Sebbene il concetto di libertà sia uno dei più frequentemente usati nel linguaggio comune e sia presente nell’immaginario soggettivo e nella quotidianità è abbastanza difficile, ad una disamina più attenta, definirlo in modo preciso e non equivoco.
Nel mondo greco antico si potevano distinguere tre significati fondamentali della parola ἐλευθερία (eleutheria, libertà). Libero era in primo luogo chi nasceva da genitori non schiavi (come si legge in un frammento di Alceo). Libero era poi, in secondo luogo, chi non era asservito allo straniero. La parola eleutheria acquista un forte rilievo ai tempi delle guerre contro i Persiani, e nel V sec. viene dedicata alla libertà una festa, a Platea, in memoria, appunto, della vittoriosa battaglia contro i Persiani così come venne istituita a Siracusa per ricordare l’abbattimento del tiranno Trasibulo e la riconquista della libertà. Ed era questa è la terza accezione di eleutheria: erano liberi i cittadini che non si facevano dominare da un tiranno. Il concetto greco di libertà è pertanto molto pragmatico, ben poco astratto: non ha affatto un significato universale. Gli schiavi, gli uomini non liberi ne erano esclusi; ed anche nel suo significato politico (libertà dalla tirannia o dallo straniero) si riferiva essenzialmente a coloro che, nella città, liberi dalla tirannia o dallo straniero, godevano della cittadinanza pleno iure. Questo percorso caratterizzò anche il mondo romano e medioevale. Sino ad allora, la libertà non era mai concepita in senso universale, ma come libertà per così dire ‘di casta’, legata pertanto a diritti e privilegi che prescindevano dal concetto stesso di universalità. E’ con il filosofo John Locke che si impone il concetto moderno di libertà in senso universale.
Nel suo Secondo trattato sul governo (in originale: “Il secondo trattato sul governo. Saggio concernente la vera origine, l’estensione e il fine del governo civile” [del 1689, ma pubblicato nel 1690] Locke afferma che esistono dei diritti fondamentali e intangibili di tutti gli uomini: la vita, la libertà, la proprietà. Libertà significa libertà di pensiero, religiosa e politica, che deve essere garantita dalla società civile che, nata da un contratto, si dà un governo proprio per difendere e tutelare il diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà. Di fronte alla violazione, alla negazione di questi diritti, i sudditi possono e devono legittimamente opporsi e, in base al principio del “diritto di resistenza” rovesciare l’autorità che le nega. Nasce così la libertà liberale. Ma si dovrò aspettare il pensiero di Jean-Jacques Rousseau, nel suo “Contratto sociale” che si apre con l’emblematica frase “L’uomo è nato libero e ovunque si trova in catene”.
Secondo Rousseau, la libertà consiste nell’ubbidienza dei cittadini alle leggi che essi stessi si sono date (cittadini in senso generale, quale che sia la loro condizione sociale). Al contrario di Locke, Rousseau nega il principio di maggioranza nella deliberazione delle leggi: la maggioranza infatti, per essere legittima, deve essere virtuosa. Nel deliberare le leggi non vale, per Rousseau, semplicemente il principio di maggioranza (come avveniva in Locke), perché la maggioranza, per essere legittima, deve essere virtuosa e deve incarnare la “volontà generale”. Chi non ubbidisce alle leggi o le rifiuta, viola la “volontà generale” e quindi deve essere costretto, dalla sovranità popolare, al riconoscimento di quelle leggi, in qualche modo, pertanto, “costretto ad essere libero”. Siamo all’alba della rivoluzione francese. La concezione di libertà di Rousseau è politica e quindi coercitiva: il singolo si deve piegare alla volontà generale, di fronte alla quale ogni distinzione di partito o di gruppo politico deve piegarsi. Proprio durante la Rivoluzione francese questo principio fu la forza trainante del cambiamento epocale, anche se poi, magari frainteso, condusse, ai suoi estremi, ad abiezioni politiche come quella del ‘Terrore’ imposto da Robespierre. Ma il principio resta ed è inalienabile, se giustamente interpretato.
Benjamin Constant, controversa figura del periodo rivoluzionario francese, ampiamente vicino ad ambienti politici reazionari (fu confidente di Luigi XVI e amico di Madame De Stael),in un suo celebre saggio – prodotto di un suo discorso – La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819), critica Rousseau e afferma il limite della libertà antica, collettiva e non individuale. Sostiene, infatti, che l’esercizio collettivo e diretto della sovranità, implicava un totale asservimento dell’individuo alla collettività. “Tutte le azioni private – scrive – sono sottoposte a una sorveglianza severa. Niente è concesso all’indipendenza individuale, né per quanto riguarda le opinioni personali, né in materia di attività economica, né, soprattutto in materia di religione. La facoltà di scegliere il proprio culto, facoltà che noi consideriamo uno dei diritti più preziosi, sarebbe apparsa agli antichi un crimine e un privilegio. Anche nelle cose che a noi apparirebbero più futili, si intromette l’autorità del corpo sociale che trattiene la volontà individuale”. E, a partire da questo assioma, lancia un peana in difesa dei sistemi legislativi francese, inglese e soprattutto americano enfatizzando che, in tali nazioni, ogni cittadino ha “il diritto di non essere sottoposto che alle leggi, di non essere né arrestato, né tenuto in carcere, né condannato a morte, né maltrattato in alcun modo, a causa della volontà arbitraria di uno o più individui. È per ognuno il diritto di esprimere la propria opinione, di scegliere il proprio lavoro e di esercitarlo; di disporre della sua proprietà e perfino di abusarne; di andare e venire senza chiedere permessi, e senza render conto delle sue intenzioni o dei suoi passi. È per ognuno il diritto di unirsi con altri individui, sia per ragione dei propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare il tempo nel modo più conforme alle proprie inclinazioni e fantasie. E infine è il diritto, per ognuno, di esercitare la propria influenza sull’amministrazione del governo, sia concorrendo alla nomina di tutti o di alcuni dei funzionari, sia con rimostranze, petizioni, domande che l’autorità è in qualche modo obbligata a prendere in considerazione”.
Oggi le opinioni di Constant, potrebbero fare sorridere dal punto di vista storico e storiografico. Basti pensare che cita fra i suoi esempi, gli Stati Uniti d’America, patria dello schiavismo e in procinto di scatenare, nei confronta degli indigeni pellerossa uno dei più spaventosi genocidi della storia umana. Comunque sia, Constant sostiene fortemente i diritti individuali (chiaro il riferimento a Locke), sostanziando la libertà e il diritto di scegliere il proprio lavoro e di esercitarlo, di disporre della propria proprietà e perfino di abusarne, di andare e venire senza chiedere permessi e senza renderne conto a nessuno, purché non si violino le leggi.
Questa visione viene in qualche modo criticata da Alexis De Toqueville, che evidenzia i pericoli insiti nella democrazia, in quella che chiama “dittatura della maggioranza”, che assume un ruolo centrale nel sistema politico, nelle assemblee legislative, nei tribunali, nel potere esecutivo e, in una parola, nell’opinione pubblica. La maggioranza pertanto impone un potere che sembra somigliare alla tirannide, dove ogni forma di dissenso ed ogni forma di minoranza vengono inevitabilmente sottovalutati o misconosciti, non possono far valere le proprie ragioni e i propri diritti.
Tutte quelle abbiamo citato sono speculazioni sostanzialmente di filosofia politica. Chiediamoci ora come vanno le cose sul piano psicologico. Qual è cioè l’idea di libertà che guida il nostro agire quotidiano?
Sigmund Freud dedicò decine di pagine a questo concetto. Freud sostenne che nella società l’uomo tende sempre al principio del piacere, ma l’inseguimento del suo soddisfacimento, avrebbe portato ad una disgregazione della società, perché la società si basa sul rispetto delle regole, quindi sull’obbedienza, alle leggi, alle consuetudini, alla cultura. Senza quella, senza l’adesione a regole il mondo, la civiltà non potrebbe esistere perché ciascuno infrangerebbe, fors’anche senza rendersene coscientemente conto, le barriere dell’altrui libertà. Carl Gustav Jung approfondì il discorso sino alla formulazione del ‘principio di individuazione’, centrando cioè l’attenzione sulla crescita individuale, etica e psicologica, nel confronto costante con le parti oscure di noi stessi (la nostra ‘Ombra’) che porta al rispetto di regole etiche universali che debbono educare la nostra vita nel rispetto degli altri, sempre e comunque. Rispetto delle regole, dunque, come garanzia della libertà individuale e sociale. La convinzione di Freud era invece che il vivere in un mondo civilizzato implicasse necessariamente una repressione. Di che natura? Degli impulsi sessuali e aggressivi. La civiltà nasce quando l’uomo inizia a limitare l’espressione delle proprie pulsioni, sia in un’area sia nell’altra. Nel momento in cui mettiamo in atto un simile comportamento, parte delle nostre ‘pulsioni’, dei nostri istinti, insomma di quelle energie più o meno animalesche che ci indurrebbero al pieno soddisfacimento dei nostri piaceri, vengono ‘sublimate’, cioè trasformate in attività di tipo scientifico, letterario, poetico, tecnico o altro ancora. La civiltà è pertanto sostanzialmente repressiva, e la cosa ancora più importante è che deve esserla, altrimenti rischierebbe di scomparire. Civiltà, pertanto, è inevitabilmente sinonimo di repressione. La regola piacque a qualcuno, ma non a tutti, perché – obiettarono i dissidenti – il problema non era quello di definire se e quanto la società reprimesse, bensì quello di capire quali altri fattori, a parte quelli istintuali, fossero determinanti nella repressione nella vita degli individui. Visto che esistono condizioni obiettive di disagio sociale, di povertà, di difficoltà economiche, bisognerebbe capire anzitutto – e prima di qualunque interpretazione – quale sia la loro rilevanza quantitativa. Quando pesano insomma nell’influenzare la possibilità di sentirsi autenticamente liberi? Forse, parafrasando Feuerbach, potremmo semplicemente dire che disagio sociale e povertà sono la negazione della libertà…
Giovanni Iannuzzo