Il rapporto terapeutico: curare per professione e bisogno di aiuto

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Nel rapporto tra chi cura per professione e chi ha bisogno del suo aiuto, delle sue prestazioni professionali, vi sono da sempre differenti aspetti, del tutto opposti nella loro natura eppure profondamente complementari. Il primo è l‘aspetto puramente ‘tecnico’, professionale, razionale. Il medico che somministra medicine, prescrive analisi o suggerisce altre strategie terapeutiche, sta mettendo in atto una conoscenza puramente razionale, che va di pari passo con il progresso delle conoscenze scientifiche generali per la sua epoca; in ogni caso, sta facendo’ qualcosa che gli è suggerito da quanto appreso. Il secondo aspetto è, al contrario, assolutamente personale, soggettivo, irrazionale. Non è fondato su ciò che il medico ‘sa’, bensì su ciò che il medico ‘sente’.

Sono due aspetti complementari e inscindibili dell’attività dell’essere e medico, e quindi della relazione tra il terapeuta e il paziente. Questi, infatti, ha sicuramente fiducia nelle capacità ‘tecniche’ del medico, ma si aspetta da lui anche qualcos’altro, non solo competenza professionale. Ciò che il cliente si aspetta può essere variamente definito: comprensione, simpatia, sostegno.

È il caso di dire che se questa seconda componente del rapporto tra medico e paziente non esistesse la medicina sarebbe più semplice e precisa, meno variabile e più razionale. Il problema è però che, in tal caso, non sarebbe ‘umana’, in quanto la malattia non è qualcosa che può essere limitato alla sfera puramente fisica. Questa è stata la grande illusione, forse, della medicina positivistica ottocentesca. Oggi invece sappiamo che la malattia non colpisce solo il corpo, ma la persona nella sua globalità. La cura di conseguenza, non può occuparsi solo della malattia. Il vecchio aforisma che non esiste la malattia ina il malato esprime abbastanza bene questo concetto di fondamentale importanza. Una terapia che sia autenticamente tale, infatti, deve tener conto dell’intera persona, del suo contesto sociale, della sua storia, della sua famiglia; in altre parole, di quell’insieme psicofisico che lo caratterizza in quanto persone.

Da un punto di vista teorico si può facilmente concordare con queste affermazioni, che trovano, nella storia della medicina, numerose conferme, da Ippocrate in poi. Il problema è come valutarle ne1la pratica reale, quotidiana del medico e non, beninteso, all’interno di specialità che, per loro statuto scientifico, sono — o dovrebbero essere — portate a prestare attenzione alla persona nelle sue variabili psicosociali e comportamenti, bensì nel campo della medicina generale, di base, nella quale assai più difficile è gestire correttamente un rapporto col paziente che sia terapeutico in senso teorico e umano al tempo stesso. Di norma, l’unico modo che ha il medico per gestire correttamente un rapporto psicologico col malato è quello di affidarsi non solo alle proprie conoscenze, ma anche alla propria sensibilità e al proprio intuito. Queste tendenze personali sono anche rinforzate, ovviamente, da fattori conte la deontologia professionale, il rispetto, e il senso del proprio lavoro come “missione”. Ma questo non basta. Non basta perché all’interno della relazione tra medico e paziente è possibile evidenziare tutta una serie di meccanismi che la possono condizionare, implicando un atteggiamento che va ben oltre le norme della sensibilità e del buon senso.

Esistono diverse interpretazioni possibili del modo in cui una relazione medico-paziente può instaurarsi. Una delle più suggestive è quella ipotizzata e descritta da Hollander nel 1958. Secondo questo autore esistono tre modalità particolari di gestire questa relazione, tutte fondate sulla maggiore o minor presenza di dipendenza o autonomia. Nel primo tipo di rapporto, il medico è la parte attiva e il paziente ha un ruolo interamente passivo: è il caso delle urgenze, o della chirurgia, e riproduce in qualche modo la relazione madre-lattante, ripercorrendone le modalità di dipendenza totale. Un secondo tipo di rapporto è invece quello che si instaura nel corso di malattie acute: in questo caso esiste tra medico e paziente una collaborazione, che in qualche modo riproduce i tratti del rapporto tra genitore adulto e bambino. Il terzo tipo di rapporto è quello delle malattie croniche, nel quale la relazione è caratterizzata da una più ampia autonomia del paziente, ripercorrendo le modalità delle relazioni tra adulto e adulto.

Non esiste quindi un ‘modello’ ideale e assoluto, ma modelli differenti più o meno adatti a situazioni specifiche nella pratica medica. Ognuno di tali modelli ha i propri pregi e i propri difetti, e problemi psicologici specifici pone pure il passaggio da un tipo di modello all’altro.

Secondo un altro autore, Schneider, la relazione tra medico e paziente può essere vista in modi differenti. Tra i tanti, egli ipotizza una relazione puramente “scientifica”, che è quella tipica degli studi biologici e che, se applicata al paziente, non è in grado di coglierne i problemi emotivi. Un altro modello è quello della “relazione di servizio”, nella quale il medico si comporta come un tecnico, che deve ‘riparare’ qualcosa. Più tipico degli specialisti, questo modello relazionale può anche essere caratterizzato da un buon approccio, che però resterà sempre superficiale e sostanzialmente astratto. Un ulteriore modello è poi quello, ideale, della relazione interpersonale soggettiva nella quale la comunicazione profonda tra due persone viene raggiunta, al di fuori dagli schemi più o meno convenzionali, in maniera autentica. È solo in questo livello che la terapia diviene ‘terapia globale’, sebbene non sempre è necessario che tale stadio sia raggiunto.

Di certo, diversi di questi aspetti assumono un’importanza indiscutibile. Per esempio i modelli di comunicazione, verbale o non verbale. Assai spesso si tratta di una comunicazione standardizzata, secondo schemi divenuti abituali. Il medico parla ‘difficile’, non spiega’ al paziente, in una parola non comunica; oppure comunica a un livello troppo superficiale, falsamente rassicurante, o non presti attenzione all’aspetto non-verbale della sua relazione col paziente, attenendosi a noi me estremamente rigide.

Ma queste relazioni sono sostanzialmente “culturali”, nel senso che afferiscono non a una “patologia del rapporto”, quanto ad una serie più o meno estesa di norme che caratterizzano fortemente la relazione medico-paziente nella nostra cultura. Il fatto che, per esempio, il medico non comunichi con chiarezza al paziente è uno stereotipo culturale.

Dobbiamo esaminare, invece, quali sono i problemi che possono configurare una vera patologia del rapporto medico-paziente. E questo non accade solo per incuria o superficialità del medico, bensì per una serie di motivi, che mette in gioco i meccanismi psichici più profondi sia del medico che del suo paziente. Esistono svariate situazioni che possono precipitare una crisi del rapporto terapeutico. Una delle più importanti si verifica quando il medico si trova di fronte a un paziente con una malattia grave, che richiede cure pesanti c difficili, che implica una menomazione o che può avere una prognosi infausta.

Una situazione di questo tipo implica un violento rebound emotivo sul medico. Da un lato questi si sente impotente, incapace e colpevole di tale incapacità o impotenza; dall’altro reagisce alle sue emozioni mettendo in atto difese estremamente riferite. Ma non è questa la sola situazione di crisi. Un’altra, assai frequente, è quella delle patologie ‘psicosomatiche’, funzionali in genere. Il paziente psicosomatico non é né un paziente facile, né un paziente classico’. Egli ha un vissuto ambivalente nei confronti del medico, nega i suoi conflitti e i suoi problemi, e non di rado tende a colpevolizzare il medico, utilizzandolo addirittura come alibi per la propria malattia. Ma e un simile comportamento, o meglio questo insieme di sintomi somatici e comportamenti, che rappresenta il modo del paziente di relazionarsi col mondo e con il medico. La sofferenza che esprime è somatica solo in apparenza: è psicologica a un 1ivello decisamente più profondo. Cogliere questo duplice aspetto non è facile per il medico. Egli può enfatizzare il sintomo somatico, il che gli consente un adeguato distanziamento emotivo dal paziente; può prescrivere terapie aggressive, può semplicemente fingersi sordo alle mille esigenze del paziente di fondare un rapporto più autentico. I risultati sono sempre disastrosi.

La terza situazione è quella del ‘paziente psicologico’ o talora francamente psichiatrico, che esige dal medico di base di essere un contenitore delle sue angosce, un confidente solidale con i propri conti itti relazionali, e gli chiede una “adozione psicologica”. Questa richiesta viene presentata in genere nella forma che appare più ovvia al paziente per potere essere accettata: quella di un sintomo che non necessita di una terapia, ma che esprime un bisogno generalmente inconscio. Sono casi molto frequenti negli ambulatori dei medici, che quasi sempre si rivelano fallimentari. Da un lato il medico sensibile e motivato. Può anche cedere alla tentazione di ‘adottare’ il paziente, invischiandosi nella situazione che gli viene proposta. Dall’altro capita assai spesso che egli non abbia le capacità necessarie a essere un contenitore adeguato delle angosce dell’altro, un alleato valido nel conflitto del paziente, in grado di offrire quella funzione “materna” che gli viene richiesta. E può allora reagire in maniera difensiva, raccogliendo le accuse del paziente che gli rimprovererà che il farmaco è sbagliato, che le terapie hanno effetti collaterali, che gli serve proprio quella certificazione che non è possibile fornirgli. Il deterioramento de1 rapporto è inevitabile.

Di fronte a queste situazioni le manovre difensive del medico possono essere numerose almeno quanto quelle dei pazienti. Una delle più diffuse è la fretta: il medico è impegnato, non può eseguire la visita domiciliare e, ha l’influenza o può dedicargli solo poco tempo in ambulatorio per rispetto verso gli altri pazienti che stanno aspettando in sala d’attesa. Specialmente nel caso dei pazienti ‘psicologici’ viene poi messa in atto la difesa dell’invio allo specialista, il quale assai spesso viene suggerito al paziente perché i disturbi sono nervosi. Di solito è in prima linea il neurologo, molto più raramente lo psichiatra e ancora più raramente lo psicologo clinico.

Altra e più aggressiva linea di difesa è infine la separazione tra se stesso e il paziente, che assume la forma di una ‘scientificizzazione’ o di una ‘obiettivizzazione’ esasperata. Si tratta ovviamente del tentativo di vedere nel paziente un ‘oggetto’ da osservare, al pari di un animale da esperimento. È una buona strategia nel caso di malattie incurabili o di pazienti in stato terminale, per i quali più nulla può essere più fatto sul piano medico. Li si considera come oggetti di osservazione, per produrre quel necessario  distanziamento emotivo che consente al medico di non dovere riflettere sulla limitatezza del suo potere terapeutico e sulle tematiche che afferiscono alla morte. Esiste a questo proposito il rischio di un inutile accanimento terapeutico, che solo in senso lato è rivolto al paziente, e si indirizza invece, per vie più sottili, a ciò che il paziente gravemente cronico o terminale rappresenta: in genere il fantasma della sconfitta e dell’impotenza terapeutica.

Le difficoltà poste dalla stessa dinamica dcl rapporto medico-paziente inducono a chiedersi se sia possibile in qualche modo un cambiamento nella struttura di tale relazione, almeno per quanto riguarda il medico, nel tentativo o di renderla pienamente valida e pienamente efficace. È ovvio, allora, come qualsiasi terapia non possa essere attuata se prima il medico non prende coscienza del disagio che un certo tipo di relazione gli arreca. Successivamente occorre tentare di comprendere quali sono i motivi di tale disagio: bisogna cioè ascoltare se stessi e il paziente.

Spesso basta prestare un minimo di attenzione a ciò che questi dice, per rendersi conto, anche solo vagamente, dei suoi bisogni. Occorre allora mobilitare la propria capacità di ascolto e porre la domanda giusta al momento giusto, facendo sentire al paziente la propria disponibilità. L’obiettivo ideale da raggiungere sarebbe forse quella ‘relazione soggettiva’ a cui Schneider attribuisce tanta importanza. Le variabili che nel raggiungimento di tale obiettivo entrano in gioco sono, probabilmente, le stesse che lo psicologo Carl Rogers evidenziò appieno come elemento fondamentale di ogni psicoterapia. Anzitutto l’empatia, la capacità cioè di entrare in sintonia emozionale con l’altro, di comprendere le sue esigenze, i suoi bisogni, le sue aspettative sul piano ben più profondo di quello puramente razionale. È la capacità di ‘sentire’, più che di analizzare. Nel rapporto fra medico e paziente questa ‘disponibilità all’empatia’ assume un’importanza determinante. Inoltre, altre variabili sono importanti: la disponibilità all’ascolto, la capacità di apparire anche ‘persone’ e non solo ‘tecnici’, la fiducia che si può o meno ispirare sul piano umano.

Sono tutte caratteristiche, sul piano psicologico, che torneranno utili quando, dopo avere ascoltato i problemi del paziente, si sarà nella condizione di fornire una risposta. qualunque essa sia. È in questa fisse che il buon rapporto facilita la proposta di una soluzione al problema medico del paziente: non una soluzione ’preconfezionata’, o standardizzata, né tantomeno una soluzione di comodo fondata su dinamiche difensive del medico, o su una reinterpretazione delle esigenze del paziente, bensì una risposta coerente, valida sul piano scientifico ed emotivamente ‘carica’ sul piano umano, spesso basta far comprendere che si è capito e che si farà tutto il possibile, tenendo in considerazione realisticamente il problemi del paziente e non illudendolo sull’onnipotenza del potere terapeutico.

Condizione fondamentale di questa accettazione del paziente e dei suoi problemi c ovviamente la conoscenza che il medico ha di se stesso, dei propri atteggiamenti verso la tale o la talaltra malattia, del modo di gestire il proprio rapporto col malato. La medicina di base, in fondo, é il primo stadio scientifico della ‘psicoterapia’, se a questo termine viene giustamente conferito il significato di “terapia dell’anima”.

Ecco le domande che occorre che il medico si ponga: quali sono i suoi limiti di persona, quali le sue resistenze all’accettazione di quali patologie o di quali situazioni, Bisogna, allora, che il medico abbia elaborato una buona visione generale del suo modo di essere come persona, prima ancora che del suo modo di essere come medico. Occorre fare i conti, in altri termini, con i limiti umani da un lato, e con i limiti della professione dall’altro, sfuggendo alla pericolosa, subdola convinzione che esista la possibilità di una ‘onnipotenza terapeutica’ e di un totale distacco dalla sofferenza, che sempre e in ogni modo appare come ‘sofferenza dell’altro’.

Tutto questo può indurre in un errore fondamentale: quello di ritenere che per conseguire un tal risultato sia necessario trasformare il medico generico in uno psicoterapeuta. Il che, ovviamente, non è vero. È vero, semmai, che è tempo di comprendere che nell’essere medico, nel confrontarsi con la sofferenza umana, occorre una adeguata attenzione agli aspetti psicologici della malattia.

Una delle formidabili intuizioni di Balint fu quella di suggerire che è il medico stesso ad essere medicina; una medicina che può essere somministrata in vari momenti, con dosaggi diversificati, con indicazioni e contro-indicazioni differenti.

Non é peregrina l’idea che questa nozione del medico come medicina necessiterebbe di più adeguati approfondimenti durante il training universitario. allo stesso modo in cui si studiano struttura chimica, modalità di somministrazioni ed effetti (terapeutici e secondari) di altri farmaci. È probabilmente la sola strada per arricchire il bagaglio del medico di medicina generale, e del medico in genere, fornendogli nuove risorse per la pratica della sua arte e l’esercizio della sua scienza.

Giovanni Iannuzzo