L’adolescenza è un argomento che è stato preso in considerazione solo abbastanza di recente dalla psichiatria e dalle scienze comunque ad essa affini. La psichiatria adolescenziale, infatti, è fenomeno del XX secolo, e che si caratterizza come area di studi sul disagio psichico per così dire intermedia: la psichiatria adolescenziale, infatti, non fa parte ne della psichiatria per gli adulti, ne della psichiatria infantile. Questo è avvenuto probabilmente perchè l’adolescenza è un momento estremamente complesso della vita, difficile da definire, caratterizzato da un numero incredibilmente ampio di variabili, di situazioni e di fattori che la condizionano.
Il termine adolescenza è stato introdotto nel 1430 in lingua inglese. E’ evidente, quindi che l’adolescenza è una fase di sviluppo evidenziata ben prima che essa fosse concettualizzata da Stanley Hall nel 1904. Rousseau nell’Emilio (1762) diceva che si nasce due volte: si nasce all’esistenza e si nasce alla vita; prima come ‘esseri umani’, poi come uomini.
In tutte le culture e in tutti i tempi, questa fase è stata caratterizzata da ‘riti di passaggio’. Nelle culture dove i bambini devono essere impegnati in lavori da adulti, questo periodo di iniziazione è necessariamente breve. I riti di iniziazione variano da cultura a cultura. Che sia la circoncisione, i tatuaggi (come presso le popolazioni del Pacifico meridionale), o, come presso alcune tribù sudamericane il cambiamento nello stile delle acconciature, sono comunque segni esteriori, simbolici, che sanciscono il passaggio da una fase all’altra della vita.
In Occidente questa iniziazione è caratterizzata da una individuazione (io sono me, diverso da te) e dal distacco dalla famiglia; in altre culture esiste un ‘piccolo me’, collegato ad un grande me ‑ che è la famiglia, e quindi la separazione tra individuo e famiglia non è così determinante.
Quando però la società diviene più complessa, il passaggio dall’adolescenza all’età adultera diviene più lungo ‑ anche molto più lungo ‑ e il grado di stress per l’adolescente si incrementa. C’è una importante componente sociale: nelle famiglie più povere, i ragazzi vengono avviati prima al lavoro, e quindi l’adolescenza è più breve, mentre diviene decisamente più lunga nei ceti più abbienti (per lo studio, l’università, la ricerca di una professione intellettuale, etc.).
Nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta ci sono anche determinanti biologiche importanti, ormonali, psicobiologiche, per cui il passaggio dall’infanzia all’adolescenza è dato dalla interazione tra fattori individuali, geneticamente determinati, e fattori sociali.
Mentre le caratteristiche genetiche non sono suscettibili di modificazioni (per cui si può dire che da un punto di vista biologico ciascuno diviene ‘adulto’ in tempi diversi e già programmati geneticamente), si può studiare la società per vedere in che modo essa può condizionare il passaggio all’età adulta. E’ chiaro che esistono determinanti culturali, ma noi siamo occidentali e, in questo contesto, ci interessa la società occidentale con le sue caratteristiche. La società occidentale, peraltro è cambiata molte volte nel corso della storia, per una serie di eventi politici e soprattutto economici che hanno profondamente modificato l’assetto sociale, creando nuove classi, nuove esigenze, nuovi modi di vivere e questo ha modificato anche la concezione dell’adolescenza, e il ruolo sociale dell’adolescente. Dopo le due rivoluzioni industriali (la prima nel 700, la seconda, ben più imponente, nella seconda metà dell’ottocento), ci furono le due guerre mondiali e i periodi post‑bellici, e ulteriori evoluzioni della struttura sociale. Attualmente essa è fortemente caratterizzata dalla rivoluzione informatica e dal suo impatto sulle relazioni umane e sulle modalità di comunicazione. Ma di rilevanza fondamentale appare anche il mutamento della struttura della famiglia e delle modalità educative, sia all’interno del nucleo familiare, sia nella scuola.
E’ ovvio che in mezzo a questi imponenti cambiamenti troviamo proprio gli adolescenti. Non più bambini, non ancora adulti queste ‘persone’ (i ‘ragazzi’) vivono in una condizione di profondo disagio. Un tempo tale disagio era assorbito nel contesto di strutture sociali (dall’oratorio alle sezioni di partito) che fungevano in qualche modo da contenitore delle ansie delle indecisioni, dei problemi di un adolescente. Oggi queste strutture non esistono quasi più o, se e quando esistono, non hanno più questa funzione contenitiva e formativa al tempo stesso. I confini tra infanzia e adolescenza, da un lato, e adolescenza ed età adulta dall’altro, sono saltati. Non esistono più argini all’angoscia di un ruolo indeciso e impreciso, non esistono più ‘riti di passaggio’, momenti attraverso i quali si ‘transitava’ formalmente da un’età all’altra, e quindi da un ruolo all’altro. Quando parliamo di riti di passaggio evochiamo, forse, immagini esotiche, ma a pensarci bene nella nostra società, sino ad anni recenti, questi riti di passaggio esistevano.
Che si trattasse del servizio militare, degli esami di stato, delle scelte universitarie o comunque professionali, dell’impegno politico, della scelta del partner, del matrimonio o altro ancora, essi esistevano per sancire un passaggio rituale allo status dell’adultità. Giusti o sbagliati, sindacabili o meno che fossero essi demarcavano importanti momenti della vita individuale.
I riti di passaggio oggi sono ‘saltati’ perché viviamo in una società complessa e soprattutto confusa, nella quale non si ha più il tempo di aspettare che certe fasi di transizione avvengano in modo fisiologico. E in questa confusione, l’adolescente è il meno preparato ad adeguarsi. Ne deriva ovviamente disagio psicologico che può anche configurarsi come vera e propria malattia. A tutto ciò si associa una aumentata pressione sociale che richiede spesso performances per le quali gli adolescenti non sono ancora pronti (non a caso nelle società che tengono in maggior conto le performances sociali, come quella giapponese, il tasso di suicidi in età adolescenziale è molto alto). Ma dobbiamo aggiungere a questo elenco i nuovi bisogni indotti (pensate al cellulare e a tutti i suoi derivati!) e una totale mancanza di controllo della comunicazione per mezzo dei ‘social’, una cultura dell’effimero a tutti i costi, la ‘monetizzazione’ dell’esistenza, e l’assenza di forti punti di riferimento valoriale. Ed altri problemi si potrebbero aggiungere: gravidanze indesiderate, violenza, comportamenti delinquenziali. Insomma, una situazione di estrema confusione, dove è sempre più difficile stabilire dove passi il confine fra normalità e devianza.
Di fronte a questa situazione, i principali bersagli di critiche e recriminazioni sono le famiglie. Da un lato c’è chi ritiene che esse debbano guidare l’adolescente in maniera estremamente direttiva. C’è invece chi ritiene che l’adolescente abbia un fondamentale bisogno di autonomia, di scegliere da se cosa fare e cosa non fare. Le scelte dell’adolescente andrebbero discusse, non limitate. Lo scopo della famiglia dovrebbe essere proprio quello di instradare l’adolescente verso una autonomia consapevole e verso scelte appropriate, mature, che rispecchino il suo modo di essere persona. E’ facile a dirsi, ma non a farsi, perché anche le famiglie medie sonno oggi avviluppate nella stessa ragnatela sociale della quale sono prigionieri i propri figli. Per rendersene conto basta calcolare qual è mediante l’età media di un genitore con figli adolescenti: se calcoliamo l’adolescenza come periodo che va, più o meno, dai1 12 ai 18 anni, e che l’età media del matrimonio è intorno ai trent’anni, i genitori di un quindicenne avranno mediamente un’età di 45 anni. Sono cioè, ancora dei giovani adulti, pienamente immersi quindi in tutte quelle abitudini, quei sistemi di riferimento ideologico, quei bisogni reali o indotti e quelle modalità di comportamento e comunicazione che caratterizzano oggi la vita sociale. Stiamo ovviamente facendo un calcolo medio, puramente teorico, ma se modificassimo questi dati numerici per eccesso o per difetto, il risultato non differirebbe molto. I genitori spesso sono convinti di sapere perfettamente cosa è bene e cosa è male per i propri figli adolescenti. Non si rendono conto di vagare, altrettanto incerti dei propri figli adolescenti, per lo stesso labirinto, con le stesso incertezze e le stesse ansie, gli stessi desideri e bisogni, compreso quello di una ‘norma’ che è ormai difficile persino definire.
Se, però, i problemi contemporanei della adolescenza e della sua gestione sono questi, quale ne può essere la soluzione? E’ quella che gli americani chiamerebbero ‘una domanda da un milione di dollari’. Ed io, non avendo risposta (mi sono limitato a tentare di fotografare la situazione), passo la palla a sociologi, psicologi sociali, pedagogisti ed altri professionisti assortiti, sicuramente più competenti di me nel proporre soluzioni, ma soprattutto alle Istituzioni e alle Agenzie sociali che hanno il compito ‘statutario’, per così dire, e gli strumenti professionali e legislativi per occuparsi del problema. Mi limito a ricordare che, come diceva il grande psicologo Erikson, l’adolescenza è un periodo di ‘moratoria psicosociale’, un momento di stasi, di dilazione, di attesa. Lo è sempre stato, ma oggi questa attesa sembra volersi prolungare per tempi indefinibili. Stiamo ad osservare, sospendendo il giudizio, non abituandoci però a restare, come Dante fa dire a Virgilio nella “Divina Commedia, nel canto 52 dell’Inferno, “tra color che son sospesi”…
Giovanni Iannuzzo