Paranormale e magia: un processo per stregoneria nella Sicilia del sedicesimo secolo

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Nel secolo XVI l’istituzione ecclesiastica dell’Inquisizione imponeva il suo enorme potere su tutta l’Europa. Nata come strumento delle Chiese cristiane per le lotte alle eresie, nei periodi più bui del medioevo europeo, questo organismo ad un tempo religioso e politico avrebbe macchiato le pagine della storia di delitti senza nome. Ancora oggi se si vuole indicare una insensata persecuzione contro un’opinione si parla di “caccia alle streghe”, espressione perfettamente atta ad indicare quale fu l’entità delle persecuzioni della “Santa”  Inquisizione nei confronti di streghe, eretici o presunti tali.

L’accusa peggiore era ovviamente quella di aver stipulato un patto con il diavolo, o di avere una qualche forma di rapporto con esso. Da dove era evidenziabile questo patto, da quali fatti? Da avvenimenti strani, talora orrendi, talvolta semplicemente inusuali, magari da fenomeni che la scienza post-aristotelica non riusciva né a spiegare né tantomeno ad inserire in quel perfetto modello d’universo che s’era costruita. Esisteva al riguardo un ‘manuale’, il famigerato Malleus Maleficarum, il ‘martello delle streghe’, (scritto dal frate domenicano Heinrich Kramer in collaborazione con il confratello Jacob Sprengler e pubblicato in Germania nel 1487) che elencava tutti i possibili segni fisici o comportamentali che consentivano di stabilire se una strega fosse, o meno, tale. A farne le spese furono, naturalmente, tutti coloro che coloro che possedevano strani o insoliti poteri o che si dedicassero ad attività che suscitavano sospetti, pubblici o privati, della collettività o del singolo, delle istituzioni o di un comune cittadino, di poteri diabolici; vittime di questa forma di paranoia erano spesso semplici malati psichiatrici, o chiunque insomma, suscitasse col proprio comportamento scrupoli superstiziosi legati alla psicotica paura del “diavolo”.

Non vogliamo però discutere le motivazioni, già ampiamente analizzate da autorevoli studiosi, di questo scatenarsi di paure arcaiche, né tantomeno i problemi storici che ne stanno alle basi. Intendiamo evidenziare quale fosse la mentalità e la paura corrente nel quindicesimo secolo, nei paesi cattolici e protestanti, dominio quasi incontrastato dell’Inquisizione, nei confronti di ciò che era ritenuto “demoniaco”.

In Sicilia – terra cattolicissima, densa di tradizioni magiche e religiose, per lunghi e secoli colonia spagnola – la repressione dell’Inquisizione nei confronti della magia e della stregoneria fu particolarmente violenta. A cominciare dal XV secolo i tribunali dell’Inquisizione presero ad interessarsi dei processi “super superstitionem, super magariam”. Di questi processi si conosce molto (procedura, modelli di indagine, tipologia delle accuse e delle condanne), ma uno di essi, celebrato in Sicilia – tra l’altro uno dei primi processi di questo tipo nelle nostra regione – è stato riportato e descritto in modo molto particolareggiato.

Il 21 marzo 1555, alcune donne si presentavano a don Bartolomeo Sebastian, inquisitore generale di Sicilia. Esse denunciavano una donna napoletana, abitante a Messina, Pellegrina Vitello, accusandola di “magaria”.

Nei giorni 22, 28  e 30 marzo le accuse venivano ribadite e confermate. Le accusatrici, quattro monache terziarie e una quinta donna, affermarono che la Vitello era senza dubbio una maga, perché aveva rapporti col demonio, in virtù dei quali riusciva a realizzare prodigi inspiegabili e senza dubbio di natura diabolica.

Don Bartolomeo Sebastian ritenne opportuno arrestare la strega, comunicandole nel contempo che era stata accusata di magia.

Il 3 maggio alla strega fu notificato che era incorsa per lo stesso reato nella scomunica maggiore e nel contempo veniva formalmente accusata di essere “strega con invocazione di demoni”.

Quali erano le accuse che venivano rivolte alla donna? Dai documenti originali esse risultano molto precise e circostanziate. Si diceva che essa avesse tolto “fatture” a numerosa gente, che avesse dato a persone perseguitate dagli “spiriti” del pane incantato sul quale erano scritte delle strane lettere, oppure la si accusava di aver dato, sempre a queste persone, delle caraffe di acqua nelle quali si intravedevano orrende forme nere che somigliavano a demoni. Inoltre sembrava che la strega avesse distribuito certe polveri gialle capaci di realizzare prodigi.

Altre accuse più particolari riguardavano le capacità di questa donna, che risultava essere un’indovina, visto che sembrava capace di vedere in uno specchio magico (semplicemente guardando o poggiando un copricapo di quella persona che chiedeva qualcosa sullo specchio) oppure dentro un pentacolo di Salomone.

Il 2 maggio alla donna fu chiesto – dopo averle fatto ascoltare per esteso le accuse che le erano state rivolte – se volesse un avvocato. Il cinque dello stesso mese l’imputata rifiutò l’avvocato e chiese semplicemente la misericordia dei giudici dell’Inquisizione.

Successivamente le fu inflitta la tortura – prassi terribile, ancorché considerata più che normale in quei secoli bui – che, eseguita, durò più di mezz’ora. Il 12 maggio fu inflitta la condanna: originariamente la donna doveva essere affidata al “braccio secolare”, in altre parole doveva essere bruciata sul rogo. Successivamente la condanna fu commutata e la condannata fu costretta ad andare in processione con un cero in mano ed una mitria in testa  per le strade di Messina, mentre veniva fustigata lungo il percorso.

La cosa più interessante che emerge dagli atti di questo processo è il genere circostanziato di accuse che venivano rivolte alla donna in questione. Talvolta quando si parla di caccia alle streghe questo particolare rimane in ombra, oppure è appena accennato. Invece è interessante valutare con attenzione le accuse mosse dal tribunale dell’Inquisizione per avere un’idea almeno più precisa di quali fossero le pratiche magiche o le capacità che potessero condurre al rogo o ad un’altra condanna, in quel periodo di religiosi orrori maniacali.

Non è certamente facile discutendo delle accuse rivolte alle “streghe” distinguere tra superstizione e realtà, specialmente conoscendo i metodi usati allora per dimostrare la tesi dell’eresia (bastava un’accusa per trascinare chiunque nelle galere dell’Inquisizione; spesso bastava anche un’accusa anonima): i reati contestati agli imputati si originavano spesso da semplici superstizioni e all’atavica paura del demonio, ma è altrettanto chiaro che per alcune di queste dovesse pur esistere un fondamento empirico, anche se interpretato in maniera distorta o patologica.

Nel processo in questione, la prima delle accusatrici, una monaca terziaria, riferì un fatto accaduto circa otto anni prima della denuncia. Una donna era malata da molto tempo tanto che, visto che i medici non sapevano cosa dire, si pensò che si trattasse di una “malia”. Chiamata la Pellegrina Vitello, questa riuscì a trovare la causa della malattia, ovvero un cuore di cera nel quale stavano appuntati alcuni spilli e polveri nere. La strega strappò via gli spilli, e non fu udita, nel fare questo, pronunciare alcuna orazione.

L’opinione della strega Pellegrina Vitello nei confronti delle accuse era evidentemente diversa da quella dell’Inquisizione. Disse che in effetti aveva individuato e trovato numerose “malie” in numerose case nelle quali era andata visitare alcune donne, aggiungendo che non ricordava nemmeno il numero di questi casi, tanti essi erano.

Successivamente la Vitello avrebbe però confessato che, con un complice, avevano messo su un’ottima maniera per guadagnare soldi: in pratica il “complice” andava a nascondere le “malie” in alcune case, e la Vitello poi andava a toglierle. Insomma  i ciarlatani ci sono sempre stati, allora come ora…

Una decisa negazione, però, riguarda gli episodi durante i quali la donna avrebbe visto dove si trovavano oggetti smarriti. Negazione che invece non esiste per quelle che potrebbero essere considerate magarie di minor conto, come quelle che, secondo le confessioni di Pellegrina Vitello, erano semplicemente un trucco sul quale speculare. C’è da pensare che il reato di “divinare” fosse particolarmente grave e che la divinazione fosse ritenuta realmente frutto di un patto col demonio. D’altra parte, sempre riferendoci al processo, i casi di ritrovamento di oggetti in virtù di ipotetiche capacità della strega quelli meglio documentati – spesso particolareggiatamente da numerose testimonianze – ma essi sono decisamente negati dalla strega nel corso del processo.

In effetti simili episodi presupponevano allora necessariamente l’esistenza di capacità demoniache, con tutte le conseguenze che potevano derivarne da parte dei tribunali dell’Inquisizione.

Anche durante la tortura Pellegrina Vitello continuò a sostenere le medesime cose. Non negò, però, di conoscere alcune pratiche magiche di tipo divinatorio.

In base a quanto risulta dai verbali del processo la strega confessò di avere imparato dal suo “socio” un rituale particolare per mezzo del quale indovinare se un individuo sarebbe stato povero o ricco,  oppure se sarebbe morto entro l’anno.

Bastava prendere una caraffa piena d’acqua dentro la quale bisognava buttare un bianco d’uovo.  Dopodiché si doveva recitare un Pater Noster e un Ave Maria in onore di San Giovanni. Se il soggetto che chiedeva il responso doveva essere povero, l’albume assumeva una forma liscia e omogenea; se doveva diventare ricco assumeva la forma di castello; se doveva morire entro l’anno la forma di campane. Nei verbali del processo vengono anche riportate alcune delle cifre guadagnate dalla Vitello per le sue prestazioni di magia.

Gli atti del processo “super magariam” di Pellegrina Vitello (trovati da Carlo Alberto Garufi nell’Archivio di Simancas e pubblicati interamente in: Carlo Alberto Garufi: Fatti e personaggi dell’Inquisizione in Sicilia. Sellerio, Palermo 1978) costituiscono comunque un interessante documento storico e etnografico.

In effetti Pellegrina Vitello sembrerebbe solo una semplice ciarlatana che con trucchi più o meno raffinati tentava soltanto di sbarcare il lunario. Ma alcuni particolari non fanno riflettere sulla possibilità che ella possedesse capacità autenticamente “paranormali”, tenute nascoste nel corso degli interrogatori per paura che la condanna fosse ancora più pesante. È chiaro che una simile analisi dei resoconti del processo ha un valore esclusivamente dal punto di vista storico o addirittura come semplice curiosità aneddotica, non certamente dal punto di vista scientifico. La maggior parte dei fenomeni descritti sembrano semplicemente esempi di magia popolare: gli strani rituali della strega Vitello per ritrovare le fatture che erano state fatte alle sue “clienti”, le pozioni magiche che ella dava per ‘aggiustare’ storie d’amore problematiche non stupiscono di certo. Se ne trova ampia testimonianza non solo nei processi per stregoneria, ma anche nelle trazioni popolari, così attentamente riportare dagli etnografi (come il siciliano  Giuseppe Pitrè).  Né stupiscono i resoconti di rituali di magia nera, ai quali la caccia alle streghe ha dato, nel corso di numerosi secoli, ampio risalto.

Un problema molto più suggestivo è quello che riguarda la capacità della “strega” di ritrovare gli oggetti e la capacità di indovinarne anche caratteristiche particolari. Non esistono prove della veridicità del fenomeno, ma esiste la testimonianza degli accusatori al processo alla Vitello, e forse un’ulteriore prova può essere addirittura costituita dalla decisa negazione dell’accusata. Poniamo che tali fenomeni siano stati genuini: la strega vedeva quel che vedeva dell’oggetto perduto nello specchio magico? E chi può dirlo? La negazione della Vitello di possedere queste capacità, (confermata invece da numerosi testimoni), non pone in ogni caso molti dubbi sulla possibilità che queste fossero considerate indiscutibilmente diaboliche, fatto, questo, peraltro storicamente accertato.

Non importa che Pellegrina Vitello fosse o meno una “sensitiva”; forse lo era o forse non lo era, come tantissime altre donne che salirono sul rogo in quel periodo storico, sacrificate a paure superstiziose e ad una ossessione “demonofobica”.

Nell’esaminare simili fatti – anche se solo da un punto di vista prudentemente “storico”- è difficile poter dire dove passi la linea di confine fra semplici superstizioni ed autentici fenomeni “paranormali”. I poteri delle “streghe sembrano emergere dalla notte dei tempi, da secoli oscuri, espressione semplicemente di un pensiero irrazionale. Forse, però, alla base dei processi per stregoneria c’era davvero, talvolta, quella che oggi, molto genericamente, chiamiamo “paranormalità”. E forse bastava semplicemente manifestare certe capacità inusuali, considerate naturali oggi, ma del tutto incomprensibili allora, per finire nelle segrete dell’Inquisizione o, addirittura, sul rogo.

Giovanni Iannuzzo

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