L’adesione a miti identitari e la non accettazione dell’alterità, nelle sue manifestazioni più estreme, è quasi sempre associata al ricorso ad una repressione violenta. Dai roghi delle streghe, alle incursioni del Ku Klux Klan, ai lager nazisti gli esempi di intolleranza violenta nei confronti del diverso sono numerosissimi. Ma non sempre la reazione alla diversità si manifesta in maniera plateale, o esplicita. Esistono forme ‘trasversali’ di violenza, che, in modo sottile, possono caratterizzare comportamenti individuali e sociali. Una di queste forme di violenza silenziosa è la prepotenza.
Nell’occuparsi dell’idea stessa di prepotenza nella storia della civiltà, delle sue origini, delle sue motivazioni, delle sue espressioni e dei modi di superarla, si deve compiere uno sforzo importante, soprattutto di sintesi. Perché la prepotenza percorre l’intera storia dell’uomo, ancorché sia stata correttamente definita per la prima volta nel ‘600. E non è poi cosa facile andare a rintracciarla nello specifico degli eventi umani, andare a distinguerla da altre forme di violenza – la categoria generale alla quale appartiene – o andare a collocarla nel contesto di un dibattito che è al tempo stesso sociale, politico, esistenziale, economico. Il concetto di prepotenza è infatti anomalo. Esso non afferisce ad alcuna specifica disciplina, non è prettamente sociologico, non è psicologico, non è politico, non è storico, non è teologico, non è filosofico. Eppure tutte queste discipline se ne sono interessate, per il semplice fatto che la prepotenza è caratteristica presente in tutte le epoche e le espressioni umane. La prepotenza esiste, ma non è codificata, esiste, ma non viene esaminata. Da alcuna scienza. Tutti sappiamo che esiste, ma nessuno sembra volerla in qualche modo riconoscerla, accettarla, criticarla; una specie di “Primula Rossa” concettuale.
Fromm si è occupato della distruttività umana. Freud si è occupato della guerra, della violenza, dell’aggressività. Marcuse dell’oppressione. Foucault della repressione violenta di ogni forma di presunta devianza sociale. Lorenz dell’aggressività intraspecifica. Andreoli ha scritto un libro molto bello sulla tendenza all’uccidere nei giovani. L’aggressività, la distruttività sono insomma argomenti profondamente indagati. E invece la prepotenza?
Di certo è un comportamento che afferisce alla “categoria” della violenza, ma ha la subdola caratteristica di essere quasi evanescente, ben più ubiquitaria, ben più “trasversale” ed onnipresente. Certo, diventa meno rilevante, meno “visibile” di fronte alla violenza dei grandi eventi storici o ai comportamenti criminali di personaggi particolarmente perversi, ma sempre di violenza si tratta, per quanto di una fattispecie particolare.
Erich Fromm indagando sulla distruttività umana ha elaborato una suggestiva patografia di Hitler. Ma è scontato parlare di Hitler a proposito di distruttività. Intendo dire che questi concetti legati ad un più ampio concetto di violenza hanno degli stereotipi. La prepotenza no, è fenomeno universale, certo, ma è anche banalmente quotidiano. In questo consiste la sottile inquietudine che una discussione sulla prepotenza suscita. Pensate che addirittura – ed è il colmo! – uno studio della prepotenza non è nemmeno area di azione della psichiatria, l’interprete più autorevole forse dei comportamenti patologici e in qualche modo la “custode” della norma, il gendarme della società moderna (nella sua accezione sicuramente meno lusinghiera).
In psichiatria la prepotenza viene solo considerata come “sintomo” di altri comportamenti anomali, mai comportamento anomalo esso stesso. Il soggetto maniacale è prepotente, lo è anche il soggetto isterico, lo è il borderline, lo è il caratteriale. Ma questi soggetti sono malati, presentano un sintomo. Allora, dovremmo dedurne che le malattie mentali sono diffuse dappertutto, ben più della peste nera nel Medioevo, ben più delle infezioni virali, ben più di qualsiasi altra malattia, poiché avrebbe, nel moderno mondo occidentale una prevalenza quasi totale. In realtà non è affatto così. la prepotenza è caratteristica di comportamento, non certo patologia psichiatrica: l’esserlo la giustificherebbe. Rimanda, tutto questo, alle celebri ricerche sulla patologia psichiatrica dei gerarchi nazisti: schiere di psicologi, all’epoca del processo di Norimberga, si dedicarono a ricerche di tratti psicopatologici in criminali nazisti responsabili del genocidio degli ebrei. Ma le ricerche non approdarono a nulla, e si vide semplicemente che il profilo di personalità di questi criminali in fondo non differiva granché dal profilo di personalità del tedesco medio. La stessa cosa vale per la prepotenza: se è una malattia è una malattia dell’etica, di certo non è una malattia psichiatrica. Di fatto, però, questo morbo della morale ha caratterizzato pesantemente l’evoluzione storica dell’occidente, e di conseguenza, l’evoluzione storica del mondo intero. Di fatto oggi la prepotenza ha creato una discrepanza enorme tra mondo rappresentato e mondo reale.
Il mondo rappresentato è ovviamente il Nord Ovest del mondo, il migliore dei mondi possibili. Nel periodo del “new deal” di Roosevelt il motto americano era che gli Stati Uniti assicurassero “the highest standard of living”, giusto in un momento storico nel quale la disoccupazione aveva raggiunto livelli straordinariamente rilevanti, con gravi problemi di natura sociale: segregazione razziale, classismo, stato sociale quanto mai deficitario. Anche oggi è così: il mondo rappresentato è quello che fa comodo a una minoranza della popolazione mondiale.
Ma il mondo reale è un altro: è quello della fame, del sottosviluppo, delle culture distrutte e avvilite dal colonialismo, dei tanti integralismi sorti come difesa dalla prepotenza occidentale. Ma è anche quel Sud del mondo all’interno del Nord del mondo, quelle sacche sempre più ampie di emarginazione che esistono nel sud del mondo. Sacche inevitabili nel sistema capitalistico, fondato sul concetto di profitto, sul liberismo economico (novella forma di schiavitù), e su valori come la rimozione della storia, la negazione del passato. Il che mi porta necessariamente ad affrontare il problema del disagio dell’adolescenza contemporanea. Il disagio adolescenziale va senz’altro considerato un indicatore fondamentale di malessere sociale. Non si tratta di un problema piccolo o irrilevante. Ma anche in questo caso è anche troppo evidente come vengano posti in essere dalla società occidentale moderna dei meccanismi violentemente proiettivi: sono allora quasi esclusivamente i giovani a rappresentare figure e modelli negativi: questi ignoranti, questi cattivi, questi “drogati”.
Nessuno si chiede – o forse tutti ce lo chiediamo, ma troppo poco – da chi questi giovani abbiano poi imparato ad essere in tal modo. E’ un vecchio problema che implica, e non poco, la responsabilità degli insegnanti, la funzione della scuola, il che appare assolutamente legittimo, da cui la necessità di corsi di formazione e di aggiornamento per gli insegnanti, ma anche, – e forse soprattutto – corsi di formazione e sostegno per genitori. E’ da essi che i figli imparano, e non si può pretendere che il figlio del manager, del politico o del professionista tutto telefonino, arroganza e rampantismo sia un coacervo di virtù. Ma i figli di persone simili possono in genere apprendono i modelli genitoriali, magari reagendo ad essi con disagio, e quindi continuando a vivere nella loro solitudine esistenziale, nel vuoto di valori che fa da contrappunto allo stile di vita familiare.
Ci sono inoltre un paio di argomenti che mi appassionano particolarmente: l’uso della televisione come strumento di “omologazione” della ragione moderna, e come strumento di controllo sociale e psicologico e, con le stesse finalità, e l’uso delle nuove tecnologie informatiche. Si tratta di argomenti di enorme interesse, purtroppo spesso trascurati se non addirittura quasi negletti.
Anni fa, in tempi diciamo non sospetti (credo intorno al 1987) condussi all’università una ricerca sul rapporto tra salute mentale e televisione, ed elaborai l’ipotesi che l’ascolto televisivo potesse essere considerato esposizione ad un vero e proprio stress proprio per la riproposizione continua di atteggiamenti e comportamenti violenti. Certo, la violenza in televisione esiste; ma, attenzione, non è solo violenza brutale e spicciola; anzi, non è quella la vera violenza. La vera violenza è quella della pubblicità, dei messaggi contradditori e stupidi, quelli che tendono a creare, ad arte, bisogni inutili, assolutamente e unicamente indotti, a creare nella società contemporanea, già così atrocemente travagliata una logica schizofrenica, doppia, infida e infingarda. Ma guardate la pubblicità: dove per propagandare dei semplici profumi, si utilizzano nomi commerciali come “Arrogance” o “Egoiste”, con uno spot pubblicitario dove le finestre di un condominio si chiudono in faccia a tutti, o si enfatizza nella pubblicità di un dopobarba “l’uomo che non deve chiedere mai”, a conferma del fatto che il culto del Sé – patologico e aggressivo – si impone e si deve imporre su tutto e su tutti. Queste forme di comunicazione sono prodotte da un mondo unipolare e da un processo di omologazione planetaria.
Ed è un mondo unipolare nel quale è vero solo quello che il sistema dominante sancisce come vero. Il sapere del mondo unipolare stabilisce cosa sia osservabile, cosa sia vero e cosa sia falso. Così, non possiamo che trarre la conclusione che il mondo deve essere così come viene descritto dalla minoranza che lo governa, che nondimeno lo domina. E l’unica descrizione dominante è quella del mondo come gigantesco supermercato, dove, come ho detto una volta, puoi comprare tre e pagare uno, semplicemente perché da qualche altra parte qualcuno compra uno e paga 10.
O semplicemente non compra nulla, perché non può comprare alcunché. La folle giostra del mercato planetario continua imperterrita a girare, anzi gira proprio perché trae la sua energia cinetica dall’attrito fra la grande povertà di molti e la grande ricchezza di pochi.
Non si può negare che questo sia un prodotto della ragione moderna, Una ragione che parte dal presupposto che esiste un solo modo di vedere le cose, una sola cultura possibile.
Certo, si deve anche ammettere che esistono segni di ripensamento sociale relativamente al monolite di una incontrastata cultura dominante.
Dopo Levi Strauss, in antropologia culturale, le lotte anti-imperialiste delle nazioni del cosiddetto Terzo Mondo in campo politico, ma anche l’intervento forte di alcuni settori della Chiesa Cattolica in campo dottrinario, l’Occidente ha dovuto ammettere la sostanziale dignità di culture e sistemi di pensiero “altri” rispetto a quello occidentale moderno. Ma si tratta di un riconoscimento teorico che, in realtà, lascia il tempo che trova.
Mi pare importante sottolineare l’importanza della ricerca di un equilibrio – esattamente il contrario della prepotenza – all’interno di quel gigantesco sistema omeostatico che è la società moderna; il concetto dell’essere contrapposto all’avere; il concetto di responsabilizzazione; l’invito pressante ad una interazione e interrelazione con gli altri, unico antidoto al veleno dello sfrenato individualismo; la necessità, che si intravede, tutta marcusiana, di un riequilibrio tra attività produttive e creative e solidali ed “eticamente politiche”.
Non possiamo negare che, purtroppo, la prepotenza, l’utilizzazione spregiudicata del potere, dei mezzi di produzione, della prevaricazione non sono strumenti discutibili usati solo da chi gestisce in qualche modo il potere. Esiste un meccanismo proiettivo, che va scardinato, a partire da una attenta, severissima autocritica, e dalla autentica esigenza di cambiare. Bella l’idea di una società che sia sempre meno affidata ai politici professionisti, alle istituzioni, e sempre più alla società civile, ai movimenti, al volontariato responsabile. Non esiste una ‘prepotenza cattiva” e una “prepotenza buona”. Ma la prepotenza è tale, qualunque sia la sua finalità e il suo credo. E combattere la prepotenza, in ogni sua forma, relazionale, economica, politica, sociale è argomento che riguarda tutti soggettivamente, un vero imperativo categorico, come ci ricorda Eraclito quando scrive: “Bisogna spegnere la prepotenza più che un incendio”. Non è un compito facile, ma riguarda ciascuno di noi quasi come impegno etico costante, una norma etica, al tempo stesso individuale e sociale, che dovremmo non dimenticare mai.
Giovanni Iannuzzo