Il Consiglio dell’Unione dei Comuni delle Madonie il 20 maggio si discuterà se approvare una mozione che chiede alla Regione Siciliana che la lingua siciliana venga riconosciuta come lingua ufficiale della Regione e lingua primaria d’istruzione e quindi insegnata nelle scuole come prima lingua.
I linguisti e i dialettologi delle Università di Palermo, Messina e Catania e il Centro di Studi filologici e linguistici siciliani chiedono al Consiglio dell’Unione dei Comuni di non votare la mozione e di essere auditi sul punto per potere illustrare le proprie posizioni e proposte, frutto di decenni di studio del dialetto e del repertorio contemporaneo e di centinaia di ricerche e pubblicazioni.
Pubblichiamo il testo integrale diffuso dagli studiosi con primo firmatario Giovanni Ruffino (nella foto), Accademico della Crusca, linguista e dialettologo di fama internazionale e presidente del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani.
A PROPOSITO DEL SICILIANO COME “LINGUA UFFICIALE” E DELLE MOZIONI COMUNALI
- Disperdere e recuperare
Chi non vorrebbe preservare la “lingua addotata dai patri”, come cantava Ignazio Buttitta? Le dichiarazioni che in questi ultimi decenni abbiamo raccolto nei progetti sociolinguistici ci dicono che intere famiglie siciliane, insegnanti, gente comune, hanno rinunciato alla trasmissione del dialetto e dei dialetti: un po’ per obbligo, un po’ per vergogna, un po’ per senso di inutilità, un po’ per esterofilia. Nel frattempo, i corsi accademici delle tre università siciliane – riconoscendo il valore dell’enorme patrimonio linguistico-culturale formatosi nei millenni nella più grande delle isole del Mediterraneo – hanno controbilanciato questa emorragia e questo velato fastidio proponendo corsi di dialettologia storica, di usi sincronici delle varietà dialettali, conoscenza e analisi degli autori della più grande tradizione letteraria, promuovendo convegni, laboratori sul campo, corsi di formazione per docenti, ricerche lessicografiche, onomastiche, geolinguistiche, collane editoriali sulle singole varietà dialettali e sulle varietà alloglotte (albanese e gallo-italico). E tutto questo spesso nel silenzio e nel disinteresse delle stesse istituzioni. Oggi si raccolgono quasi porta a porta i toponimi dialettali, ultimi relitti del rapporto fra parlanti e paesaggio siciliano, riscontrando entusiasmi non scontati anche nelle giovani generazioni. Il Centro di studi filologici e linguistici siciliani fu il promotore dei tre volumi apparsi nella prestigiosa collana “Meridiani” della Mondadori con la ricostruzione filologica dei testi della scuola di Federico II, testi in gran parte toscanizzati e su cui si fondò il fraintendimento del giudizio di Dante e si fondano tutt’oggi alcune delle “panzane a ruota libera” sulle lingue (per citare il grande linguista Tullio De Mauro) che possiamo leggere su giornali e social network. Una trasmissione radiofonica venne condotta con il fine di ripristinare una conoscenza documentata e consapevole e di preservare quanto costruito nei secoli: il compianto Roberto Sottile ne fu l’ideatore e il trascinatore, coinvolgendo decine di artisti e studiosi anche non siciliani.
- False valorizzazioni di una lingua che non c’è
Dovremmo, dunque, essere contenti e gratificati da quanto sta accadendo in questi mesi in alcune realtà politico-amministrative che all’unanimità hanno approvato un documento “per la tutela e la valorizzazione del patrimonio linguistico siciliano”? Addirittura, circola un Disegno di legge regionale (disignu di liggi reggiunali?) a firma Lombardo, Di Mauro, Carta, Balsamo per il riconoscimento della “lingua siciliana” (riconoscimintu di la lingua siciliana?). Si parta da questa etichetta classificatoria: lingua. Posto che per i linguisti ogni codice verbale assume dignità di lingua e posto che ai promotori politici di questa avventura poco culturale e molto ideologica disdice l’uso della parola dialetto, si comprende dalla lettura della mozione che non si intende preservare affatto la ricchezza dei patrimoni locali e della trasmissione orale, ma si vuole imporre una alchemica lingua scritta (si parla di adozione di “un modello linguistico”), forgiata probabilmente sull’italiano attraverso un proliferare ovviamente finanziato di opere “in siciliano, con pellicole cinematografiche, programmi e serie televisive, trasmissioni radiofoniche, quotidiani, fumetti e libri”, imposta a scuola e veicolata dalle istituzioni pubbliche. Viene richiesta persino l’istituzione di “un comitato, in conformità alla Parte IV della CELRM, incaricato di pianificare, attuare e monitorare le misure previste” e, guarda caso, proprio la CELRM esclude proprio i dialetti e le lingue migranti.
- Iniziative didattiche e pericolose imposizioni sperimentali
La prima domanda è: perché? Le lingue si preservano in famiglia e negli usi quotidiani, fornendo le ragioni per non vergognarsene e per affiancarle a tutti gli altri codici necessari ad esprimersi e a vivere liberamente le proprie scelte in un mondo in trasformazione; si preservano grazie a tanti artisti che sono tornati in maniera creativa e non folklorica all’uso del dialetto nelle loro produzioni e in esso riconoscono un codice affettivo, ma anche di rivalsa sociale. Grazie ad un lavoro costante e consapevole dei corsi di linguistica, dialettologia e filologia delle Università siciliane, si sono formate generazioni di insegnanti che promuovono e incoraggiano a svolgere lavori comparati, che attuano con intelligenza ed equilibrio la L.R. 9/2011, nonostante le difficoltà riscontrate in questi anni. Nessuno di loro, però, reclama l’ora di dialetto e men che meno lo studio grammaticale del dialetto. E poi in quale varietà dialettale dovrebbero essere scritti i libri di testo? Qui sorge una contraddizione che gli entusiasti promotori non considerano: come si fa a preservare un patrimonio di differenze e di specialità attraverso un modello? E quale modello dovrebbe assurgere a siciliano-tipo? Il castelbuonese? Il castelterminese? Il galatino? Oppure si pensa di annullare tutte le differenze reali in nome di una lingua costruita a tavolino? La proposta che associazioni prive di autorevolezza scientifica chiedono che i comuni facciano propria, sarebbe la condanna a morte delle parlate locali, sacrificate sull’altare di convenienze ideologiche avulse da ogni conoscenza dei cambiamenti linguistici, dell’importanza delle percezioni dei parlanti, della trasmissione naturale all’interno delle comunità. La storia della Sicilia è storia di integrazioni, inclusioni, ma anche differenziazioni tra aree: qui è lo straordinario miracolo della sua bellezza e il senso della sua tutela. Se si crede – come noi crediamo – che la lingua sia il bacino in cui possono trovarsi tutti gli strati storico-linguistici che ci hanno plasmati, essa va conosciuta e apprezzata senza rivendicare forzature che la snaturerebbero. Ma vi è un’altra ancor più preoccupante contraddizione di tipo sociale: il testo della mozione allarma sul declino della lingua e sul fatto che non ci sia nessuno che la sappia leggere e scrivere, ma subito dopo incita all’uso del siciliano come lingua di istruzione primaria. Ciò significherebbe che i bambini, tutti i bambini, dovrebbero imparare contemporaneamente un nuovo idioma e a leggere e scrivere causando, come sottolinea continuamente l’UNESCO, uno spaventoso aggravio dei processi di alfabetizzazione, soprattutto nei contesti plurilingui come i nostri. Il sistema scolastico ha già troppe fragilità per sottoporlo ad ulteriori sperimentazioni. E siamo convinti che le famiglie apprezzerebbero che i loro figli studino la grammatica di un dialetto (quale?), in una scuola in cui i test INVALSI ci dicono di tante difficoltà con le lingue straniere e con lo stesso italiano? Cosa ne pensano le associazioni di insegnanti? Conoscendo gli assetti sociolinguistici, siamo propensi a credere che, potendo avere alternative, molti trasferirebbero i propri figli in una scuola in cui il siciliano non sia L1.
- Passi futuri
Quando si costruisce una strada si chiede la progettazione ad un ingegnere, quando si deve diagnosticare una malattia si chiede l’intervento di un medico specialista, quando si ritiene di dare centralità ad un sistema linguistico sarebbe bene se non seguire le indicazioni, almeno ascoltare gli specialisti e sapere cosa è stato fatto in questi anni. Chiediamo quindi a tutti i Comuni che hanno già approvato la mozione di ritirarla in autotutela e a quelli che si accingono a dibatterla di avviare un dibattito che coinvolga tutti, istituzioni, scuola, università, società civile. Noi ci impegniamo a promuovere entro l’anno un convegno in cui possano trovare voce anche altre realtà territoriali, nazionali e internazionali, dal titolo “Parliamo di dialetto siciliano, tra scuola, rivendicazioni identitarie, perdita e nuovi usi”. Se questo processo non diventerà motivo di un serio confronto scientifico, culturale, sociale, didattico, sorge, inevitabile, una seconda domanda: cui prodest?
Il Presidente, i Componenti del Consiglio Direttivo e del Consiglio Scientifico del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, i Docenti di Linguistica italiana e Dialettologia delle Università di Palermo, Catania e Messina.
Palermo, 17/05/2025
IL PRESIDENTE DEL CENTRO DI STUDI
FILOLOGICI E LINGUISTICI SICILIANI
Giovanni Ruffino