Antonio Castelli, lo scrittore di Castelbuono rivalutato dopo la morte

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Antonio Castelli (Castelbuono 1923 – Palermo 1988), scrittore, cultore di musica, osservatore del mondo contadino e della realtà agricola della propria terra, fu amico di Leonardo Sciascia che cercò di aiutarlo a emergere.

Invero Castelli si distinse (e si distingue nel ricordarne originalità e acuzie di vedute, travagli, decisioni improvvise, ansie fino alla tragedia finale) per la coerenza di restare in Sicilia, dove, tra Castelbuono, Cefalù e Palermo condusse l’intera sua vita.
Cefalù è stata da Castelli eletta a seconda “madrepatria”, predilezione ben accolta nei luoghi della città deputati a recepirne i significati, infatti nel 1986 l’Amministrazione comunale cefaludese deliberò per lo scrittore di Castelbuono la cittadinanza onoraria, come riconoscimento del legame affettivo che questi aveva continuato a mantenere con il territorio e segnatamente con Cefalù: “Terragno, per il fittone campagnolo della mia nascita… sono Cefaludese, ‘marino”, ‘marinaro” di spirito e di spiriti, per formazione e vita, per ‘cibo” e ‘bolo” e coste e fondali e iridescenze interiori”.)
Palermo, nella cui Università il futuro scrittore si era laureato in giurisprudenza, non sembra lo abbia granché attratto, la sua preferenza subliminale rimase legata ai luoghi di nascita e quindi dell’infanzia e dell’adolescenza. Un episodio che apre a tanti significati circa le scelte di Castelli potrebbe essere il rifiuto di restare dipendente della Regione Siciliana, in un impiego per il quale aveva pur concorso e vinto. Vi rimase per l’esperienza di un paio di mesi, poi le dimissioni. E a questo punto è indispensabile annotare che Castelli, alla luce della realtà dei nostri giorni valutata nel suo aspetto di evoluzione ambientale, e dell’abbandono delle campagne, è stato fin dai suoi primi scritti profetico circa l’avvenire tra l’uomo e l’ambiente.
Vi fu tra le voci critiche interessate al suo esordio con Gli ombelichi tenui,(1962) quella del critico palermitano Salvatore Orilia, che recensendo l’opera si spinse a interpretare nella narrativa del Castelli un polo agricolo meridionale descritto come l’altra faccia della realtà ambientale italiana, rispetto alla narrativa degli stessi anni, come squillava dalle pagine di Linea gotica di Ottiero Ottieri, cantore del mondo delle fabbriche del nord Italia. Orilia adombrava nell’opera del Castelli una artefatta occasione per far eco da una sponda diversa a quella che in quel momento riscuoteva successo.  Invero quella di Castelli è stata una linea vissuta, cioè personale e autentica, nella quale il narratore esprimeva il proprio “fittone campagnolo” assecondando la propria indole di osservatore incline a indagare oltre l’apparenza, per cogliere i segnali di disfacimento, preludio di un mondo che presto avrebbe perduto la propria identità fino a cancellarla. Quella identità che una sola frase di Leonardo Sciascia ci fa capire più di quanto non abbia saputo cogliere, negli stessi momenti epocali, il saggio di Salvatore Orilia.
Scriveva Leonardo Sciascia in una nota di Morte dell’Inquisitore. “E mi hanno accompagnato in questo lavoro, cosi come certi temi e frasi musicali per ore o per giornate intere a volte ci accompagnano, certe notazioni (di natura musicale appunto) del mio amico Antonio Castelli: quelle che nel suo finissimo libro che s’intitola “Gli ombelichi tenui” dicono delle nostre radici (sue come mie), del nostro respiro, della nostra misura umana nel paese in cui siamo nati”. Un giudizio che troviamo spesso citato nelle schede bibliografiche su Castelli, e contiene quanto di imprescindibile bisognerà tener conto sulla narrativa del geniale scrittore madonita. Erano gli anni dell’emigrazione che avveniva in massa da tanti centri di tutta la Sicilia. Un fenomeno su cui le scritture di Castelli ponevano attenzione come nessuna altra voce isolana, gli anni in cui un altro amico di Sciascia, l’insegnante nisseno di Delia, Stefano Vilardo, pubblicava da Garzanti Tutti dicono Germania Germania. Antonio Castelli intercettava in quel fenomeno migratorio il principio della fine della civiltà agricolo-contadina in Sicilia: “Lavoratori della terra siciliani  costretti a ‘deportarsi’ in Germania per vivere e far vivere i familiari con le ‘rimesse’.  Si noterà il “deportarsi” che lo scrittore adopera per far capire la gravità del fenomeno.
E citiamo ancora Sciascia, di cui abbiamo anche accennato carenza di decisa incisività nel potere aiutare l’amico Castelli. Ma non vogliamo essere fraintesi circa l’adamantina lealtà del grande scrittore di Recalmuto, che non si tirava indietro mai nel professare le proprie ponderatissime scelte e principi. Ma aveva il senso della misura e una straordinaria sensibilità che non lo inducevano a non ripetere sollecitazioni, perché aveva perfetta coscienza di quanto si impegnava a chiedere e si fermava quando incontrava ostilità preconcette. Un esempio di tale linea morale lo troviamo proprio percorrendo l’iter della fortuna di Antonio Castelli. L’episodio si è verificato a Zafferana etnea, in occasione del Premio letterario Brancati- Zafferana 1968. Sciascia vi sostenne l’opera narrativa di Castelli contro il muro di solidarietà precostituita del trio Maraini, Moravia Pasolini, fautori del libro di Elsa Morante, che alla fine ebbe il premio, perché venne a mancare al gruppetto dei giurati siciliani (Ronsisvalle, Consolo e Piccolo solidali con Sciascia) il voto proprio di Lucio Piccolo che, col pretesto di un guasto alla sua “Ducati”, la motocicletta in sella alla quale era arrivato da Capo d’Orlando, si era eclissato e aveva delegato Pasolini per il voto.
Ebbene? Sciascia rimase molto male, e non fece mistero di tale sua “sconfitta” confidando a noi che lo avevamo prelevato da Zafferana in auto per una puntata ad Acireale a incontrare i giovani del Gruppo Convergenze Ciclopi nella sede di Piazza San Domenico. Durante il percorso ci confidò, sfogandosi, alcuni particolari sul travagliato verdetto della giuria; e insistendo sul merito dell’opera di Antonio Castelli, concluse con amare riflessioni sulla “dipendenza” che spesso dimostrano tanti siciliani quando nel momento di scegliere pro o contro un corregionale si dimostrano plagiati dal potere delle industrie culturali del Nord. E testualmente aggiunse: “Non è Antonio Castelli lo sconfitto di oggi ma lo stesso significato del premio di  Zafferana e la cultura siciliana con la dolente realtà che di essa propone uno scrittore puro.”
Adesso a confronto con gli sviluppi seguiti alla tragica morte del Castelli, si può affermare che qualche buon segno si è realizzato a favore della memoria delle sue scritture letterarie. Anzitutto con la pubblicazione dell’Opera omnia, edita da Salvatore Sciascia e curata da uno specialista che vi ha profuso, oltre alla propria preparazione di alto livello scientifico-letterario, una straordinaria sensibilità critico-analitica; ci riferiamo a Giuseppe Saja che ha magistralmente commentato le opere di Castelli indagandone acutamente aspetti umani della personalità, fino a spiegarne risvolti utili a illuminare di ulteriori, importanti significati, l’intera produzione dello scrittore castelbuonese
L’altra “fortuna” è arrivata con il gesto della vedova dello scrittore. La signora Liana Di Pace ha infatti donato al Comune di Castelbuono la casa e il giardino già proprietà del marito; simbolicamente un auspicio a non abbandonare l’agricoltura e le sue tradizioni in omaggio ai principi che Antonio Castelli aveva sostenuto con le proprie scritture letterarie e con le stesse scelte di vita. Per le opere di narrativa edite ricordiamo: Ombelichi tenui (1962); Entromondo (1967); Passi a piedi passi a memoria (1985). Confluite nella citata Opera Omia, curata da Giuseppe Saja per le prestigiose edizioni Sciascia.
Mario Grasso