L’attenzione della psichiatria e in genere delle scienze del comportamento per i fattori sociali è andata progressivamente accentuandosi nel corso della storia del pensiero occidentale, di pari passo col procedere delle conoscenze scientifiche sulla struttura e sul funzionamento della mente e delle conoscenze sui disturbi psichiatrici. Non è una novità la riflessione che in condizioni di disagio sociale anche le condizioni psichiche possano essere problematiche e non occorre nemmeno avere molta fantasia per capire che i problemi economici, la povertà, la mancanza di mezzi, il legame indissolubile con uno stato di povertà disperato, talvolta atavico e non modificabile, non sono sicuramente condizioni che possano incentivare il benessere psicologico.
Un attento e sensibile osservatore di queste problematiche fu, per esempio, lo spagnolo Juan Luis Vives, che prestò grande attenzione (per quanto i tempi glielo permettessero: nacque a Valencia nel 1492) a tutto ciò che afferiva al disagio sociale. Cattolico fervente, sinceramente religioso e di grande coerenza intellettuale Vives si occupò fondamentalmente di etica e di sociologia, e quindi si trovò a dover esaminare le brutture sociali dell’epoca. Scrive per esempio, in un’opera dall’emblematico titolo di De subvenzione pauperum della necessità che dei poveri e dei diseredati non si occupino i privati, attraverso le opere di beneficienza, ma lo stato che ha il preciso dovere di provvedere ai bisogni dei più bisognosi.
L’idea dunque che esista una qualche correlazione fra disagio mentale e disagio sociale non è sicuramente nuova. D’altra parte certe cose risultarono subito evidenti anche ai grandi clinici dell’Ottocento: la relazione tra condizioni sociali sfavorevoli e incidenza di disturbi psichici, e viceversa tra condizioni di salute mentale e buono stato sociale, era così evidente che non poteva non essere rilevata, sin dall’antichità. Ma, d’altra parte il predominio medico su quanto riguardava la salute mentale, poteva al massimo considerare la società come concausa, e mai come causa primaria, della presenza o dell’assenza di salute mentale.
D’altra parte, come si era andato via via scoprendo, l’alimentazione e una sana igiene di vita erano sicuramente fatti importanti per il mantenimento della salute di tutto l’organismo, cervello compreso. In quel modo può essere emblematica, a questo riguardo, la definizione di “esaurimento nervoso’, inventata dal medico americano John Brown, originario di Philadelphia, che per più di vent’anni insegnò fisiologia all’Università di Edimburgo. Brown aveva asserito nel 1780 che i disturbi mentali erano il prodotto di una eccessiva stimolazione del cervello che, essendo un tessuto particolarmente sensibile, poteva andare incontro ad irritazioni o ad ‘esaurimento’, dando luogo a stati astenici. E fu una teoria che avrebbe avuto grande credito, ispirando anche le definizioni ottocentesche di ‘neuroastenia’ del medico americano George Miller Beard o di ‘psicoastenia’ di Pierre Janet.
Ma i primi veri descrittori di forme di malattia mentale correlate a condizioni di abbrutimento sociale furono letterati e filosofi. Personaggi sordidi o sofferenti, abbrutiti dal vizio, affamati o criminali, fragili o mentecatti vengono fuori dai romanzi di Charles Dickens, di Eugene Sue, di Emile Zola, di Victor Hugo, non solo inventori di storie, ma anche fedeli fotografi di una situazione sociale realmente deteriorata, nella quale le sacche di emarginazione erano un dato sotto gli occhi di tutti. Nelle grandi metropoli le situazioni di degrado delle periferie erano spaventose. Lasciamole descrivere dalla penna di Charles Dickens: “Veniva poi una vasta estensione abitata – poiché gli umili seguaci dell’accampamento della ricchezza piantano per molte miglia all’ingiro le loro tende – ma il suo aspetto era il medesimo. Umili e fradice case, molte da appigionare, molte ancora in costruzione, molte semicostruite e crollanti – alloggi dove sarebbe stato difficile dire chi fra il padrone e il pigionale avesse maggior bisogno di compassione – fanciulli denutriti e seminudi, sparsi per ogni via e razzolanti nella polvere – madri che sgridavano la prole e minacciose pestavano sul marciapiede i piedi calzati di ciabatte – padri in abiti frusti, che s’affrettavano tristi alla fatica che dava loro il pane quotidiano e poco più – donne che tagliuzzavano qualche cosa, lavandaie, ciabattini, sarti, droghieri, che esercitavano il loro commercio nella stanza comune, in cucina, negli anditi e nelle soffitte, e a volte tutti ammucchiati sotto lo stesso tetto – fabbriche di mattoni sull’orlo di giardini attorniati da doghe di vecchie botti, o assi di edifici incendiati, annerite e con le bolle e le pustole delle fiamme – mucchi di erbacce, d’ortiche, di piante selvatiche e di gusti d’ostriche, disseminati nella più straordinaria confusione – piccole cappelle dissidenti per insegnare, con abbondanza d’illustrazioni, le miserie della terra, e molte chiese nuove, erette con un po’ di ricchezza superflua, per mostrare la via del cielo”.
Dickens pubblica il suo “The Old Curiosity Shop” nel 1841, evidenziando già un degrado che, vent’anni dopo, Hugo descriverà in modo ancora più duro. Si tratta del periodo storico, più o meno, che vede il consolidamento della borghesia, l’arricchimento di una parte della società, e l’impoverimento progressivo di una parte ben più grande. Impoverimento che portava inevitabilmente a comportamenti socialmente ‘patologici’, come la prostituzione, la delinquenza, l’alcolismo. La buona società borghese, ovviamente, invertiva il nesso di causa ed effetto: i delinquenti non erano diventati tali perché erano poveri, ma erano i poveri che diventavano delinquenti perchè classe quasi biologicamente inferiore, in quanto non possedevano il valore tutto borghese della parsimonia e del risparmio, e ovviamente del controllo degli istinti più bassi. D’altra parte, tra il 1850 e il 1873 si assistette anche ad un poderoso sviluppo industriale di tutta la società occidentale. Macchine a vapore, filaio e telai meccanici, consentivano ora una produttività decisamente maggiore, e la sostituzione del carbone di legna con quello minerale aveva ulteriormente incentivato la potenza dei mezzi di produzione, in quanto combustile più economico e più facilmente trasportabile. L’incremento delle attività industriali, imponeva grandi concentrazioni dei mezzi di produzione nelle zone urbane, che conobbero di conseguenza un enorme sviluppo, anche perché offrivano lavoro, per accettare il quale, la popolazione operaia doveva necessariamente spostarsi dalla campagna alla città. La Parigi di Victor Hugo, intorno al 1860 aveva superato ampiamente il milione di abitanti. Intorno al 1880 Londra, la nuova, grande capitale della Rivoluzione Industriale, aveva raggiunto i quattro milioni e mezzo di abitanti. Ma quello che era cambiato era anche l’assetto storico delle città: il centro storico in qualche modo diveniva il centro degli affari, costringendo la popolazione meno agiata a trasferirsi altrove, nelle ‘cinture operaie’, vaste megalopoli di periferia di nuova costruzione, o prodotto del progressivo accorpamento di villaggi e sobborghi, veri luoghi di abiezione sociale, dove le classi sociali più povere vivevano in condizioni inumane, senza igiene, senza servizi, in ambienti malsani, intorno a fabbriche che ammorbavano l’aria con le loro ciminiere che scaricavano il fumo della combustione del carbon coke che muoveva i preziosi ingranaggi delle macchine industriali. Le famiglie degli operai sono letteralmente ammassate in miserabili edifici, noti col nome di slums. Ma c’era anche un altro problema: quello dei ritmi di lavoro impossibili (sino a 14 ore al giorno).
Le condizioni abitative degli operai sono descritte in maniera efficacissima da L. Mumford, uno dei più grandi sociologi dell’inurbamento: “In Inghilterra, per cominciare, migliaia di queste nuove abitazioni operaie, in città come Birmingham e Bradford, erano costruite una addosso all’altra (ne esistono ancora molte). A ogni piano dunque, due stanze su quattro non ricevevano direttamente la luce del sole e non erano per niente ventilate. Non esistevano spazi aperti se non uno stretto corridoio tra il retro di una casa e quello della casa accanto. Mentre nel Cinquecento in molte città inglesi il gettare l’immondizia per strada era considerato un reato, in questi centri proto-industriali era questo il metodo abituale per sbarazzarsene. Essa poi rimaneva lì, per quanto sporca e ripugnante potesse essere, “finché l’accumulazione non induceva qualcuno a portarsela via come letame”, materia questa che certo non mancava negli affollati quartieri nuovi della città. Le latrine indescrivibilmente fetide, erano di solito in cantina, era anche usanza comune tenere porcili sotto le case e i maiali ripresero ad aggirarsi per le strade, come nelle grandi città non facevano più da secoli. C’era persino una spaventosa scarsità di gabinetti: in un quartiere di Manchester, nel 1843-44, ai bisogni di oltre settemila abitanti provvedevano complessivamente 33 cessi, cioè uno ogni 212 persone.
La forzata convivenza con topi e pidocchi era causa di epidemie di peste bubbonica e tifo petecchiale. L’umidità onnipresente, ed ideale per i batteri, rendevano facilissimi i contagi epidemici. Mancava persino l’acqua, e spesso i poveri erano costretti ad andarla a mendicare nei quartieri ‘bene’.
La morale borghese dell’epoca era profondamente permeata dalla filosofia positivista, fondata a sua volta sugli indiscutibili progressi delle scienze, in particolare fisiche e biologiche, avvenuti nella seconda metà dell’Ottocento. Propugnava quindi un grande ottimismo nella possibilità che le scienze avrebbero potuto non solo produrre una evoluzione positiva della società tutta, ma anche in qualche modo dirigerla e controllarla. Inoltre, la teoria dell’evoluzionismo di Charles Darwin consentiva ulteriori elaborazioni: così come avveniva in natura, anche nella società umana esistevano individui (e classi sociali) forti e ben adattate e individui (e classi sociali) deboli e maladattate. Era una legge naturale. Anzi, si poteva aggiungere che per una società migliore sarebbe stato indispensabile che le classi sociali meno adattate scomparissero (e non è affatto un caso che fu proprio quello che tentarono di fare, di lì a mezzo secolo, gli psichiatri nazisti). Bisognava lasciare svolgere alla natura la propria funzione, e agli scienziati il proprio lavoro, quello stesso lavoro che consentiva una conoscenza sempre più approfondita delle leggi di natura che, a loro volta, avrebbero consentito di orientare storia e sviluppi sociali. Era un paradigma semplice e diffuso, ma non senza critici, come il marxismo e i movimenti che lo precedettero o seguirono. Espressioni ormai celebri come quella del filosofo Feuerbach, che “l’uomo è ciò che mangia”, o che in un palazzo si pensa sempre meglio che in una capanna non facevano che riassumere evidenze poi di fronte agli occhi di tutti. I socialisti ‘utopisti’ furono i primi a lanciare grida d’allarme su una situazione di deterioramento sociale incredibilmente sottovalutata e che era più tollerabile. Ed insieme a loro, come abbiamo visto, scrittori e intellettuali denunziarono con tutta la forza della loro creatività, i guasti di un sistema sociale ingiusto ed inumano. Sulla scia, poi, del pensiero di Karl Marx e Friedrich Engels, il concetto di salute mentale individuale e di responsabilità sociale nel suo mantenimento divenne oggetto di una intensa politicizzazione. Negli anni ‘60 e soprattutto settanta del secolo scorso vi furono autori che identificarono il disagio sociale e le condizioni di alienazione delle classi subalterne come fattori di natura eziologica, assunto dal quale ovviamente derivava che l’unica terapia possibile per i disturbi psichici, e l’unica strategia per il mantenimento della salute mentale era la bonifica sociale. Pensatori come Marcuse, o Fromm, o Cooper o Laing asserirono spregiudicatamente che la salute mentale era salute sociale, in quanto disagio e malattia psichica esistevano anche come prodotto dell’alienazione delle classi sociali prodotta da un sistema economico brutale. Oggi non credo che la situazione sia migliore. Sono cambiati solo i tempi, le tecnologie, le strategie di sfruttamento del lavoro, che creano un disagio mentale strisciante, ancora più subdolo. Una delle più potenti terapie possibili sarebbe, ancora, pertanto, seguendo i pensatori che abbiamo citato, il cambiamento di questo sistema e della sua disumanità. Ma, l’attuazione di questa ‘rivoluzione’, non possiamo delegarla solo alle istituzioni: ciascuno di noi deve fare la sua piccola parte. L’oceano, in fondo, è fatto di piccole gocce…
Giovanni Iannuzzo