciliana, attualmente svolge  attività di Cultore del Settore ICAR 21 Urbanistica, presso il Dipartimento di Progetto e Costruzione Edile della Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Palermo. Già componente del Consiglio Regionale dell’Urbanistica (CRU), della Commissione per il risanamento delle zone “A” e “B1” del P.R.G. del Comune di Ragusa (Commissione edilizia Ragusa Ibla). Esperto in restauro e recupero di Centri Storici; ha partecipato nella qualità di rappresentante del Dipartimento Urbanistica nella commissione speciale per il paesaggio istituita ai sensi dell’art. 148 del codice dei Beni Culturali e Ambientali (Osservatorio, Piani Paesistici). Ha svolto attività di docenza presso la facoltà di Architettura e di Ingegneria dell’università degli Studi di Palermo. Autore di saggi di architettura e urbanistica.

Nella sede del Parco delle Madonie il concerto “Musica e impegno per le Donne”

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Nell’ambito delle manifestazioni promosse per celebrare i 35 anni della istituzione dell’Ente Parco delle Madonie, a Petralia Sottana presso Palazzo Pucci Martinez sede dell’Ente Parco si è tenuto il concerto “Musica e impegno per le Donne”, Concerto per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che ricorre oggi 25 novembre, iniziativa promossa a Petralia da Fidapa Petralie Madonie ed Auser Petralia Sottana. Un concerto lirico dedicato alle donne con i brani di Alessandro Valenza al pianoforte, tenore Domenico Gheggi, soprano Elisabetta Giammanco.
L’evento ha visto la partecipazione degli allievi della Ib dell’Itc di Petralia Soprana diretti dalla prof. Marisa Sabatino, con un intermezzo  al piano di Iris Gennaro.
“Con grande piacere l’Ente Parco ha acconsentito all’allestimento dell’evento nel salone storico del Palazzo, rispondendo all’invito formulato dalle donne di Fidapa ed Auser”, afferma il Commissario dell’Ente Salvatore Caltagirone.
“Lo stesso Ente Parco non sarebbe lo stesso, senza il proficuo apporto collaborativo delle decine di rappresentanti del gentil sesso che vi lavorano. Un grazie a tutte loro, e che la bellezza della natura inviti a riflettere anche sulla bellezza della Donna, bene prezioso che va trattato sempre con rispetto ed amore”.

Caccamo, passeggiata in rosa per dire NO alla violenza sulle donne

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In occasione della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, il Comune di Caccamo, in collaborazione con la FIDAPA – BPW Italy, ha organizzato un evento molto significativo: la Passeggiata in Rosa. Questa iniziativa ha coinvolto studenti delle scuole primarie, secondarie di primo e secondo grado, unendo la comunità per ribadire un forte “NO” alla violenza di genere e promuovere il rispetto.

Il ritrovo è stato fissato alle 11 in Piazza San Domenico, da cui ha preso il via la passeggiata lungo Corso Umberto I. Una tappa particolarmente significativa sarà presso il campo sportivo, nell’area dedicata a Roberta.

Roberta, che aveva appena iniziato a costruire i suoi sogni e le sue speranze, è diventata, suo malgrado, un simbolo doloroso ma potente della lotta contro la violenza sulle donne. Ogni anno, la sua memoria è custodita dalla comunità, che oggi più che mai, la ricorda con amore, tenerezza e determinazione.

La sua luce continua a brillare nei cuori di chi lotta per un futuro in cui ogni donna possa sentirsi al sicuro e rispettata.

La manifestazione è  culminata nella struttura sportiva ASD San Giorgio, dove si è stato previsto un gesto simbolico: un “calcio di rigore” contro la violenza sulle donne, un messaggio forte e chiaro a sostegno delle vittime.

L’evento ha visto la partecipazione delle autorità locali, tra cui il sindaco Franco Fiore, la presidente FIDAPA Ina Celano, l’assessore alla cultura Patrizia Graziano, la dirigente scolastica Marilena Anello e Iana Brancato, madre di Roberta, la cui presenza ha offerto un significato ancora più profondo all’evento. Tutti uniti per sottolineare l’importanza della prevenzione e dell’educazione nel contrasto alla violenza di genere.

Con questa iniziativa, Caccamo dimostra come la lotta contro la violenza sulle donne sia una battaglia collettiva, che richiede la partecipazione di tutti. Non si tratta solo di sensibilizzare, ma di costruire insieme una comunità più solidale e consapevole, capace di dire “basta” a ogni forma di abuso e discriminazione: un passo alla volta, verso un futuro senza violenza.

Salvina Cimino

Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne: Cerda si sveglia con un cuore di scarpette rosse

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Piazza La Mantia a Cerda si trasforma oggi in un simbolo di denuncia e speranza con l’installazione di un cuore composto da decine di scarpette rosse, emblema universale della lotta contro la violenza sulle donne. L’opera è stata realizzata dall’associazione di promozione culturale Fables, in collaborazione con Fuoriclasse APS e Unipromos e con il patrocinio gratuito del Comune.

Accanto al cuore, piccoli pannelli appesi riportano testi poetici dedicati alle donne, offrendo a chi transita nella piazza la possibilità di fermarsi, leggere e riflettere sul significato profondo dell’iniziativa. Un messaggio chiaro e universale.

L’installazione giunge alla sua terza edizione. “Questo cuore rappresenta non solo la sofferenza, ma soprattutto la forza e la speranza. L’amore non può essere sinonimo di sopraffazione o abuso, ma di rispetto, ascolto e dignità,” ha spiegato Cruciano Runfola, presidente di Fables. “Attraverso l’arte e la poesia vogliamo creare un momento di consapevolezza collettiva, un’occasione per riflettere su una tragedia sociale che riguarda tutti noi. Ogni scarpetta, ogni parola è un invito a non voltarsi dall’altra parte”.

Un progetto condiviso per la comunità.

La collaborazione tra associazioni e istituzioni è stata fondamentale per la realizzazione di questa iniziativa, che unisce sensibilizzazione sociale e arte. Il cuore di scarpette rosse si propone non solo come un monito contro la violenza di genere, ma anche come uno spazio di dialogo silenzioso e partecipativo, dove l’arte diventa veicolo di un messaggio universale.

I pannelli poetici affiancati all’installazione completano il percorso emotivo e riflessivo: parole che non si limitano a raccontare il dolore, ma si fanno portatrici di resistenza e rinascita.

Cerda, con questa iniziativa, si unisce simbolicamente alle tante realtà che oggi, nel mondo, scelgono di ricordare le vittime della violenza di genere e di riaffermare il valore imprescindibile della dignità e del rispetto per ogni donna.

Salvina Cimino

Culture e follia: i modi sociali di impazzire

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La contrapposizione tra natura e cultura è stata uno dei temi centrali della riflessione filosofica occidentale moderna, specialmente nel campo delle scienze umane e in particolar modo di quelle psicologiche. I termini del dibattito potrebbero essere comodamente riassunti dalla domanda: cosa, nella struttura psicologica normale, e nelle sue espressioni patologiche, è dovuto alla natura, a fattori biologici, e cosa invece è dovuto alle influenze dell’ambiente, della società, in breve della cultura?

A occuparsi di questo complesso problema troviamo impegnati alcuni tra i più grandi pensatori occidentali; da Voltaire, che sosteneva che nel selvaggio era ravvisabile la natura nella sua espressione migliore, poi contaminata dalla cultura, a Freud, per il quale, al contrario, ogni individuo, indipendentemente dalla propria cultura, aveva un proprio “bagaglio” istintuale, e quindi biologico, che ne condiziona la struttura psichica, sia nelle sue forme normali che in quelle patologiche.

Uno dei campi nei quali la battaglia tra queste due correnti è stata più forte è stato proprio la psicopatologia. La malattia mentale, cioè, dipende dall’individuo o dall’ambiente? E, comunque, in che misura dall’uno o dall’altro fattore?

Una delle aree di studi da questo punto di vista più affascinante è senz’altro quella della psicosi, la follia comunemente intesa. E il suo fascino consiste nel fatto di fornire le coordinate di un universo ancora sconosciuto: quello del concetto di normalità.

Ogni cultura crea e stabilisce dei modelli che le sono propri per identificare cosa sia normale e cosa non lo sia. I modelli dipendono da una serie di fattori, storici e sociali, ma, quando sono fondati, essi divengono una norma inalterabile. Per cui ci sono anche modi “corretti” per comportarsi da folli.

Normalità e convenzione

Questo non vale solo per il comportamento sociale o per gli insegnamenti etici, bensì anche per la distinzione di ciò che è normale da ciò che non lo è. In campo psichiatrico questo si è sempre verificato; in ogni epoca storica, a ben pensarci, sono stati imposti tre tipi di modello: il primo riguardante ciò che può essere definito salute, il secondo ciò che deve essere definito malattia, il terzo che regola le modalità in cui l’anormalità deve essere espressa. In altri termini, è stato sempre sancito ciò che è normale, ciò che è anormale e ciò che è deviante o patologico.

Gli esempi potrebbero essere moltissimi. Nell’Ottocento la masturbazione era colpevolizzata e curata, così come venivano proposte teorie per la cura dell’omosessualità (che solo nel 1990 è stata depennata dall’elenco delle malattie mentali considerate tali dall’Organizzazione Mondiale della Sanità). Nel Medioevo le isteriche dovevano essere per forza delle streghe, mentre agli inizi del ‘900 si erano trasformate in donne sessualmente insoddisfatte, e magari con l’invidia del pene.

Georges Devereaux, che a questo problema ha dedicato una serie illuminante di studi etnopsichiatrici, dice: «Al tempo di Charcot, si faceva correntemente la diagnosi di isteria giacché tale era la nevrosi etnica tipica dell’epoca, la nevrosi alla moda cioè il modo “conveniente” di essere anormale. Ora, siccome le persone disturbate hanno la tendenza a manifestare i loro conflitti interni nelle forme prescritte dalla società, la maggioranza dei nevrotici all’epoca di Charcot si comportava istericamente, mentre oggigiorno è corrente vedere nevrotici leggeri comportarsi intermittentemente come schizofrenici, o come personalità schizoidi».

Insomma, la cultura sancisce anche le modalità espressive di un disturbo, secondo “regole” ben precise rigorosamente codificate. L’esempio più eclatante è proprio quello della “follia”. Il problema non è solo quello di stabilire cosa sia la follia, ma “come” un folle debba comportarsi.

Per la nostra cultura la follia ha espressioni stereotipate: il folle è uno che sragiona, che è irrazionale, che ha atteggiamenti tra il ridicolo e il grottesco. Naturalmente a tutte queste caratteristiche corrispondono dei “segni” precisi che sono stati codificati dalla psichiatria occidentale.

Il matto deve comportarsi così per poter essere definito tale, e nel contempo chi si comporta in questo modo non può che essere definito folle. «L’individuo colpito da disturbi psichici tende a conformarsi strettamente alle norme del comportamento “appropriato al pazzo” vigenti nella società in cui vive», scrive Deveraux.

Così, nella società occidentale, il matto ha un comportamento tipico. Non così in altre culture, dove esistono tutta una serie di espressioni della “pazzia”: i disturbi etnici, ovvero le espressioni “socialmente consentite” del disagio psichico. Ciascuna area culturale e forse ciascuna cultura, possiede almeno uno e spesso molti disturbi caratteristici di questo genere.

Ma cosa sono i “disturbi etnici”? Si tratta di manifestazioni sicuramente psicopatologiche, modalità di comportamento anormali, con connotazioni culturali specifiche, sancite cioè, dalla propria cultura di appartenenza. Dal punto di vista della psichiatria occidentale, e anche dell’uomo medio, si tratta di forme di follia; dal punto di vista delle culture nelle quali tali disturbi sono diffusi, si tratta di qualcosa d’altro, per indicare le quali il termine “follia” è sicuramente il meno appropriato. Potrebbero essere definiti i modi “corretti” di comportarsi da folli.

Licenza di uccidere e impazzire

Nell’arcipelago malese, un particolare tipo di disturbo psichiatrico è ciò che gli etnopsichiatri definiscono la corsa dell’amok. Ovviamente non si tratta di una competizione sportiva. Di fronte a gravi problemi che appaiono irrisolvibili, il giovane malese ha una sola possibilità fornitagli dalla cultura. E cioè iniziare una corsa, reale, non metaforica, disperata, armato di un kris (il micidiale coltello serpentino), durante la quale è “costretto” a uccidere tutti coloro che incontra, sino a quando non sarà egli stesso ucciso.

La costrizione è naturalmente intrapsichica, ma anche etnico-sociale: è quello l’unico modo in cui di fronte a certe difficoltà esistenziali è lecito impazzire. La cultura malese non conosce altri modi accettabili, e il corridore di amok sa perfettamente che la ‘crisi’ sarà l’unica soluzione possibile per dimostrare che è andato fuori di senno.

Ovviamente, per questo come per altri disturbi psichiatrici, si tratta di una risposta che determinate personalità con struttura patologica, forniscono in specifiche situazioni esistenziali in base a un modello culturale. Insomma, non tutti i giovani malesi in crisi si mettono a correre l’amok così come non tutti i giovani occidentali in crisi diventano schizofrenici…

La corsa dell’amok era un fenomeno tanto diffuso da avere influenzato in diversi modi la stessa cultura. Nella sua crisi il “folle” uccideva chiunque gli si parasse davanti, e tanta era la furia del suo accesso di follia che, quando era colpito da una lancia, si portava in avanti, lasciandosi trapassare da parte a parte, pur di avvicinarsi abbastanza al suo avversario e ucciderlo a sua volta. I malesi avevano allora inventato delle speciali lance munite di due ferri che si incrociavano a angolo acuto per impedire al corridore di amok colpito di avvicinarsi troppo all’avversario.

La corsa folle dell’amok era diffusa anche presso i Moro, una popolazione delle Filippine, dove comunque era nota col nome di juramentado. L’individuo che sentiva di dovere “impazzire” chiedeva il permesso ai genitori, si faceva stringere in un corsetto e adoperava tutti i mezzi disponibili per scatenare una crisi. Il juramentado coperto dal robusto corpetto antiproiettile, riusciva a continuare la sua corsa anche se colpito da un proiettile calibro 38, quello delle pistole in dotazione ai militari americani di stanza nelle Filippine.

Si racconta che sia stato per questo motivo che i militari americani abbiano sostituito quel tipo di arma con la più potente calibro 45, che atterra l’uomo colpito anche se lo ferisce in modo lieve.

I malesi sapevano perfettamente cosa significasse la corsa dell’amok. Il loro grido “amok, amok” equivaleva a un segnale di pericolo, più o meno come la sirena del mondo occidentale. Il corridore di amok cerca la morte gloriosa nella sua follia, l’unica che gli sia concessa dalla sua cultura.

La crisi di amok può scaturire da tutta una serie di condizioni: da un delirio febbrile, dalla ripetizione di un insulto, dalla sottomissione agli ordini severi di un superiore nella scala gerarchica, da una depressione reattiva e persino dal fascino esercitato dal kris in una sorta di rituale autoipnotico che anticipa la crisi di amok.

Perché allora reagisce in questo modo anche a stimoli apparentemente poco importanti, o perlomeno reagisce “in questo modo”? la risposta sta proprio nel carattere della sua cultura. È il carattere etnico, secondo Deveraux, che decide quale debba essere la reazione individuale a un trauma. Proprio come le donne isteriche all’epoca di Charcot.

E, nel caso del corridore di amok o del juramentado, questo sembra dimostrato da un particolare storico. Il modo “classico” per mettere fine a una crisi di amok, nella cultura malese, era quello di uccidere il corridore. La crisi era infatti fondata sul desiderio di una morte gloriosa. Gli olandesi, nel tentativo di porre un freno a queste manifestazioni, utilizzarono invece uno stratagemma: rifiutarono al corridore di amok la morte gloriosa che questi cercava. Quando catturavano i corridori di amok, li condannavano ai lavori forzati. Sembra che questo stratagemma abbia diminuito notevolmente la frequenza della crisi.

Etnostorie di ordinaria follia

La corsa dell’amok non è solo manifestazione di quel gruppo di disturbi etnici che la scuola psichiatrica francese definisce reazioni aggressive cerimonializzate. Un’altra forma, assai antica, è quella del bersek, diffusa tra le popolazioni Vichinghe. Essa consisteva in una crisi improvvisa di frenesia guerriera, che rendeva il berseker un guerriero dalla temibile furia. D’altra parte manifestazioni simili all’amok o al bersek degli antichi scandinavi sono state osservate e descritte anche nei popoli fuegini.

Presso i Crow esisteva qualcosa di simile, la “sindrome del Cane-pazzo-che vuole-morire”. In quella cultura, di fronte a una grande delusione o comunque un grosso trauma psichico, l’individuo poteva reagire solo in questo modo, con questa specifica forma di follia. Diventava, cioè, un Cane-pazzo-che-vuole-morire, un guerriero dal coraggio temerario che si recava in battaglia soltanto con uno scudiscio e un sonaglio, alla ricerca di una morte gloriosa. Nello stesso tempo egli diventava pericoloso per la sua comunità, a causa del suo comportamento irrazionale e aggressivo.

Si tratta di una “psicosi etnica” che, in questo caso, era da un lato codificata dalla cultura (era l’unico modo di diventare pazzo in maniera rispettabile), dall’altro era controllata dalla stessa. E, naturalmente, era pienamente accettata. La cultura Crow riservava uno spazio preciso, nel suo dispositivo militare, al Cane-pazzo, sebbene questo non fosse di alcuna utilità tattica o strategica, ma anzi, data la sua irrazionalità, potesse addirittura danneggiare il dispositivo bellico.

Naturalmente, per diventare un Cane-pazzo-che-vuole-morire, occorreva rispettare certe regole, quelle mediante le quali la cultura Crow stabiliva quali traumi psichici fossero degni di indurre la follia. Lo stress, in altri termini poteva ricevere una risposta “irrazionale”, ma andava vissuto in maniera convenzionale. Solo se la “delusione insopportabile” del Crow rientra nello schema convenzionale conveniente, il guerriero Crow può diventare un Cane-pazzo-che-vuole-morire. La delusione, il trauma o la frustrazione “insopportabile” per quella cultura.

Solo in questo caso il Cane-pazzo si comporta conformemente ai modelli sociali della sua gente, e viene rispettato per questo. Altrimenti, se mancano tali condizioni, il Crow diviene pazzo in un modo qualsiasi, non convenzionale, e quindi non riconosciuto.

Se per esempio un uomo della tribù doveva “semplicemente” rinunciare alla propria moglie, pur essendo un trauma che, da una prospettiva occidentale, poteva condurre a un comportamento “folle”, non si trattava, per i Crow, di un trauma tale da poter giustificare un comportamento da Cane-pazzo. In questo caso, il Crow sarebbe stato disprezzato dal suo popolo, perché era impazzito per motivi che non rientravano nella giusta categoria. Infatti la sua cultura si aspetta che un uomo che deve rinunciare alla propria moglie, per quanto possa amarla, reagisca con flemma. Era riconosciuto, invece, ad esempio, il trauma psichico dovuto alla frustrazione dell’ambizione di diventare capo.

La crisi poteva essere momentanea. Se, prima che le foglie ingiallissero, Cane-pazzo non trovava la morte sul campo di battaglia, il suo comportamento poteva cessare. Nello stesso tempo, la sua cultura  aveva dei modi specifici di controllare questa forma di psicosi: il comportamento del Cane-pazzo era sostanzialmente irrazionale, negativistico. Per controllarlo, bastava allora che gli dicesse di fare esattamente il contrario di quanto si voleva che facesse.

Un altro esempio eclatante di psicosi etnica è senza dubbio il windigo, rivelato nelle tribù indiane canadesi degli Algonkini e tra gli esquimesi. Si tratta di una particolare forma di disturbo mentale, nella quale a una forma grave di anoressia e nausea, si associa un desiderio irrefrenabile di mangiare carne umana, che talvolta conduce a veri e propri episodi di cannibalismo. Talora i soggetti colpiti provano tale orrore del loro stesso desiderio da chiedere di essere uccisi. Questa manifestazione psicotica è basata sulla convinzione che il malato sia posseduto dallo spirito di un cannibale gigante.

Impazzire secondo cultura

Qual è il significato di queste manifestazioni psicopatologiche esotiche? Cosa dimostrano, e cosa suggeriscono al medico e alla psichiatria occidentale?

Una delle caratteristiche salienti della psichiatria occidentale moderna è stata la “standardizzazione nosografica” dei disturbi psichiatrici. Le malattie mentali, cioè, sono state considerate come malattie biologiche, e classificate con criteri farmacologici e naturalistici. Questo, da un punto di vista scientifico, è sicuramente esatto, ma non deve rappresentare l’unico parametro di valutazione. Esiste infatti, parallelamente a questo criterio, un criterio “culturale” che è di importanza fondamentale nelle psichiatrie tradizionali. E l’importanza obiettiva di questo criterio è dimostrata proprio dai disturbi etnici.

Certamente non si tratta di forme di malattia psichiatrica tipiche dell’Occidente. Anzi, sarebbe impensabile che simili manifestazioni psicotiche avessero un senso nel mondo occidentale, e questo non perché episodi simili alla corsa dell’amok o al Cane-pazzo-che-vuole-morire non si siano mai verificati. È a tutti noto come di tanto in tanto si verifichino esplosioni di follia omicida, e non nelle giungle malesi, ma nelle moderne metropoli. Ma si tratta di qualcosa di diverso. Il malese o il Crow o l’algonkino, sono infatti, con le loro manifestazioni psicotiche, perfettamente coerenti con la loro cultura. Anzi, in qualche modo ne sono vittime: è infatti la tradizione culturale, l’anima etnica del loro popolo che emerge in queste manifestazioni, cancellando o annullando le loro personalità individuali.

È come dire: ciascuno impazzisce secondo la propria cultura. Le donne di Charcot, il guerriero Crow che non può diventare un capo, o il malese che ha subìto un trauma psichico, si limitano a “impazzire” secondo i modelli della loro cultura.

Ma è proprio questa semplice considerazione che deve indurre a una riflessione sul significato sociale della normalità e della follia. In ogni società esiste un concetto statistico di norma, e di questo ci accorgiamo facilmente. Ma ogni società racchiude in sé, anche in senso storico, una serie di norme per impazzire in maniera socialmente accettabile. Anche se potrà sembrare semplicistico, potremmo affermare che il tessuto sociale stabilisce non solo per “cosa” è lecito impazzire, ma anche in che modo ciò possa avvenire.

Allo stesso tempo, ogni società ha in sé modalità di controllo e di cura, che si rifanno al modello culturale adottato dal paziente, e “appreso” dalla società. Le implicazioni per la terapia e la comprensione della malattia mentale sono evidenti. Sebbene con ciò il dibattito natura-cultura non possa certamente ritenersi chiuso, è evidente che di questo tutte le scienze mentali occidentali moderne, così come già avviene nei sistemi psichiatrici tradizionali, devono tener conto.

Giovanni Iannuzzo

Petralia Soprana celebra i 400 anni di Frate Umile

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A Petralia Soprana si celebrano i 400 anni dall’inizio dell’attività artistica di Frate Umile da Petralia, un grande scultore che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’arte e di Petralia Soprana. La sua opera, caratterizzata da una profonda spiritualità e da un’eccezionale attenzione ai dettagli, continua a ispirare e a incantare generazioni di artisti e amanti dell’arte.

L’evento speciale, che si terrà sabato 30 novembre e domenica 1° dicembre, viene annunciato dall’amministrazione comunale guidata da Pietro Macaluso.

“L’anniversario di quest’anno – afferma il sindaco Macaluso – non è solo un momento di celebrazione, ma anche un’opportunità per riflettere sull’eredità culturale che Frate Umile ha lasciato. Le sue opere, caratterizzate da una profonda spiritualità e da un’eccezionale maestria tecnica, continuano a parlare al cuore delle persone, ispirandole a cercare bellezza e significato nella vita”.

Frate Umile, il cui nome completo è Francesco Maria Pintorno, nato nel 1601 e morto nel 1639, si formò in un periodo di grande fermento culturale e artistico. All’interno dei francescani, il suo talento si sviluppò in un contesto in cui la devozione religiosa si fondeva con l’arte, permettendogli di esprimere la sua visione attraverso opere che trasmettono emozione e intensità spirituale.

In occasione di questo significativo anniversario, Petralia Soprana si prepara a festeggiare con una serie di eventi che includono l’inaugurazione della Via dei Crocifissi e una mostra fotografica che raccoglierà le immagini di tutte le opere presenti in Sicilia, offrendo al pubblico l’opportunità di riscoprire il genio di questo artista attraverso la sua produzione. Gli scatti della mostra, che sarà allestita nel Palazzo Pottino, sono tutti del fotografo Damiano Macaluso e rappresentano le opere nella sua interezza e anche i dettagli.

Sabato pomeriggio nella Chiesa Madre saranno analizzati vari aspetti della vita artistica di Frate Umile con la conferenza del prof. Giuseppe Fazio, storico dell’arte. Previsto anche l’intervento del Vescovo di Cefalù mons. Giuseppe Marciante, dell’on. Antonello Cracolici, Presidente della Commissione Antimafia Regionale, e di altre autorità.

Domenica continueranno i momenti di intrattenimento e di approfondimento sull’artista a cura dello scultore Vincenzo Gennaro e del restauratore Roberto Raineri.

In entrambi i giorni sarà possibile ammirare, attraverso un itinerario storico-culturale alcune opere di Frate Umile che saranno esposte in varie chiese ed in particolare, oltre al crocifisso di Petralia Soprana custodito nella Chiesa Madre Santi Apostoli Pietro e Paolo, la statua di San Calogero di Petralia Sottana, il crocifisso di Caltavuturo e quello di Collesano.

Il programma

Sabato 30 novembre 2024

ore 9.30 – Accoglienza delle Autorità civili e religiose dei vari Comuni che custodiscono le opere di Frate Umile da Petralia.

La mattinata sarà animata dal Gruppo Folk “U Rafu”

Ore 15,30 – Via G. L. Sgadari

Inaugurazione della “Via dei Crocifissi”

Ore 16,00  – Palazzo Pottino

Inaugurazione Mostra Fotografica delle opere di Frate Umile

Ore 16,30 – Chiesa Madre

Saluti istituzionali

Interverranno:

Arciprete Don Calogero Falcone della Chiesa Santi Apostoli Pietro e Paolo

Sindaco Dott. Pietro Macaluso del Comune di Petralia Soprana

On. Antonello Cracolici Presidente della Commissione Antimafia Regionale

Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Marciante, Vescovo di Cefalù.

Conferenza a cura del Prof. Giuseppe Fazio, storico dell’arte.

Ore 19,00 – Chiesa Madre

Concerto di Musica Sacra del Maestro Alessandro Valenza

a cura dell’Ensemble “Harmonia Mundi”

Domenica 1 dicembre 2024

Ore 10,00 – Chiesa Santa Maria di Loreto

Santa Messa

ore  11,30 – Chiesa Madre Santi Pietro e Paolo

Solenne Celebrazione Eucaristica

presieduta dall’Arciprete Don Calogero Falcone

con il Coro Polifonico “Petra Ensemble” diretto dall’ins. M. Cerami

con la presenza delle autorità civili, militari e religiose e la presenza delle confraternite religiose

La mattinata sarà allietata dal Complesso Bandistico “G. Verdi”

Ore 15.30 – Piazza Duomo

Esibizione dell’Associazione “Stendardieri Sopranesi”

Ore 16,30 – Chiesa Madre

Saluti istituzionali

Interverranno

Arciprete Don Calogero Falcone della Chiesa Santi Apostoli Pietro e Paolo

Sindaco Dott. Pietro Macaluso del Comune di Petralia Soprana

Momenti di approfondimento su Frate Umile da Petralia artista e il tempo in cui visse a cura del Maestro Vincenzo Gennaro e del Dott. Roberto Raineri, restauratore.

Sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre 2024

Itinerario storico-culturale alla scoperta delle opere di Frate Umile da Petralia Soprana:

–  Crocifisso custodito nella Chiesa Madre Santi Apostoli Pietro e Paolo

–  Statua di San Calogero di Petralia Sottana esposta nella Chiesa di Santa Maria di Loreto

–  Crocifisso di Caltavuturo esposto nella Chiesa SS. Salvatore

–  Crocifisso di Collesano esposto nella Chiesa San Teodoro

Sarà possibile visitare la Biblioteca Comunale intitolata “Frate Umile Pintorno” nei seguenti orari:

dalle ore 9,30 alle ore 12,30 e dalle ore 15,30 alle ore 19,00