Una voce unica nel panorama culturale siciliano, Sara Favarò si manifesta quale figura rara, la cui presenza sulla scena artistica è tanto discreta quanto intrinsecamente profonda.
La sua opera, un crocevia di linguaggi espressivi, si sottrae alle categorizzazioni rigide, nutrimento di intrecci, contaminazioni e una costante riscoperta delle radici. Dalla genesi vicarese, la sua terra natia, ha saputo sublimare le proprie origini in un propulsore creativo, scandagliando con rigore filologico e vibrante passione l’identità siciliana in ogni sua fibra: dalle profondità catartiche del teatro alla fluidità narrativa, dall’anima ancestrale del canto popolare alla lucida speculazione antropologica.
Il suo impegno culturale, riconosciuto oltre i confini nazionali, ha trovato culminazione nel conferimento del prestigioso titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana da parte del Presidente Sergio Mattarella, attestato del suo straordinario contributo al patrimonio artistico e intellettuale. Animata da una visione dell’arte come atto di testimonianza e ineludibile responsabilità, Sara Favarò ha percorso decenni mantenendo fede a una strenua concezione della cultura quale bene comune, da custodire, reinterpretare e imperativamente tramandare.
L’ultima sua fatica letteraria, “Adelasia. Madre del Regno di Sicilia e Regina di Gerusalemme” – edito da Balzano Editore – ne è la conferma più eloquente: un romanzo storico che restituisce nuova vita e respiro a una figura spesso oblita dalla narxis storica, proseguendo una ricerca coerente e necessaria, nella quale la sua anima si fonde con quella della protagonista, Adelasia del Vasto, per dare voce all’archetipo femminile che ha lottato per la propria piena affermazione.
In questa conversazione, l’autrice ci conduce all’interno del suo laboratorio creativo, disvelando le origini, gli incontri epifanici – quali quello con il maestro Ignazio Buttitta – le scelte dirimenti e le visioni che hanno plasmato il suo iter di artista e di intellettuale. Un dialogo che si configura altresì come un invito a concepire la cultura quale esercizio supremo di libertà e incondizionato atto d’amore verso la propria terra.
Sara Favarò, il suo operato è come un arazzo finemente intessuto, in cui si intrecciano parole, suoni, ricerche, narrazioni e memorie. La sua attività abbraccia territori molteplici, dalla scrittura alla poesia, dalla musica al teatro, dallo studio antropologico alla performance artistica. Come convivono e dialogano, all’interno del suo percorso creativo, queste differenti modalità espressive? Esiste, secondo lei, un linguaggio che funge da baricentro e che dà forma e sostanza agli altri?
Il mio operato nasce dall’esigenza di raccontare, di dare voce a memorie, identità e suggestioni che compongono l’anima della mia terra e della mia esistenza. Scrittura, poesia, musica, teatro e ricerca antropologica non sono compartimenti stagni, ma espressioni che dialogano tra loro in un continuo processo di contaminazione. Ciò che scrivo può diventare musica, ciò che indago può trasformarsi in narrazione, e ciò che interpreto in scena porta con sé l’eco delle parole che ho messo su carta. Se esiste un linguaggio baricentrico, quello è la parola: essa dà forma al suono, struttura alla ricerca e sostanza alla rappresentazione teatrale. E’ il punto di partenza da cui si origina la mia espressione artistica.
Vicari è la terra che ha accolto i suoi primi respiri, ed è rimasta nella sua memoria affettiva come luogo generativo e simbolico. Paradossalmente, l’allontanamento precoce da questo contesto sembra aver rafforzato in lei la consapevolezza del valore del patrimonio identitario siciliano. In che modo il suo legame con questa Sicilia arcaica e rurale continua a germogliare nella sua ispirazione artistica e nelle tematiche che predilige?
Vicari è il luogo delle mie origini, il ventre da cui ho attinto la linfa vitale che ancora oggi nutre il mio immaginario. Paradossalmente, la lontananza fisica ha rafforzato in me l’urgenza di custodire il patrimonio identitario siciliano e di trasmetterne la forza, le sfumature e la bellezza. La Sicilia arcaica e rurale è presente nei miei scritti, nella mia musica, nelle mie ricerche e nelle mie interpretazioni, non solo come scenario, ma come cuore pulsante del mio operato. Le sue voci, i suoi colori, la sua memoria collettiva continuano a germogliare nella mia arte, dando forma a un racconto che vive tra tradizione e innovazione.
Uno dei passaggi fondanti del suo cammino è stato l’incontro con Ignazio Buttitta, che colse in lei un talento autentico e ne incoraggiò la fioritura. Cosa ha significato per lei la guida di un maestro di tale statura? In che modo il rapporto con Buttitta ha influenzato il suo sguardo sul mondo e il suo modo di raccontarlo?
Ignazio Buttitta è stato un faro nel mio cammino. Il suo sguardo acuto e la sua sensibilità mi hanno permesso di riconoscere la potenza della mia espressione e di darle una direzione chiara. Lui non si limitò a incoraggiarmi, ma mi trasmise una visione del mondo che ancora oggi guida il mio operato: il valore della parola come strumento di resistenza, la responsabilità del raccontare e il senso profondo della memoria popolare. Il rapporto con Buttitta mi ha insegnato che la cultura non è un ornamento, ma una necessità, e che il racconto, se vissuto con autenticità, può diventare un atto rivoluzionario.
La fondazione del gruppo “Sikelia”, insieme a suo fratello Giovanni, rappresenta un momento innovativo nel panorama musicale siciliano. Quel “folk in progress” sperimentale, nato nel 1979, ha segnato una tappa importante. Quali tracce ha lasciato questa esperienza nella sua scrittura, nella musicalità della sua prosa, nella ritmica della sua narrazione?
I Sikelia non sono stati solo un gruppo musicale, ma una vera e propria battaglia culturale. Attraverso testi parlati e cantati, ho usato la parola come arma, unendola alla musica per amplificarne la forza e il significato. Il nostro folk del presente raccontava la lotta per una Sicilia libera dalla mafia, per un mondo di pace, per dire no a ogni guerra. Questa esperienza ha plasmato il mio modo di raccontare, rendendolo incisivo, ritmico, capace di trasmettere la tensione della denuncia e la speranza del cambiamento. La mia scrittura porta ancora oggi l’eco di quei suoni, di quella missione, di quel linguaggio che è sempre stato il mio mezzo di espressione privilegiato.
Lei ha parlato della scrittura come di un “dono” che si concede a chi accetta di essere tramite. Un’affermazione che evoca una dimensione quasi sacerdotale della creazione letteraria. Potrebbe approfondire questa idea e raccontarci come si manifesta nel suo processo creativo? Le storie, in un certo senso, la scelgono?
Ho sempre percepito la scrittura come una chiamata, un ponte tra ciò che esiste e ciò che deve essere raccontato. Non si tratta solo di un esercizio artistico, ma di un atto di trasmissione e di ascolto. Le storie non si cercano, arrivano. Bussano, si impongono, chiedono di essere accolte e trasformate in parole. Quando scrivo, sento di essere un tramite, una voce prestata a qualcosa di più grande di me. E per questo che rispetto profondamente il processo creativo: non lo forzo, lo assecondo. Credo che la scrittura sia un dono, ma è anche una responsabilità, un patto silenzioso tra me e chi leggerà.
Nel suo universo narrativo, le donne siciliane occupano un posto centrale. Sono spesso figure silenziose, relegate ai margini della storia ufficiale, ma che attraverso la sua penna ritrovano voce, dignità e spessore. Cosa la spinge a restituire luce e parola a queste esistenze tenaci e spesso invisibili?
Le donne siciliane sono la colonna portante di una storia che, troppo spesso, non è stata raccontata o riconosciuta. Nei miei scritti le porto al centro, le restituisco alla luce che meritano. Sono custodi di memorie, di fatiche, di resistenze invisibili che hanno modellato il tempo e la società senza clamore. La mia urgenza narrativa nasce dalla necessità di renderle protagoniste, di dare loro un linguaggio che le rappresenti e le faccia emergere nella loro dignità e forza. Raccontarle significa onorare la loro presenza e il loro ruolo nella costruzione dell’identità siciliana, e della mia stessa esistenza.
Il suo ultimo romanzo, Adelasia. Madre del Regno di Sicilia e Regina di Gerusalemme, edito da Balzano Editore, è dedicato a una figura di straordinaria modernità per l’epoca in cui visse. Cosa l’ha affascinata in particolare nella storia di Adelasia del Vasto, e cosa l’ha spinta a farne la protagonista del suo più recente lavoro?
Adelasia del Vasto è stata una donna di potere in un’epoca in cui il comando era prerogativa maschile. La sua intelligenza politica, la sua capacità di governare e il suo ruolo di madre del primo re di Sicilia, Ruggero II, la rendono una figura centrale nella storia normanna. Ciò che mi ha spinto a raccontarla è la sua forza strategica, la sua capacità di adattarsi e di influenzare il destino di un regno. Non è stata una regina consorte, ma una protagonista attiva della costruzione del potere normanno in Sicilia.
Il romanzo non si limita a narrare una biografia, ma offre uno spaccato vivido del potere normanno e del tessuto storico e culturale del Regno di Sicilia. Quali temi ha voluto privilegiare, e come ha cercato di rendere questa figura storica rilevante e accessibile per il lettore di oggi?
Il romanzo non è una semplice biografia, ma un viaggio dentro il potere normanno, la cultura medievale e le dinamiche politiche che hanno plasmato la Sicilia. Ho voluto mettere in luce il ruolo delle donne nella costruzione della storia, spesso dimenticato o marginalizzato. Adelasia è una figura che parla anche al presente: una donna che ha saputo negoziare il suo spazio in un mondo dominato dagli uomini, un tema ancora attuale. Ho cercato di rendere la sua storia accessibile attraverso una narrazione che non disdegna la fantasia, che intreccia documentazione storica e introspezione emotiva, per far emergere la sua umanità oltre il mito.
In molti suoi scritti, dalla narrativa alla saggistica, il binomio “donna e Sicilia” emerge con forza. In che modo Adelasia si inserisce nel solco tracciato da opere precedenti come Il Coraggio delle Donne? Ha adottato, in questo lavoro, nuove soluzioni stilistiche o strutture narrative diverse rispetto al passato?
“Il Coraggio delle Donne” ha dato voce a storie vere, testimonianze di lotta, resistenza e dignità femminile. Ho raccontato le vite di donne che hanno affrontato ostacoli enormi, trasformando la loro esistenza in un atto di ribellione contro le ingiustizie, rompendo il silenzio imposto dalla società. Ogni storia è un frammento di una narrazione collettiva, dove le esperienze individuali diventano simbolo di una battaglia universale. In “Adelasia”, così come nel “Coraggio delle Donne”, ho adottato un approccio immersivo. Non è solo una narrazione di eventi, ma un’ introspezione profonda.
Questa fusione tra te e Adelasia rende il romanzo un’esperienza unica per il lettore: non si legge solo una storia, ma si entra in un mondo di emozioni e consapevolezze profonde. Vorrebbe approfondire qualche sfumatura o mettere in evidenza un altro aspetto del suo lavoro?
In Adelasia, la mia anima s’intreccia con la sua, diventano un’unica voce. La regina normanna non è solo un personaggio storico, ma una donna che lotta contro le convenzioni, contro le banalità imposte, contro gli stereotipi che da secoli tentano di ingabbiare l’identità femminile. Un flusso continuo in cui il passato dialoga con il presente, in cui la parola diventa il grido di tutte le donne che hanno dovuto conquistarsi il diritto di esistere pienamente.
Ci sono nuove traiettorie che desidera esplorare nel prossimo futuro? Progetti che coinvolgono il teatro, la musica, o nuove narrazioni che continuino ad affondare le radici nella storia e nelle tradizioni dell’isola, con particolare attenzione all’universo femminile?
Il mio lavoro ha sempre avuto radici profonde nella parola, nella musica e nel teatro, ed è su questa scia che intendo proseguire. Sto esplorando nuove narrazioni che, pur rimanendo fedeli alla memoria e alla storia della Sicilia, si aprano a prospettive universali, affinché il racconto della mia terra diventi un ponte tra culture e tempi. Mi interessa approfondire ancora di più la voce delle donne, soprattutto quelle che hanno trasformato il silenzio in resistenza. Il teatro e la musica restano strumenti privilegiati: vorrei portare avanti nuove produzioni che uniscano la forza della parola alla suggestione della scena e del suono, in un’esperienza immersiva.
A conclusione di questo nostro dialogo, c’è un pensiero, un messaggio, una riflessione che desidera affidare ai nostri lettori? Qualcosa che le sta particolarmente a cuore e che ancora non è emerso in questa conversazione?
Se c’è un messaggio che vorrei lasciare, è la forza della narrazione. Raccontare significa dare forma alla memoria, evitare che il tempo cancelli ciò che è stato, costruire un futuro consapevole.
Ogni storia ha un valore, ogni voce merita di essere ascoltata. La scrittura, la musica, il teatro non sono semplici forme d’arte, ma testimonianze di vita, strumenti di resistenza, atti di verità.
Il mondo ha bisogno di parole autentiche, di voci coraggiose, di chi non ha paura di dare nome alle ingiustizie e di chi sa vedere la bellezza anche nella lotta. Questo è il cammino che continuo a percorrere, e che condivido con chiunque abbia voglia di ascoltare e di fare della cultura un atto di libertà.
Se è possibile vorrei affidare ai lettori una mia composizione che spero diventi presto un rap.
I CAMPI DI GAZA di Sara Favarò
I campi di Gaza non hanno più fiori,
son corsi via nel vento d’amore.
Sui bimbi traditi, sui corpi caduti,
su culle di bombe e sogni perduti
Nessuna guerra ha mai ragione,
sparge rovina senza eccezione.
L’odio lacera corpi e menti,
madre cieca di cuori assenti.
Chi semina odio, raccoglie veleni,
sangue versato su giorni oscuri.
Calpesta la vita, spezza destini,
lascia soltanto macerie e rovine.
La morte non ha bandiere o scuse,
il sangue che scorre nutre le croci.
La vita è sacra, ma l’odio la spezza,
mentre il silenzio mente e disprezza.
Cuori di pietra calcano il suolo,
armati d’odio, spezzano il volo.
Spazzano via dignità e speranza,
burattinai senza coscienza.
Braccia spezzate, occhi svuotati,
case sventrate, sogni strappati.
Fiori che corrono, sfidano il cielo,
mentre l’odio si veste di gelo.
Le strade bruciano, pianto nel vento,
la guerra divora, non ha pentimento.
Lame che tagliano, sangue che gronda,
il mondo si volta: nessuno risponde!
Piangono i bimbi tra fuoco e spine,
cercano il sole, ma trovano mine.
Gridano pace, nessuno risponde,
solo macerie tra polvere e bombe.
Vite distrutte, giochi di guerra,
morti nascoste, sabbia che afferra.
Senza speranza, senza pietà,
il mondo tace… che infamia sarà?
Solo una voce che rompe il muro,
solo il coraggio di chi dice basta.
Gridiamo pace, ma il buio uccide,
piovono bombe, il cielo divide.
I campi di Gaza non hanno più fiori,
son corsi via nel vento d’amore.
Sui bimbi traditi, sui corpi caduti,
su culle di bombe e sogni perduti.
Salvina Cimino