Disagio familiare e affido

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E’ inevitabile la connessione tra disagio familiare ed affido, e lo è, in apparenza, in quanto alla base della necessità dell’affido c’è assai spesso il problema della violenza intrafamiliare sui minori. Certo, quando si affronta questo argomento si resta in genere legati a stereotipi, un po’ alla David Copperfield. Non a caso le problematiche legate all’abuso all’infanzia sono in genere connesse alla cosiddetta ‘sindrome del bambino battuto’, e quindi alla violenza fisica subita dai minori all’interno della loro famiglia di origine. Oggi però il problema è diverso, sicuramente più complesso: esistono forme quanto mai diversificate di abuso all’infanzia, che sono peraltro mediate dalle modificazioni della stessa struttura sociale, dei mezzi di comunicazione di massa, dei meccanismi relazionali intrafamiliari, del ruolo stesso della famiglia nel contesto macro-sociale.

Ed è certamente il caso di sottolineare come il problema del disagio familiare, e conseguentemente dell’abuso sui minori sia oggi drammaticamente più evidente che in passato, ancorché non si tratti certamente di un problema nuovo.

Non a caso si preferisce oggi la dizione anglosassone di child abuse, per indicare qualsiasi forma di abuso all’infanzia e di maltrattamento subito dai bambini. In questo contesto c’è da aggiungere che la violenza fisica, paradossalmente, è forse la forma minore – ancorché più drammaticamente evidente e ripugnante – di abuso all’infanzia.

Questo punto di vista risulta certamente più evidente se riflettiamo un momento sui mutamenti sociali della e nella famiglia, sino ad una totale ristrutturazione degli assetti e dei ‘movimenti’ interni che l’hanno caratterizzata.

Voglio solo riflettere brevemente sul fatto che si è passati, in pochi anni  dalla famiglia estesa – che comprendeva quindi ed utilizzava come supporto figure parentali ‘altre’ rispetto ai genitori –  alla famiglia nucleare, del tutto priva proprio di tali sostegni parentali. La famiglia estesa aveva caratteristiche importanti in termini di senso di identità del gruppo, mediazioni multifocali di conflitti interni, supporto pedagogico, varietà e ricchezza di stimoli. Aveva insomma una maggiore stabilità, ed al contempo, una maggiore flessibilità nel contesto di quella che potremmo definire una continuità culturale. Oggi la situazione si è totalmente modificata: si è passato alla famiglia nucleare, quasi esclusivamente centrata sulle figure genitoriali in contrapposizione alle figure dei figli (spesso del figlio unico), una entità con ruoli scarsamente definiti, ruoli plastici, modificabili, elastici, non protettivi.

Infatti, le nuove esigenze economiche (sia reali, sia indotte) hanno imposto un cambiamento dei ruoli genitoriali, e quindi una sempre maggiore assenza delle figure genitoriali in quello che potremmo definire l’assetto educativo. La stessa funzione genitoriale è vissuta in termini molto differenti rispetto al passato, con genitori alla costante rincorsa di spazi personali, sempre meno disponibili a farsi carico delle esigenze che vengono espresse ed esperiete dai figli. Direi che la famiglia attuale (post-moderna?) sembra avere delegato la propria affettività, abdicando al ruolo di formazione psicologica, pedagogica, culturale che prima le era deputato. Occorrerebbe ben più tempo di quello programmato per una breve comunicazione, per andare a valutare in dettaglio come e perché sia avvenuta questa trasformazione. Di fatto voglio solo limitarmi, in quanto psichiatra, a valutare i dati disponibili sul rebound che questi cambiamenti hanno avuto sul piano individuale, relazionale e sociale. Credo che la perdita di ruolo tradizionale della famiglia abbia implicato due distinte problematiche: la prima riguarda gli adulti, la seconda i minori. Per quello che riguarda gli adulti credo che sia legittimo dire che si assiste ad un disorientamento generalizzato del genitore adulto, in cerca di nuovi ruoli, di una ristrutturazione dei propri spazi individuali e sociali, di un nuovo modo di leggersi e identificarsi. Se è vero che la perdita di ruoli, per quanto rigidi possano essersi, conduce ad uno stato di confusione che non raramente confina con il disagio psichico, è pienamente accettabile che il ‘genitore-non genitore’ della società post-industriale viva uno stato di profondo disagio. Ed è altrettanto ovvio e accettabile che questo disagio si ripercuota gravemente sui minori, disorientati e totalmente invischiati in una situazione relazionale che sicuramente non soddisfa i loro bisogni, sebbene non riescano a comprendere perché, come, dove. E’ su questo terreno di confusioni, di mancanza di ruoli, di piattezza affettiva che si vanno a strutturare situazioni di disagio tali da sfociare palesemente nella psicopatologia. E’ questo il terreno di coltura dell’abuso all’infanzia da intendere come situazione di disagio spesso grave, che può limitare in misura significativa le potenzialità di sviluppo del bambino, la sua crescita psicologica, il suo stesso senso di identità.  E non è certamente, ancora, un caso il fatto che nei fenomeni di abuso all’infanzia sia frequentissimo il riscontro di psicopatologia genitoriale (nel 93% dei casi di almeno un genitore, affetto da psicosi, nevrosi fobico-ossessive, depressioni, tossicomanie, alcolismo) (Montecchi,1993).

Quanto abbiamo sinora riferito è relativo ad un modello teorico di famiglia media. Ma se a questa situazione storica e sociale andiamo ad aggiungere condizioni ancora più specifiche e particolari, il quadro che ne deriva è catastrofico. A fronte di uno stile di vita più o meno generalizzato, si riscontrano situazioni di disagio sociale obiettivo: disoccupazione o sottoccupazione, condizioni abitative deteriorate,  emarginazione sociale, appartenenza a sottoculture violente o devianti, analfabetismo sono tutte variabili che possono o meno associarsi ad un quadro culturale generale, generando a loro volta una serie di ulteriori condizioni che hanno come sempre un doppio bersaglio: i genitori prima, e poi inevitabilmente i minori. Nei casi in cui certe condizioni intrafamiliari sono ad alto rischio per i minori, l’istituto dell’affido sembra provvedere ad una soluzione.

Il decreto “Approvazione del regolamento-tipo del servizio comunale di affidamento familiare dei minori” (GURS, 30.5.1987, n.22) sancisce i principi fondamentali dell’istituto dell’affido, in perfetta aderenza con quanto stabilito dalla restante legislazione vigente Cito in particolare questo decreto, perchè esso ribadisce con chiarezza quali sono le finalità dell’affidamento, un provvedimento cioè preventivo e alternativo all’istituzionalizzazione per evitare forme di disadattamento e garantire al minore migliori condizioni di sviluppo psicofisico qualora la famiglia di origine si trovi temporaneamente nell’impossibilità di assicurarle.

Il concetto centrale di queste disposizioni, anche sul piano psichiatrico e psicologico, è quello di temporaneità, nel senso che – come lo stesso decreto poi sottolinea ed evidenzia, gli interventi sociali andranno rivolti non solo al bambino, ma anche (e fors’anche soprattutto) alla famiglia di origine affinché essa possa risolvere i problemi che hanno condotto all’affidamento.

Credo che in questo si vada a concretizzare il problema centrale dell’istituto dell’affido: per quanto assai spesso esso sia un provvedimento indispensabile, è ovvio che un suo corretto utilizzo sociale va sempre condizionato al recupero sociale, economico, pedagogico della famiglia di origine.

Possiamo legittimamente affermare che, da questo punto di vista, la legislazione vigente non possa essere definita carente, tutt’altro; semmai appare eccessivamente ottimistica, nel senso che sembra ignorare alcune condizioni obiettive fondamentali.

Sappiamo bene, infatti, quanto sia difficile il recupero della famiglia di origine. Teniamo presente infatti come alla base della decisione di dare in affidamento un minore vi siano sempre delle situazioni sociali esplosive. Abuso (fisico, psicologico, sessuale) sui minori oggetto del provvedimento, gravi condizioni psicopatologiche intra-familiari, situazioni relazionali di grande drammaticità, condizioni di isolamento sociale che perpetuano e potenziano le condizioni di disagio psichico o economico. Come si vanno a risolvere questi problemi? E’ in queste condizioni che si va a rilanciare la sfida dell’affido familiare.

Se infatti l’obiettivo è il reinserimento del minore nel suo nucleo familiare di origine, gli sforzi centrali vanno mirati alla bonifica – mi si passi il termine – delle condizioni di quel nucleo. Questo implica ovviamente una attenta riflessione sull’organizzazione dei servizi e, più in generale, sulle politiche sociali.

Se infatti andiamo a riprendere l’affermazione messa in apertura della legge 184/83 – art.1, comma 1, ribadita poi dalla legislazione successiva, troviamo che “il minore ha diritto di essere educato nell’ambito della propria famiglia”. Questa considerazione viene ulteriormente rafforzata dal fatto che, in un buon numero di casi, l’allontanamento del bambino dal suo nucleo primario è essa stessa situazione di crisi, nel senso che rappresenta comunque per il minore una condizione ad alto rischio di disagio, anche se è indiscutibile che nella tutela dei diritti del minore, vada comunque assicurato che la famiglia di origine possa provvedere ad una serie di bisogni fondamentali: è il cane che si morde la coda: da un lato sarebbe altamente auspicabile non utilizzare l’istituto dell’affido, in quanto connesso a rischio di disagio; dall’altro l’istituto dell’affido diventa indispensabile come risposta ad un disagio già in atto esistente. In un modo o nell’altro il minore deve affrontare comunque una condizione di disagio.

La soluzione ideale sarebbe allora la prevenzione dell’affido, attraverso una corretta politica territoriale e familiare. Si potrebbe dire che il bambino oggetto dell’affido è assai spesso il primo a desiderare che la propria famiglia diventi adeguata.

Ma di fatto dobbiamo ammettere di non disporre nè di servizi territoriali, nè di politiche sociali adeguate. Sul piano dei servizi territoriali non si può non rilevare la cronica mancanza di strutture, operatori e strumenti di formazione. Nella mia esperienza di coordinatore di un Dipartimento di Salute Mentale, al quale fa anche capo una Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile e una equipe multidisciplinare – di norma in stretto collegamento con le strutture consultoriali – tutte unità operative che gestiscono queste problematiche sul territorio, posso rilevare come a fronte di buone intenzioni esistono dei deficit che possono essere solo in minima parte essere compensati dalla buona volontà soggettiva, che pure è ampiamente presente. Ma non credo che la situazione, altrove, nel nostro contesto culturale, la situazione sia molto più rosea.

La mancanza, allora di strutture diviene doppiamente problematica: primariamente essa non consente adeguati interventi di prevenzione delle condizioni di disagio; secondariamente impedisce l’azione di sostegno adeguata in quelle condizioni in cui – intendo dire ad affido effettuato – diviene conditio sine qua non lavorare sulla famiglia di origine.

E’ chiaro che in una tale situazione tutta la problematica sull’affido viene rimessa in discussione. L’affido familiare rischia di diventare non solo l’anticamera dell’adozione, ma soprattutto una specie di area di parcheggio che perpetua i problemi anziché risolverli.

Per quello che poi riguarda le politiche sociali, è esperienza comune che molte situazioni di abbrutimento, sino alla violenza sui minori, derivino da condizioni sociali estremamente problematiche. Abbiamo già accennato al fatto che disoccupazione, ambiente di vita depauperato, isolamento sociale sono anticamere della psicopatologia; la psicopatologia è a sua volta assai spesso anticamera – o fattore di co-morbidità – per l’etilismo, l’etilismo genera violenza, crisi delle relazioni affettive e sociali, ulteriore emarginazione sociale, in un circolo vizioso che somiglia assai a quella domanda popolare che si pone il quesito se sia nato prima l’uovo o la gallina. Qui non sappiamo chi sia nato prima, ma sappiamo sicuramente dov’è il pollaio, dov’è, cioè, quel contesto che genera, comunque e dovunque, situazioni di disagio e di devianza.

Ed è in questo spazio che le politiche sociali devono agire, con interventi di rete, connettendo le competenze di singole agenzie sociali, la scuola, la chiesa, il volontariato, potenziando i servizi e creando condizioni di crescita individuale e familiare. E vorrei qui ricordare come il nostro Paese appare singolarmente carente – talora addirittura assente – per tutto quello che afferisce alle politiche per la famiglia, in particolare in contesti di disagio,  dal supporto economico, alle politiche di consulenza psicologica, all’assistenza scolastica, alle opportunità per i bambini e gli adolescenti (sport, centri ricreativi, corsi di integrazione scolastica, viaggi studio, counseling per i problemi relazionali intrafamiliari e/o scolastici).  In genere si tratta di una politica che guarda alla mancanza, ma senza individuare risorse gestibili, che interviene sulla patologia anziché sulla salute, guarda persino all’apprendimento di corretti moduli pedagogici fondandosi su una filosofia dell’errore come momento inalienabile di crescita, piuttosto che sul successo come strategia di rinforzo da proporre come modello per ulteriori successi.

Se, alla luce di quanto abbiamo discusso, dobbiamo trarre delle indicazioni sul tema/problema dell’istituzione dell’affido, non possiamo che evidenziare, allora, due priorità forti: la prima è quella di un indirizzamento – laddove ciò non è ancora avvenuto – o un migliore indirizzamento – laddove in qualche direzione ci si è comunque mossi –  delle politiche sociali verso una progettualità dell’affido che si integri fortemente intorno ad un progetto che coinvolga direttamente servizi territoriali e famiglie; la seconda è quella di progetti di formazione ad ampio raggio che abbiano come target operatori del pubblico, del privato, ma anche famiglie, in un lavoro che miri alla creazione di una rete di sostegno per le famiglie a disagio, nucleo affettivo primario dei minori.

E’ solo così, io credo, che l’istituzione dell’affido potrebbe raggiungere pienamente il suo scopo: fornire contemporaneamente uno spazio privilegiato ai minori a rischio, e un valido lavoro di consulenza e riabilitazione, di bonifica psicologica e affettiva e sostegno sociale alle loro famiglie di origine. Solo così l’istituzione dell’affido diventerebbe non solo fine momentaneo di un progetto di salvaguardia del minore, ma anche e soprattutto mezzo per  un efficace recupero di una condizione di benessere che non può non riguardare la famiglia nella sua interezza e nel suo valore di fondamentale struttura sociale.

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