Nel terzo secolo avanti Cristo, la più illustre scuola di pensiero medico dell’Occidente era quella di Alessandria d’Egitto. Uno dei suoi esponenti più illustri fu Erasistrato, un medico e scienziato che ha legato il suo nome ai suoi studi anatomici sul cervello, compiuti spesso con una certa disinvoltura (si racconta che vivisezionasse i soggetti delle sue osservazioni anatomiche). Chiamato dal re di Siria, Seleucus Nicator, perché curasse una grave malattia organica del figlio Antiochio, Erisitrato si affrettò al capezzale del malato. Stava controllandogli il polso quando entrò nella stanza Stratonike, la seconda moglie del monarca: Erasitrato si accorse che in quel momento il cuore del malato cominciava a battere all’impazzata e capì subito la diagnosi: il giovane era innamorato senza speranze della moglie del padre e per questo si era ammalato gravemente. Soffriva di «melanconia amorosa». Il re di Siria, allora, pur di salvare il figlio si separò dalla moglie.
Questa è probabilmente la prima, leggendaria diagnosi di malattia «psicosomatica» tramandataci dalla storia della medicina, che per secoli ha rappresentato un «modello ideale» di cosa sia una psicosomatosi. Nessuno, oggi, è tanto disinformato da negare che certi eventi psicologici e affettivi possano influenzare l’insorgenza e il decorso di alcune malattie. Basta notare come, in presenza di un’emozione, alcuni parametri dell’attività vegetativa (battito cardiaco, pressione del sangue, ritmo della respirazione, etc.) si alterino per confermare empiricamente questa misteriosa influenza della mente sul corpo.
Un tale modello presuppone l’esistenza di certi disturbi, un tempo definiti comunemente «funzionali»: fatti patologici, cioè, che non avevano, niente di obiettivamente fisico alla loro origine e che potevano bensì essere considerati delle «distonie» del sistema nervoso vegetativo. Capitoli importanti della patologia, come le malattie infettive, rimanevano del tutto esclusi da questa possibilità di interazione.
Oggi il quadro di riferimento è cambiato. Molti studi, i primi dei quali pionieristici, sembrano indicare da anni che tra fatti psicologici e insorgenza di malattie appartenenti proprio a questa area esclusa della medicina, può esistere una qualche correlazione.
I dati, paradossalmente, non provengono dalle osservazioni di psicoanalisti e psichiatri, ma dalla ricerca di base. Non mancano, anche in questo caso a dire il vero, aneddoti storici. Nel 1830 Armand Trousseu, il medico parigino passato alla storia della medicina per aver eseguito il primo drenaggio di un cavo pleurico, fece un’accurata autoanalisi dell’asma che lo perseguitava, collegandola a stimoli emotivi: «Il più grave attacco di asma che mi colpì avvenne in queste condizioni: io temevo che il mio vetturino mi rubasse l’avena e mi recai, per chiarire le circostanze, nel fienile, dove feci misurare la provvista di foraggio. Proprio durante questa operazione mi colpì un attacco d’asma quanto mai violento, evidentemente determinato dall’emozione psichica. In seguito al sospetto di avere in casa un ladruncolo».
Nel 1830 l’immunologia clinica non era ancora nata e quindi Trousseu non poteva sapere di avere attribuito per la prima volta alle emozioni una qualche azione su meccanismi immunitari (quali quelli impliciti nell’asma e, in genere, nelle allergie), collegando ipoteticamente due universi distanti tra loro anni-luce. Oggi, invece, è ampiamente dimostrato che certi eventi, definiti genericamente stressanti, possono influire su malattie di natura organica, come l’influenza, la mononucleosi infettiva, le infezioni in genere, l’angina streptococcica, la patologia autoimmune, quella allergica, le dermatiti, la tubercolosi e via dicendo. Il che sembra inspiegabile, se si pensa all’attività psicologica come a un’estensione delle prerogative dell’anima, e al sistema immunitario come alla materia, posta all’estremo opposto di un immaginario continuum. In questo caso ci si troverebbe davvero di fronte a un incolmabile salto fra la mente e il corpo. Invece il problema può essere affrontato diversamente.
CHIMICA DELLE EMOZIONI
Le emozioni, i sentimenti e, in genere, la vita affettiva, non sono manifestazioni dell’anima. Al contrario, hanno una loro biochimica, sono cioè strettamente legate ai meccanismi fisiologici dell’organismo. Le nostre conoscenze di questi meccanismi si sono ampliate grazie alle ricerche neurobiologiche, che hanno evidenziato come ogni stato emotivo produca dei cambiamenti nell’equilibrio interno del corpo. Il fisiologo Cannon applicò alle funzioni dell’organismo il concetto di “omeostasi”, cioè di un sistema che tende ad adattarsi alle condizioni esterne mediante un riequilibrio delle sue costanti fisiche e chimiche, in modo che ogni perturbazione, comunque, provochi una modificazione dei parametri dell’organismo, che si riassestano ad un livello diverso. Una perturbazione di questo tipo può essere considerata «stress», un qualunque stimolo esterno o interno che sia causa di tensione.
Anche se oggi non si dà più una connotazione esclusivamente negativa allo stress (esiste anche un eustress, secondo Selye, cioè uno stress positivo, senza il quale non potrebbe nemmeno esistere la vita) è certo che gli stimoli di questo tipo producono alterazioni fisiologiche. Tra di esse va segnalato un aumento del metabolismo, del tasso glicemico e delle secrezioni ormonali.
Una risposta classica, da questo punto di vista, è l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con conseguente liberazione di ormone adrecocorticotropo ed elevazione del livello plasmatico di cortisolo, nell’uomo, e di corticosterone, nell’animale. Altri ormoni sono implicati nella reazione allo stress e inoltre si ha una generale attivazione del sistema nervoso autonomo, con liberazione di quantità notevoli dei loro mediatori chimici, come le catecolamine, adrenalina e noradrenalina. Insomma, si tratta di una vera tempesta chimica che si abbatte praticamente su tutti gli organi e gli apparati, e che è anche responsabile di reazioni soggettive quali sudorazione, tremore, palpitazioni cardiache.
Queste reazioni sono aspecifiche, cioè si manifestano in risposta a qualunque stimolo, anche se il livello della reazione sicuramente differisce: la rabbia, la frustrazione, la depressione, l’ansia, così come l’amore o un improvviso evento felice, mobilitano le stesse ghiandole endocrine, gli stessi meccanismi omeostatici, le stesse terminazioni nervose.
L’organismo, insomma, risponde dinamicamente agli stimoli emozionali. Altrettanto dinamico e attivo è il sistema immunitario.
LA RISPOSTA IMMUNITARIA
Come è noto, nell’uomo l’immunità ha due aspetti: quello umorale e quello cellulare. La risposta umorale implica interazione di sostanze estranee all’organismo con gli anticorpi, prodotti per inattivarle. Il processo cellulare dell’immunità implica invece l’interazione tra queste sostanze estranee (antigeni) e i linfociti originati dal timo, che agiscono sia direttamente che mediante sostanze diverse da quelle anticorpali. Questi due processi costituiscono l’immunità specifica, caratterizzata dal riconoscimento degli antigeni, dalla loro memorizzazione e dalla secrezione di anticorpi «mirati», nonché dalla risposta a una determinata configurazione chimica antigenica. Esiste poi un’immunità aspecifica che implica meccanismi molto complessi e che è molto meno selettiva.
La risposta immunitaria cellulare è di importanza fondamentale e si basa sull’azione dei linfociti timici (T) che rappresentano circa il 70% dei linfociti circolanti. Al contatto con l’antigene il linfocita T comincia a proliferare. I linfociti attivati hanno diverse funzioni. Alcuni, dotati di memoria, registrano la struttura antigenica e sono in grado di assicurare una reazione immunitaria in qualunque momento incontreranno la stessa sostanza; i linfociti helper e suppressor facilitano rispettivamente la secrezione di anticorpi da parte dei linfociti B (che rappresentano il restante 30% della popolazione linfocitaria) e ne regolano l’intensità, nel senso che la sopprimono se diventa eccessiva. I linfociti killer distruggono invece tutte le cellule bersaglio che veicolano l’antigene.
Il meccanismo della risposta immunitaria è molto articolato. Di fronte ad un antigene, che può essere per esempio un batterio o un virus, i macrofagi lo inglobano, per poi elaborare e presentare tutti i dati antigeni ai linfociti B, detti così perché negli uccelli si originano da un particolare organo intestinale chiamato «Borsa di Fabrizio».
Le cellule B producono le immunoglobuline, cioè gli anticorpi, per distruggere l’antigene. Un’efficiente collaborazione tra linfociti T e B e i macrofagi, è quindi fondamentale per assicurare l’immunità all’organismo e dipende dalla perfetta funzionalità dei linfociti T, veri attivatori della risposta immunitaria.
LINFOCITI «STRESSATI»?
La relazione tra gli stimoli stressanti e la risposta immunitaria è stata ampiamente indagata in laboratorio. I primi esperimenti furono compiuti con animali che venivano sottoposti a stimoli stressanti per poi analizzare qual era il livello della risposta immunitaria dopo – o certe volte durante – l’applicazione dello stimolo. Tenendo, per esempio, dei topi in condizioni di vita stressanti (isolandoli, lasciandoli in gabbie sovraffollate, etc.) già negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso si vide che vi era una riduzione della quantità di anticorpi circolanti, una diminuzione della produzione di interferone e una alterata reattività dei linfociti. Nella scimmia sottoposta invece a suoni disturbanti si otteneva una ritardata produzione di anticorpi.
Questi studi, comunque, non erano sufficienti per una completa interpretazione del fenomeno e dunque la ricerca si spostò sul versante clinico. I metodi per saggiare la risposta immunitaria sono diversi. Si sa che alcune sostanze, dette «mitogene», sono in grado di aumentare la reattività linfocitaria generale; la risposta specifica dei linfociti di fronte a un antigene può essere rilevata dalla loro propensione a distruggere in vitro cellule antigeniche formando degli aggregati, detti «rosette E». Un altro parametro di valutazione della «citotossicità», cioè la capacità generale dei linfociti di annientare cellule estranee. Gli studi seguono in genere un piano piuttosto omogeneo. Si analizza per esempio, con una di queste tecniche, la reattività linfocitaria in soggetti che sono stati esposti a stress di vario tipo. Bartrop e collaboratori compirono una simile indagine su soggetti ai quali era morto il coniuge e notarono che la reattività linfocitaria ai mitogeni era ridotta. Greene invece utilizzò un questionario tendente ad evidenziare se le persone esaminate avessero subìto eventi stressanti in numero maggiore della media, in un periodo di tempo circoscritto. La citotossicità era diminuita nei soggetti maggiormente stressati.
La stessa cosa fu notata analizzando l’attività linfocitaria di individui sottoposti a stimoli stressanti sperimentali, in laboratorio. Quelli più usati furono la veglia forzata e il rumore. Si vide così che durante la condizione di stress diminuisce il numero dei «globuli bianchi» circolanti e la reattività dei linfociti T ai mitogeni. Uno degli studi più interessanti fu quello di Mimsay e dei suoi collaboratori che studiarono le condizioni del sistema immunitario dopo uno stress intenso, quale lo splashdown nel progetto Skylab della Nasa. Notarono una riduzione nella formazione delle rosette E nella trasformazione linfocitaria.
Altri studi di laboratorio hanno invece indagato la suscettibilità specifica ad agenti infettanti in animali sottoposti a stress, rispetto ad animali di controllo. I dati così raccolti hanno consentito un maggiore avvicinamento al problema delle malattie infettive. Sottoponendo per esempio più volte i topi al pericolo di un animale predatore, a risposte di evitamento, a isolamento o ad altri stimoli stressanti, si è visto che aumenta la loro suscettibilità verso infezioni dovute a numerosi agenti patogeni, dal virus Cocksakie B, alla Salmonella Typhimurium, e al altri virus ancora.
Che lo stress influenzi la risposta immunitaria è quindi certo, al di là di ogni ragionevole dubbio. E le ragioni del fenomeno possono essere trovate nella interazione tra mediatori dell’emozione e elementi del sistema immunitario. Determinante, per la comprensione di questo meccanismo, è stata la scoperta sui linfociti di recettori per diverse sostanze ormonali implicate nello stress. Esistono per esempio recettori per il cortisolo, una sostanza che è in grado di deprimere il sistema immunitario sino a una completa immunosoppressione. D’altronde, questo effetto dei corticosteroidi sul sistema immunitario è noto dalla terapia: la somministrazione di cortisonici, infatti, ha una potente azione depressiva sul sistema immunitario.
La scoperta più interessante e insospettabile in questo campo fu stata comunque quella di recettori per le catecolamine sui linfociti T, un dato, questo, che rivoluzionò profondamente tutte le concezioni tradizionali sullo stress. Infatti adrenalina e noradrenalina variano notevolmente di fronte a stimoli emozionali e questa azione evidentemente non si traduce solo in una modificazione delle funzioni viscerali e somatiche, ma anche in una inibizione del sistema immunitario. Le catecolamine legandosi ai recettori presenti sui linfociti ne inibiscono l’attività. È stata inoltre ipotizzata una doppia azione dei sistemi nervosi simpatico e parasimpatico: il simpatico inibirebbe le funzioni linfocitarie, mentre il parasimpatico favorirebbe un incremento della reattività immunitaria. Questa è solo un’ipotesi: il dato certo, invece, è che i nucleotidi ciclici e gli agenti del sistema nervoso autonomo influenzano il sistema immunitario in senso fondamentalmente inibitorio.
Queste scoperte aprirono prospettive nuove per tutta la medicina. Infatti si ottenne così la prova scientifica che fattori «psichici» possono influenzare praticamente tutte le sfere della patologia, vista l’ubiquitarietà del sistema immunitario e la molteplicità delle sue funzioni. Un sistema di difesa immunitaria deficitario può implicare non solo una maggiore suscettibilità dell’organismo alle infezioni di batteri e virus, ma anche una difettosa sorveglianza dei nemici interni, come le mutazioni genetiche di cellule tumorali che, normalmente vengono riconosciute o distrutte subito e che invece potrebbero sfuggire a questo controllo.
Le situazioni emotive particolari, l’affettività, lo «psichico», insomma, può influenzare tutti gli organi e le funzioni dell’organismo. Di questo la medicina – tutta la medicina e non solo quella psicosomatica – deve tenere conto, anche a fini preventivi. Dal punto di vista teorico, le conseguenze di queste scoperte sono ancora più importanti: il misterioso salto dalla mente al corpo, che tanto affascinò Freud, dopo anni di speculazioni filosofiche sembra ora riguardare la neurobiologia e la neurochimica almeno quanto la psicoanalisi.
Giovanni Iannuzzo