Alla ricerca della sede dell’anima: dalla preistoria alle neuroscienze, andata e ritorno

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La vita, intorno a 50 mila anni fa, durante l’ultima grande glaciazione del Pleistocene (detta ‘glaciazione di Wurm) non doveva essere particolarmente facile per le nuove specie dell’Homo Sapiens Sapiens, e dei suoi diretti cugini neandertaliani, entrambe emerse dal fitto delle foreste o dalle pianure erbose della savana per cominciare infinite migrazioni in cerca di cibo. Era non solo non facile, ma anche pericolosissima. La raccolta del cibo implicava enormi fatiche e stenti, la caccia pericoli ancora maggiori. Gli animali da cacciare non erano innocui coniglietti ai quali sparare da lontano con fucili a pallini, ma giganteschi e feroci mammut, erbivori, ma nient’affatto disposti a farsi ammazzare da quegli strani e feroci bipedi che li inseguivano, anche per giorni, con lance dalla punta di selce. Diciamo che i mammut non erano animali molto collaborativi. A ciò si aggiungano incredibili condizioni climatiche, le malattie e quant’altro poteva caratterizzare società appena nate, che a stento stavano imparando a conoscere il fuoco. Appare ovvio che, presso queste popolazioni, la morte fosse un evento abituale, quotidiano: che però le sorprendeva, le inquietava. Cosa mai accadeva? Perché un membro del gruppo a un certo momento diventava un corpo freddo, privo di tutte quelle caratteristiche che lo avevano prima identificato, e soprattutto perché diventava immobile? Deve essere stato gioco-forza pensare che qualcosa, ciò che lo muoveva, se ne fosse andato da qualche altra parte, avesse abbandonato quel corpo. Come scrive Brewer: «L’uomo primitivo ha sempre collegato l’arresto dei movimenti che consegue alla morte con lo staccarsi dal corpo di uno spirito, invisibile e onnipresente, capace di esistenza separata e indipendente» .

Che ciò sia vero è ampiamente dimostrato dai reperti archeologici: «La pratica della sepoltura dei morti è conosciuta dai neandertaliani e testimonia di una probabile attenzione verso problemi metafisici. Il corpo è adagiato in una fossa e spesso accompagnato da offerte. Accanto a queste testimonianze, altre (tracce di strumenti da taglio sulle ossa) sembrano suggerire l’esistenza di pratiche di cannibalismo, forse rituale …» .

È evidente che l’uso della sepoltura dei morti fu connesso sin dalle origini all’idea che l’individuo vero fosse rappresentato da un’anima, uno spirito che alla morte abbandonava il corpo. Le offerte funebri servivano all’individuo-spirito, dovunque fosse andato.

Il problema fu probabilmente quello di capire dove lo spirito albergasse mentre il corpo era in vita.  Inizialmente la sede dello spirito fu ipotizzata nel sangue e conseguentemente assunsero importanza determinante gli organi riccamente irrorati e in rapporto diretto con il sistema vascolare, per esempio il cuore, per secoli sede elettiva dei sentimenti, delle sensazioni, delle emozioni. Ci furono anche delle eccezioni. Nella seconda metà del VI secolo a.C. Alcmeone di Crotone aveva sostenuto che pensiero e sensibilità avevano sede nel cervello. Nel corpus degli scritti ippocratici c’è qualche riferimento al cervello, ma con la funzione di una sorta di impianto di raffreddamento del corpo (la funzione sarebbe stata quella di aspirare acqua e muco dal sangue, mentre il naso fungeva da organo escretore). Nel terzo secolo a.C. il grande Erofilo , medico, anatomico e naturalista della scuola di Alessandria, fu il primo a identificare pienamente la struttura del sistema nervoso, la funzione del cervello e – sembra – addirittura quella dei nervi periferici.

Sebbene questi fossero importanti successi nella conoscenza dell’anatomia umana restava misteriosa la relazione fra tra cervello e mente, spirito e comportamento. Le sedi dell’anima si andarono modificando con il tempo; le funzioni della mente restavano comunque un enigma. Bisogna aspettare almeno sino a Vesalius, nome latinizzato (si chiamava in realtà Andreas van Wescle) del medico e anatomista fiammingo nato a Bruxelles nel 1514 e morto a Zante nel 1564, che fu il primo a identificare i fenomeni psichici con il sistema nervoso, alle cui caratteristiche si riferisce comunque come pneuma animale. Certo, nel suo amore per la scienza sembra che non sia andato tanto per il sottile, ed infatti l’Inquisizione lo condannò a morte nel 1561 per aver sezionato un uomo vivo. Poi, grazie ai buoni uffici di Filippo II di Spagna (il cui figlio aveva guarito di una grave frattura cranica) la pena gli fu commutata in un viaggio da effettuare in Terra Santa. Si ammalò nel viaggio di ritorno, e fu sbarcato a Zante, dove morì.  Poi fu la volta di Renè Descartes, più noto come Cartesio, i cui studi di fisiologia, per quanto ingenui alle luce delle conoscenze moderne, fornirono una buona rappresentazione simbolica del funzionamento del sistema neuromuscolare. Questo autore, però non riuscì a trovare una connessione tra cervello, sistema neuromuscolare e mente. Ebbe quindi l’idea di un’anima razionale che aveva ha sede nella ghiandola pineale, un organo del quale non si conosceva la funzione reale, ma che aveva il vantaggio di essere in una posizione mediana, quindi tutto sommato “strategica”, come suggerisce il neurologo Cyril Brewer. L’anima razionale aveva capacità di pensiero, di conoscenza, di sensibilità. Tutti gli altri eventi potevano essere spiegati in termini meccanici. Venne insomma formalizzato quell’indirizzo (che comunque esisteva già da millenni) che sarà poi chiamato “dualismo”, la separazione tra spirito e materia, tra mente e corpo.  La sostanza di questo nuovo approccio è la netta separazione tra gli aspetti “spirituali” (nel senso di mentali o ‘sovra-mentali’) dell’uomo e quelli fisici. È si tratta di un fatto importante proprio perché la mente e lo spirito vengono per la prima volta ‘staccate’, anche fisicamente, dal corpo: in altri termini tutti gli aspetti dell’esperienza umana che non trovano una collazione nell’universo ‘fisico’, vengono considerati come un’entità a se stante, non indagabile pertanto scientificamente.

Di certo, col progredire delle conoscenze sull’anatomia e sulla fisiologia del sistema nervoso centrale, dal ‘600 alla fine del ‘700 vi fu una vera esplosione di scoperte sulle correlazioni fra mente e cervello.  Si cominciò a comprendere in modo sempre più preciso la funzione dei fenomeni fisiologici elettrici, la struttura microscopica  del sistema nervoso centrale, la sua topografia. Fu però solo nella seconda metà dell’Ottocento che gli studi sul cervello e sul sistema nervoso  ricevettero impulsi (è proprio il caso di dire…) prodigiosi. Vennero identificate le prime aree cerebrali che sembravano presiedere a funzioni specifiche (per esempio il linguaggio), e si cominciò a ritenere possibile che ogni area cerebrale avesse una sua specifica funzione. Paul-Pierre Broca scoprì la localizzazione della sede cerebrale del linguaggio articolato, nella terza circonvoluzione frontale sinistra. Lesioni in questa area provocano l’afasia. Erano ovviamente osservazioni che passavano per la clinica: se un’area cerebrale era lesionata, ciò conduceva ad un certo tipo di disturbo. Se ne poteva dedurre che quell’area era specifica per la funzione che, con la sua integrità garantisce. Si attivò un vero delirio di ricerche sulle localizzazioni cerebrali, sino a concludere che ogni funzione potesse essere rintracciata in luoghi specifici del cervello. Era, in fondo, una rilettura, non sappiamo quanto inconsapevole, delle teorie di Franz Joseph Gall (1758-1829), un medico tedesco inventore addirittura di una scienza (la frenologia) convinto sostenitore dell’esistenza di localizzazioni anatomiche cerebrali, rilevabili dalla stessa forma del cranio, come chiave interpretativa di tutte le attività psichiche. Egli, secondo il parere di Zilboorg, famoso storico della psichiatria, “tentò di ridurre l’intero campo della psicologia alla localizzazione cerebrale, come si fa anche oggi con diversa metodologia. Lo studio del Gall fu esclusivamente anatomico: tentò di provare che ogni parte o zona del cervello avesse da compiere una speciale (piuttosto complicata) funzione psicologica, e che ognuna delle parti più importanti, o formazioni del cervello  fosse improntata alle configurazioni del cranio”. ‘Scoprì’ così che la sede dell’amore carnale era nel cervelletto, e che pertanto i casi di isteria, chiaramente da identificare come di origine sessuale, avevano lì la loro origine. Certo, quelle di Gall appaiono oggi delle vere ingenuità scientifiche. E che ogni disturbo psichico avesse una propria origine anatomica cerebrale fu cosa contestata dagli stessi ‘psichiatri’ dell’epoca di Gall, anche perchè la sua teoria era assolutamente indimostrabile. Eppure, di fronte alla considerazione medica generale, e cioè che i problemi psichiatrici non fossero altro, come dice Zilboorg che “una massa di fenomeni curiosi, importanti solo in quanto indizi di malattia cerebrale”, i neurologi di fine ottocento si rimisero sulle tracce di Gall. Certo, con maggiore precisione, e metodi migliori, ma la sostanza del discorso era la stessa. Cervello e comportamento erano la stessa cosa. La ghiandola pineale di Cartesio, che connetteva corpo e anima, era stata sostituita dalle localizzazioni cerebrali. Il discorso era chiuso. O meglio lo fu sino a quando un altro neurologo, Sigmund Freud, alla fine dell’Ottocento non lo riaprì prepotentemente. Pur essendo un positivista, si rese conto che la mente era un ‘sistema’ con sue proprie leggi, modalità di funzionamento e una sua ‘architettura’ che non poteva essere insomma semplicemente spiegata dal semplicistico modello di localizzazione cerebrale. Nel comportamento e nella sua modulazione normale e patologica intervenivano altri fattori (familiari, relazionali, culturali, affettivi,  di molti dei quali l’uomo non è consapevole perché sono ‘inconsci’). Non negò mai che la mente fosse un prodotto del cervello, affermò semmai che essa funzionava secondo leggi e modelli che le erano propri e non strettamente legati all’anatomia e fisiologia cerebrale. Non sempre, non comunque. E sempre lui riteneva che questa modello sarebbe rimasto valido sin quando i meccanismi funzionali del cervello e la loro interconnessione con il comportamento umano non fossero stati del tutto chiariti. Nonostante altri tentavi in questo senso fossero già stati fatti da altri filosofi e psicologi, il ‘sistema’ fondato da Freud rappresentò una vera rivoluzione nello studio del comportamento umano. Le neuroscienze, oggi, stanno definendo, con sempre maggiore precisione, come avvengano le relazioni fra strutture anatomiche, micro-anatomiche e biochimiche fra cervello e attività mentali, realizzando quello che era in origine, prima della ‘scoperta’ della psicoanalisi, il sogno Di Freud.

Ma in tutto questo folle e vorticoso girotondo, fra anatomici, filosofi, neurologi, psichiatri, qualche visionario che si tengono per mano, lo spirito, l’anima intuita dai nostri progenitori neandertaliani e sapiens, dove è andare a finire? Non partecipa al girotondo, semmai gioca a nascondino. Qualcuno la vede, qualcun altro la intuisce, c’è chi ne nega l’esistenza e chi di tale esistenza è certo. Di certo, dopo Galileo, la scienza deve seguire un metodo preciso che implica non solo l’osservazione e l’esperimento, ma anche la definizione e la deduzione matematica e la misurazione. L’anima di certo non è misurabile. Quindi si pone al di fuori di ogni possibile definizione scientifica o empirica. L’argomento della sua esistenza, della sua natura e del suo destino riguarda la metafisica e la religione. Nulla di nuovo. I nostri remoti progenitori, sparsi nelle foreste o nelle savane primordiali del Pleistocene, lo avevano già intuito decine di migliaia di anni fa.

Giovanni Iannuzzo

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