Epidemie: quali orizzonti per la medicina?

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La visione moderna della medicina – sia nei suoi aspetti teorici sia in quelli più strettamente clinici – è un prodotto della filosofia positivista del XIX secolo. Credo sia condivisibile l’idea che i progressi sia in campo diagnostico, sia in campo terapeutico che hanno caratterizzato il sapere medico dalla seconda metà dell’’800 ad oggi siano ascrivibili al poderoso sviluppo nelle scienze di base che ha consentito l’individuazione di strutture, meccanismi e processi dalla cui conoscenza, o dalla cui comprensione sono derivati nuovi modi di intendere la malattia e nuove tecniche per curarla. Insomma, e inevitabilmente, l’accresciuta conoscenza medica nasce da un’accresciuta conoscenza delle leggi di natura.

Fisica, chimica e biologia, in particolare, hanno consentito insomma la costruzione di un modello di riferimento imponente, di un framework teorico di riferimento, all’interno del quale la clinica ha potuto trovare strade sempre più nuove e precise. Fu così che, già dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, la medicina si trasformò da arte approssimativa  in scienza sperimentale e sempre più tesa all’obiettivo dell’esattezza. Si trattò di un processo in qualche modo assai vicino al concetto espresso dal matematico Henry Poincaré che “non c’è scienza se non del misurabile”. La ricerca di substrati organici passò lentamente dagli aspetti macroscopici a quelli via via più microscopici, molecolari, sub-molecolari; l’attenzione dei ricercatori si concentrò sulla identificazione di relazioni di causa ed effetto dimostrabili e ripetibili. Di conseguenza la ricerca di terapie sempre più finemente eziologiche e sempre meno empiriche ha trasformato di fatto la medicina in una disciplina rigorosa, con importantissime implicazioni pratiche, sia dal punto di vista individuale sia da quello collettivo e sociale. Da scienza soft, la medicina si è trasformata in scienza hard. E questo è un dato di fatto storico.

In apparenza le cose continuano ad andare in questo modo; intendo dire che questo paradigma “forte” della medicina come scienza si andato rafforzando col tempo. O almeno avrebbe dovuto essere così. Stabilita una rotta, la nave delle nostre conoscenze dovrebbe seguirla imperterrita e sicura. Certo, è possibile che esista la necessità di correzioni o aggiustamenti, possono esserci imprevisti e difficoltà, ma tracciata una rotta e verificata la sua praticabilità, la nave affronta l’oceano con sicurezza, sino alla meta da raggiungere, sino al suo obiettivo, alla sua terra promessa. Che è un po’ quello che è successo con la fisica, con la chimica o la biologia. Nella storia di queste scienze aristocratiche si sono presentati tanti aggiustamenti di rotta, tante difficoltà, tanti periodi di bonaccia. Le ciurme si sono ammutinate, ed è venuto a mancare cibo ed acqua, ma, per continuare la nostra metafora, il loro viaggio sugli oceani della conoscenza è proseguito. Faccio solo un esempio: il passaggio dalla fisica tradizionale alla fisica quantistica è stato equiparabile ad una vera tempesta, ma le nuove acquisizioni sulla struttura della materia non hanno cambiato il paradigma generale delle scienze fisiche o il loro modello di riferimento. Hanno modificato la rotta, ma la nave ha continuato a navigare in acque tornate sicure. In medicina è successo qualcos’altro. E’ difficile capire esattamente quando questo qualcosa è successo. Nella storia della scienza è spesso problematico identificare momenti storici specifici nei quali si verifica un cambiamento, ciò che muta e le ragioni del mutare; questi eventi sono più i prodotti di una evoluzione lenta e non tanto di una esplosione. Nel caso specifico della medicina, appare molto difficile capire quando il cambiamento sia avvenuto. Credo comunque che possiamo con buona approssimazione collocare i primi segni di questo cambiamento nel periodo successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con una vera e propria esplosione intorno agli anni ’70. Cosa avviene in quel periodo storico? Avviene semplicemente che il mondo cambia.  Vi è un superamento delle frontiere occidentali ed una sempre più approfondita percezione della diversità. Il moderno occidente industrializzato si deve confrontare con altri popoli e culture. Non si trattò ovviamente di un confronto intellettuale o pacifico. Alla base di questa caduta delle frontiere vi è la fine del colonialismo, e l’inizio di quel processo sociale e politico che anni dopo avremmo definito ‘globalizzazione’. La medicina moderna si confronta con altri modi di fare medicina che esistevano anche in occidente, ma solo sotto forma di modesta enclaves culturali.

La medicina che si affaccia agli anni ’70 – percorsi comunque da forti inquietudini politiche e sociali, da cambiamenti epocali – è una scienza orgogliosa di se sino all’arroganza. Fiera dei risultati ottenuti in campo epidemiologico o sociale (ha  vinto pochi decenni prima la battaglia contro la terribile influenza spagnola, ha sconfitto – sembra definitivamente – grandi flagelli epidemici come il vaiolo e la tubercolosi, tiene perfettamente sotto controllo e cura la peste nera, così come tutte le malattie infettive). Nulla sembra minacciare il suo tranquillo impero scientifico. E’ una pax augustea.

Poi accade qualcosa e la scurezza delle mura che la moderna medicina scientifica ha costruito intorno al suo sapere cominciano a vacillare pericolosamente. Sarebbe compito di uno storico della medicina, ovviamente, indagare sui fatti che sono all’origine di queste oscillazioni. Io mi limito a citare pochi eventi che la dicono lunga sulla prima sconfitta in epoca moderna della medicina per così dire scientifica. Anzitutto il ritorno di grandi e pericolosissime epidemie. Dopo avere orgogliosamente sostenuto che nel campo delle epidemie la medicina non temeva più assalti da virus o batteri, nella seconda metà degli anni ’70 emergono nuove malattie, quasi tutte provenienti da Paesi in via di sviluppo, che  colgono di sorpresa la medicina: si tratta delle prime febbri emorragiche virali, che in genere vengono battezzate con nomi esotici, perché realmente è esotico il luogo della loro origine: la febbre di Nassa, la febbre di Marburg, la spaventosa febbre di Ebola – con una mortalità che venne quantificata originariamente oscillante fra il 99 e il 100%. Il panico venne contenuto, ma per la prima volta dopo la fine (spontanea, beninteso) della grande epidemia di spagnola, la medicina si trovava impossibilitata a capire e a curare. L’unica cosa che in qualche modo rassicura è il fatto che si tratta di febbri per l’appunto esotiche che quindi rendono estremamente improbabile una loro estensione al di fuori delle zone endemiche. Insomma, una consolazione della serie “non è roba che ci riguarda”. Le comunicazioni sono ancora povere e gli spostamenti per via aerea decisamente modesti. La cittadella scientifica e medica occidentale può ancora trincerarsi dentro le mura del suo castello. Ma questa metafora ricorda un celebre racconto di Edgar Allan Poe, “La maschera della morte rossa” (che guarda caso descrive una forma di pestilenza che per molti versi ricorda le febbri emorragiche virali): durante una pestilenza un nobile e la sua corte si rifugiano dentro il loro castello, pensando così di restare immuni dal morbo. Ma la “morte rossa”, questa misteriosa e mortale malattia, si insinua nel castello durante una festa di danze, e reclama il suo tributo. Bene, è più o meno quello che succede negli anni ’80. Un altro virus esotico spunta fuori dalle ombre della foresta pluviale africana. Ma stavolta non vi resta confinato. Quel virus che sarà poi definito HIV prese le strade del mondo, e diede origine alla più spaventosa epidemia della storia moderna dall’epoca della peste nera medioevale. La medicina è del tutto priva di strumenti. L’AIDS devasta furiosamente il mondo occidentale e in pochi anni i morti si conteranno a centinaia di migliaia, gli infettati a milioni. E’ una catastrofe senza precedenti. Si riesce a individuare l’agente eziologico, ma passeranno ancora anni prima che si riesca a trovare forme di terapia che consentono di rallentare il decorso della malattia e aumentare la sopravvivenza degli ammalati. Ma a tutt’oggi non esiste alcun vaccino, non esiste alcuna terapia risolutiva e, secondo molti, non esiste nemmeno una chiara definizione epidemiologica di questa misteriosa malattia. L’AIDS, così come la peste nera, cambiò il mondo. Ne cambiò la morale, ne cambiò i sistemi di credenze, ne cambiò usi e costumi sessuali, ne cambia la cultura. Ha un violento rebound sia sulla politica sia sull’economia. Non credo improbabile che uno storico del futuro potrebbe descrivere il mondo moderno come un mondo prima e un mondo dopo l’AIDS. Eppure la medicina ai suoi più alti livelli internazionali, si dichiarò trionfante. Il 23 aprile del 1984 il ministro della Sanità del governo americano, Margareth Heckler, sostenuto da Robert Gallo e dal suo staff, del National Cancer Institute, a Washington nella sale dell’Huber Humphrey Building, annunciò trionfalmente: “Oggi aggiungiamo un altro miracolo alla lunga serie di onori accumulati dalla medicina e dalla scienza americana. La scoperta di oggi rappresenta il trionfo della scienza su una malattia terribile”. Gallo aveva individuato un retrovirus responsabile dell’AIDS. E aggiunse che “un vaccino per prevenire la malattia sarebbe stato prodotto entro i due anni successivi”. Da allora ad oggi sono passati quasi quarant’anni, non è stato trovato alcun vaccino e ci sono stati alcuni milioni di morti per AIDS.

La stessa cosa sta accadendo oggi con la pandemia da SARS-Covid-19, che ha seminato contagi e morti (si parla di circa 20 milioni di vittime in due anni). provocando un panico sociale ancora maggiore di quello provocato dall’AIDS, viste le diverse modalità di contagio. E, anche questa volta, la medicina si è trovata del tutto impreparata, mostrando una fragilità e una incertezza epidemiologica e clinica impensabile. Chiedersi come mai questo sia accaduto ancora una volta è inevitabile. Esistono, certo, fattori sociali e politici importanti, come la mancanza di adeguati piani epidemiologici, o il mancato rispetto di alcune regole anti-pandemiche essenziali, o la lentezza e l’inesperienza della ricerca su nuove patologie infettive, ma tutto ciò non basta. E allora? Esiste un concetto medico molto poco noto che ci spiega come si origini una epidemia. E’ quello di “patocenosi”, cioè un insieme di stati patologici che sono presenti all’interno di una determinata popolazione in un momento dato. La frequenza e la distribuzione di ogni malattia dipendono, oltre che da diversi fattori endogeni ed ecologici, dalla frequenza e dalla distribuzione di tutte le altre malattie. La patocenosi tende a uno stato di equilibrio, cosa che si avverte in modo particolare in una situazione ecologica stabile, nella quale, insomma, le malattie in qualche modo ‘convivono’ fra loro, senza tentare di prevalere una sull’altra, molto spesso in una relazione di simbiosi, ma anche di antagonismo: capita che una malattia ‘aggredisca’ un’altra malattia e la costringa in posizione subalterna. E’ il caso, famoso, della relazione fra talassemia (l’anemia mediterranea, per intenderci) e la malaria: semplificando molto le cose, la prima protegge dalla seconda, per cui nel bacino del Mediterraneo esiste una percentuale altissima di questo tipo di anemia che difende, però, dalla malaria, oggi quasi scomparsa. Tutto questo richiede però una condizione sostanziale: l’equilibrio ecologico. Quando tale equilibrio viene alterato o modificato, si altera anche l’equilibrio nella patocenosi. Ed esplodono le pandemie. Virus e batteri sono parte integrante del nostro ecosistema. Spesso di pensa che, alcuni di loro siano stati sconfitti dalla medicina. E’ una convinzione falsa. Non abbiamo sconfitto la peste, il vaiolo o la lebbra: le abbiamo solo confinate, facendo contemporaneamente emergere nuove malattie, molto più ’adattabili’ alle attuali condizioni ecologiche. In una parola, insieme all’equilibrio ecologico (urbanizzazioni, grandi spostamenti della popolazione mondiale, industrializzazione selvaggia, dissesti climatici attribuibili ad essa, deforestazione, sacche di povertà colpevolmente indotte dal Nord-Ovest del mondo, guerre, inquinamento, globalizzazione e via dicendo), abbiamo sconvolto la patocenosi, insieme all’equilibrio ecologico del nostro pianeta. E’ a questo che dobbiamo anche la pandemia di SARS-Covid e non certo a misteriosi esperimenti di guerra batteriologica. Che fare? Le prospettive attuali sono catastrofiche, sono prospettive di guerra. Non basta, così come è giusto, aggredire il virus con tutti i mezzi della scienza medica. Il nemico che dobbiamo combattere è la nostra convinzione di essere padroni del mondo e non semplici ospiti. La convinzione di potere dominare la natura con metodi da guerra totale, dobbiamo dimenticarla o, per parafrasare Lucrezio, semmai restituirla – chiedendo gli interessi – a chi questa guerra totale vuole continuare a farla.

Giovanni Iannuzzo