Il Tibet si estende per quasi un milione e mezzo di chilometri quadrati, anche se è abitato da solo un milione e ottocentomila persone. Paese mitico e fiabesco, occupa una delle zone più inospitali del mondo, il paese delle nevi e dei ghiacci eterni, delle montagne che sfiorano quasi misticamente il cielo.
Sino al 1950 il suo sistema politico, religioso e culturale era rappresentato dalla religione fondamentale, il buddismo, e dalla religione che aveva preceduto i precetti di Siddharta, il Gotama Budda, l’antica religione Bon, praticata soprattutto in alcuni monasteri.
I monasteri costituivano la principale struttura culturale, religiosa, scientifica e filosofica del paese (chiese, università, biblioteche e ospedali), ai quali si recavano anche i laici, per qualunque tipo di problema, anche di tipo medico. Poi, con l’invasione cinese, il quadro di riferimento è mutato, anche se la trama concettuale e filosofica di questo paese, in bilico sul “tetto del mondo” continua a restare pressoché immodificata.
A questa trama appartiene anche la medicina, tradizionalmente legata a precetti religiosi, appunto a quel “Budda della medicina” che ne è stato il codificatore.
Anatomia, fisiologia, patologia
La medicina tibetana non possiede conoscenze in senso occidentale, cioè basate sull’osservazione e sull’esperimento. Come avviene spesso per tutte le medicine tradizionali, essa sostituisce alle conoscenze per così dire “obiettive” una propria visione del corpo umano, che trae le sue origini da precetti filosofici o da una specifica visione del mondo.
Per l’anatomo-fisiologia della medicina tibetana, il corpo umano è costituito da sette elementi: le ossa, la carne, i grassi, il sangue, le midolla, il “chilo” (l’essenza, cioè, dei processi nutritivi) e il seme, il fluido o la sostanza indispensabili per la procreazione.
Tali elementi sono chiamati zung, e rappresentano la costruzione teorica della conoscenza tibetana del corpo umano.
Ma la medicina tibetana non cura, come sempre nel caso delle medicine tradizionali, solo il corpo. Essa è infatti indirizzata al corpo come complesso sistema composto da materia, ma anche da spirito. E infatti il sistema medico del buddismo tibetano pone al centro della sua teoria il rapporto tra l’uomo e le forze metafisiche che gravano sull’uomo.
La migliore prevenzione delle malattie è, infatti, per la medicina tibetana, la conoscenza delle cose metafisiche. Chi non la possiede, chi non ha ancora sperimentato l’illuminazione, sarà inevitabilmente soggetto alle malattie. Anzi, la malattia è proprio espressione dell’imperfezione comune a tutti gli esseri umani.
Di ogni malattia, infatti, la medicina tibetana riconosceva delle cause primarie e delle cause secondarie. Tra le cause primarie, ne esisteva una generale e altre più specifiche.
La causa generale era la legge del karma, la catena delle esistenze. La dottrina del karma, strettamente legata a quella delle reincarnazioni, è di origine indiana e venne poi per così dire “importata” nel buddismo, religione alla quale la medicina tibetana è strettamente interconnessa. Secondo la dottrina del karma, ogni azione che l’individuo commette, buona o cattiva, ha un effetto che si ripercuoterà su quella stessa persona in questa esistenza o in una esistenza successiva.
Noi siamo quello che siamo, a causa delle nostre azioni in questa vita o in una vita passata. Le buone azioni commesse in una vita possono quindi rappresentare delle buone occasioni in quella successiva. Ogni atto non è in sé tanto buono da far meritare la beatitudine, o tanto cattivo da non implicare speranza di redenzione e culminare in un castigo. La catena delle esistenze, per la quale esiste un numero indefinito di reincarnazioni, dà invece a tutti la possibilità di raggiungere la perfezione attraverso una serie di esistenze, il cui scopo è quello di fare pervenire alla perfezione, alla illuminazione.
È chiaro che anche la malattia è legata al karma: le circostanze della nascita, l’aspetto fisico, le virtù, i pregi o i difetti fisici o psicologici, persino le malattie da cui si potrà essere affetto sono un riverbero delle esistenze e delle proprie azioni passate, non meno che la condizione sociale, le ricchezze o la povertà, i sentimenti e le realizzazioni.
Accanto a questo principio generale esistono delle cause primarie di malattia: esse sono l’odio, l’avidità e l’illusione. Esse non provocano direttamente la malattia, ma rendono attive le cause secondarie delle malattie: producono cioè un disequilibrio nel flegma, della bile e del vento, le tre “pecche”, (nyes.pa) il cui disequilibrio causa ogni forma di patologia.
La medicina tibetana classificava sia il flegma che la bile che il vento in cinque specie, ognuna delle quali aveva una funzione specifica. Ogni principio ha inoltre una sua specifica natura. La bile ha una natura fredda, associata all’acqua e, simbolicamente, alla luna.
Esiste anzitutto un tipo di flegma fondamentale che sta alla base degli altri quattro tipi e che produce tutti i fluidi del corpo, la saliva e i succhi gastrici. Il secondo tipo di flegma ha invece una funzione “digestiva”, presiedendo infatti alla scomposizione dei cibi e alla sua assimilazione. Il terzo tipo presiede al gusto, il quarto favorisce la soddisfazione dei sensi. Il quinto tipo di flegma, infine, produce i liquidi che lubrificano le articolazioni.
La bile è un principio “caldo”, che è quindi simbolicamente associato al sole, al fuoco. La prima delle cinque specie di bile teorizzate dalla medicina tibetana, è quella che provoca la digestione e trae dai cibi la loro essenza, che viene trattenuta all’interno del corpo. Nel contempo questo tipo di bile produce il calore del corpo. Esiste poi una bile che regola l’attività dinamica del sangue e degli altri liquidi dell’organismo.
Una terza specie di bile ha invece la funzione di aiutare nel raggiungimento della perfezione. Dei due restanti tipi di bile, uno fornisce la facoltà di vedere, e l’altro, l’ultimo, ha effetti favorevoli sulla complessione.
Il vento è dinamico e leggero e provvede alla mobilità interna dell’organismo. Anch’esso viene distinto in cinque specie. La prima sostenta la vita, la seconda si muove all’interno del corpo dal basso verso l’alto, producendo la voce e rendendo lucida la mente. La funzione del terzo tipo di vento, quello penetrante, è di provocare l’apertura e la chiusura degli occhi e degli orifizi del corpo e di dirigere il movimento degli arti. La quarta specie di vento accompagna i processi della digestione. Infine, una quinta specie di vento si muove verso il basso e provoca la fuoriuscita del sangue e dello sperma.
I tre principi della medicina tibetana regolano tutte le attività dell’organismo, in un gioco di delicati equilibri. Se per esempio prendiamo in considerazione i processi digestivi, secondo la medicina tibetana è il vento a trasportare nel corpo gli alimenti, che poi saranno disgregati nei loro vari elementi del flegma, e infine metabolizzati dalla bile, in virtù della sua natura ignea. Naturalmente si tratta di processi che non vanno intesi in senso rigidamente deterministico, come nella tradizione scientifica occidentale, bensì quasi come metafore del funzionamento dell’organismo.
Gli eccessi e gli squilibri nei tre princìpi dell’organismo sono tutti provocati, come abbiamo accennato, da cause primarie, tutte di natura “spirituale”. La collera e l’odio causano un aumento della bile, l’ignoranza un aumento di flegma, l’avidità provoca un aumento di vento. L’origine della malattia è quindi sostanzialmente emotiva e psicologica, e qualunque opera di prevenzione deve quindi partire dalla cura di questa sfera dell’esistenza.
Diagnosi e terapia
La medicina tibetana è simboleggiata da un albero con tre radici, dalle quali si dipartono nove tronchi. La prima radice è quella del “corpo”. Da essa si dipartono due tronchi: il primo rappresenta il corpo sano, il secondo il corpo malato. Vi è poi la radice della diagnosi, dalla quale si dipartono tre tronchi: osservazione, palpazione e colloquio col paziente. È infatti in base a queste tre tecniche che viene fatta la diagnosi.
La visita medica nella medicina tradizionale tibetana comprende una serie di passi che sono profondamente differenti da quelli occidentali. Uno dei momenti fondamentali è la “palpazione” che comprende la diagnosi effettuata mediante la valutazione del “polso”. Essa consiste in una accurata visita condotta mediante la tastazione del polso in vari punti e a differenti profondità.
Le caratteristiche delle pulsazioni che vengono prese in considerazione sono molteplici: la frequenza, l’ampiezza, la durata, la tensione, il ritmo. È in base all’analisi del polso che il medico tradizionale tibetano può fare diagnosi. Dalle caratteristiche di un certo polso, egli quindi dedurrà quale sia lo stato interno di quel dato organo.
Un’altra tecnica che viene utilizzata, e che fa parte dell’osservazione, è l’analisi dell’urina, condotta naturalmente non in base alle precise metodiche occidentali, ma sull’osservazione delle caratteristiche empiricamente rilevabili del liquido, secondo nove diversi tipi di prassi.
Altrettanta importanza assume anche il colloquio col paziente, col quale il rapporto non è solo professionale, distaccato e obiettivo ma molto coinvolto e attento alla globalità del paziente anziché solo al disturbo per il quale egli si è rivolto al medico.
Vi è poi la terza radice, quella che rappresenta la terapia, dalla quale si originano quattro tronchi: la dieta, il comportamento, i farmaci e infine la terapia “esterna”.
Una strategia terapeutica riguarda le norme di comportamento salutare, che con la loro presenza nella medicina tibetana dimostrano quanta importanza venga da essa attribuita alla dimensione psicosomatica. Esiste anche una farmaco-terapia, basata su una farmacopea molto ricca. La medicina tibetana utilizza infatti rimedi vegetali, minerali e animali.
Si tratta di circa duemila rimedi preparati naturalmente seguendo regole ancestrali, di cui fanno parte anche rituali specifici. Molto utilizzate sono le pillole, preparate artigianalmente, e spesso ricchissime di componenti diversi, dall’aspetto di palline. Fanno parte della farmacopea, comunque, anche metalli preziosi, pietre pregiate, parti di animali (come il corno di rinoceronte), oltre naturalmente alle erbe.
La quarta strategia terapeutica della medicina tibetana è rappresentata dalla terapia esterna, una definizione che sta a indicare un insieme di pratiche terapeutiche comprendenti i massaggi, i clisteri, i salassi e la moxa, una tecnica che almeno in origine consisteva nel dare fuoco a un ramoscello di artemisia, tenendolo vicino alla pelle, in un punto specifico corrispondente all’ingresso, per così dire, di un canale energetico che passi per la zona dolente del corpo. In qualche modo, in questa definizione dei canali energetici, c’è una corrispondenza con ciò che sono i meridiani per la medicina cinese.
E, a proposito di medicina cinese, una ulteriore strategia è proprio l’agopuntura, praticata generalmente dalla medicina tibetana con aghi d’oro e d’argento.
Molta importanza viene riservata a altri trattamenti fisici esterni: si tratta di bagni di acqua trattata con erbe aromatiche medicinali, vaporizzazioni o applicazioni di acqua fredda. Vengono anche prescritte energiche docce.
Sebbene la medicina tibetana sia sostanzialmente una medicina “olistica” che quindi non tende a separare il corpo dalla mente, esistono anche delle prescrizioni specificatamente psichiatriche, fondate sulle pratiche meditative o sull’analisi dei sogni. Naturalmente va sempre tenuto presente, nella medicina tibetana, che la malattia mentale può essere anche dovuta a un influsso demoniaco, oltre che a fattori fisici, e in questo caso si chiede al paziente stesso di indicare di quale demone si tratti.
La medicina tibetana è circondata da un alone quasi mitico. Oltre all’indiscutibile fascino esotico che la caratterizza, le si attribuiscono dei veri prodigi terapeutici.
Non sappiamo quanto di questo sia vero, visto che, dal punto di vista della medicina occidentale, molte delle sue pratiche sono decisamente eterodosse. Per capire, comunque la teoria e la prassi della medicina tibetana occorre comprendere esattamente il suo substrato culturale, cioè la sua stretta connessione non solo con la religione, ma anche con la filosofia buddista.
Fare il medico è per i buddisti un titolo di merito. Curare il corpo e la mente dei propri simili concede al medico credito spirituale e perfezioni il suo karma, assicurandogli quindi dei vantaggi nella successiva reincarnazione. La medicina è anche preghiera: prega il medico, prega il paziente.
La medicina, infatti, nella visione buddista tibetana non significa solo curare e guarire il corpo. Poiché all’origine della malattia vi sono cause psicologiche e spirituali, la medicina deve rimuoverle con la stessa attenzione che dedicherà alla terapia. Le cause della malattia vanno allora “curate” sul piano spirituale, alla ricerca di una consapevolezza superiore. Perché, tutto sommato, l’esistenza è mutamento, passaggio da una reincarnazione all’altra, inseguimento della perfezione.
Più ci si avvicina a questa condizione, maggiormente si sarà liberi dalla malattia. Perché è la consapevolezza di questa finalità ultima degli uomini a liberarli dal desiderio, dal turbine dei sentimenti, dalle bufere delle passioni e quindi dalle cause prime del loro ammalarsi. È tale consapevolezza che lo libera dall’imperfezione e da quell’ignoranza metafisica che lo vincola, reincarnazione dopo reincarnazione, alla catena delle esistenze.
Giovanni Iannuzzo