Termini Imerese, Giovanni Leonardo Faraone: il magister che aiutò Vincenzo La Barbera a realizzare la seicentesca “cammara picta”

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Termini Imerese, almeno dalla nascita della monarchia normanna sino alla costituzione del 1812, ebbe lo status privilegiato di città demaniale, che la dotò di un più o meno ampio grado di autonomia,

con un proprio  corpus di privilegi e consuetudini (cfr. V. La Mantia, Storia della legislazione civile e criminale di Sicilia comparata con le leggi italiane e straniere dai tempi antichi sino ai presenti, I, Palermo 1866; L. Genuardi, Il comune nel medio evo in Sicilia. Contributo alla storia del diritto amministrativo, Messina 1921; F. Renda, Storia della

Sicilia dalle origini ai giorni nostri, II, Palermo 2003, p. 812). La cittadina, sin dal dominio federiciano si fregiò dell’altisonante titolo di Splendidissima, che le era stato concesso durante l’impero augusteo.

La sede della struttura amministrativa, retta da magistrati locali, era un edificio provvisto di un loggiato antistante e pertanto detto Toccum o Theatrum, di cui sinora sono note attestazioni tardo-medievali [cfr. P. Bova, A. Contino, G. Esposito, L’estrazione e l’uso delle brecce calcaree a rudiste (Cretaceo sommitale) in Termini Imerese (Palermo) nei sec. XVII-XX, in  G. Marino e R. Termotto, a cura di, “Arte e storia delle Madonie – Studi per Nico Marino”, Voll. VII-VIII, Atti della VII e VIII edizione, Cefalù – Sala delle Capriate, Palazzo del Comune, Piazza Duomo, 4 novembre 2017 e 3 dicembre 2018, Associazione Culturale – Nico Marino, Cefalù 2019, pp. 119-141, in particolare, pp. 125-126]. La residenza civica, tra la fine del Cinquecento e gli anni quaranta del Seicento, subì un totale rinnovamento al fine di renderla più decorosa, nel contesto di un nuovo progetto di riqualificazione dello spazio urbano più importante della cittadina demaniale [cfr. P. Bova, A. Contino, G. Esposito, L’estrazione e l’uso delle brecce calcaree a rudiste...cit., pp. 119-141, in particolare, p. 127 e segg.]

La sede storica del comune dovrebbe essere una tappa turistica indispensabile, tutt’altro che occasionale, da inserire in un piano museologico complessivo, visto che ha al suo interno una sala d’onore, a pianta rettangolare, ornata da decorazioni originali del primo Seicento, costituite da un fregio dipinto a fresco che decora la parte alta delle pareti e da un tetto  con nove cassettoni dipinti ad olio su tela.

Gli affreschi della sala appaiono ritmati essenzialmente da quadroni (dodici), che esibiscono le tappe salienti dei miti e della storia di Himera e di Thermae, e dei suoi personaggi illustri (sei figure a monocromo, dalla resa scultorea, poste ai lati dei riquadri che ornano le due ampie pareti laterali), rivisitate dall’estro artistico di un pittore-architetto manierista coadiuvato da una squadra di collaboratori e allievi. La formazione di architetto, pittore, scenografo, del nostro artefice, costituisce la chiave di lettura appropriata per comprendere come questo ciclo a fresco possa essere stato oggetto di un sapiente lavoro di quadratura. In questo ciclo pittorico murale, infatti, le immagini raffiguranti gli elementi architettonici che inquadrano le scene storiche sono dipinte sulle pareti creando un effetto di estensione prospettica dell’architettura reale della stanza in uno spazio immaginario che travalica i confini fisici delle pareti murarie espandendosi scenicamente. La ricca quadratura dipinta, infatti è costituita da una orditura decorativa di finti elementi architettonici, costituiti da trabeazioni, festoni, rosoni,  cartigli, grottesche, volute, nicchie etc. Nelle parenti frontali, che costituiscono i due lati corti della pianta rettangolare, l’architettura illusiva è abitata da vezzosi putti che sostengono, ai lati, ognuno dei quattro quadroni.

A nostro avviso, nel complesso, l’intero ciclo rappresenta una forma più completa di Gesamtkunst (arte totale), capace di unire idealmente la pittura con l’architettura, e la scultura, per mezzo di un attento e misurato gioco di quadrature, luci e ombre, nonché di illusionistici effetti trompe l’oeil. Tutto ciò costringe lo spettatore a percepire un’apparente profondità che supera la realtà bidimensionale delle immagini affrescate, una sorta di realtà virtuale ante litteram, che fa risaltare le architetture e le sculture dipinte.

La scelta dei soggetti delle scene dipinte, la loro l’impaginazione formale e la redazione testuale delle targhe esplicative fu affidata alla  fattiva collaborazione tra l’artista frescante ed un letterato (quest’ultimo rimasto in oblio fino al 1998). Il ciclo a fresco è il frutto di quello straordinario e, per certi versi irripetibile impegno, non solo di mecenatismo artistico, ma di un vero e proprio programma  di recupero urbanistico che, soprattutto nella prima metà del Seicento, ha caratterizzato gli ideali politico-culturali del ceto dirigente della cittadina imerese, tutto proteso ad un processo di nobilitazione epica.

Questa grande opera d’arte, costituita dal ciclo a fresco che adorna ancor oggi la Sala delle Adunanze del Magistrato Termitano o Cammara Domus Civitatis o Cammara Picta, all’interno della sede storica comunale, fu realizzato nel 1609-10 dal pittore ed architetto termitano Vincenzo La Barbera (Termini Imerese, c. 1576/77 – Palermo, 1642), artista poco più che trentenne, già allora di vasta cultura figurativa. La tecnica dell’affresco, cioè della pittura su una intonacatura di calce fresca, con colori macinati e diluiti in acqua, richiede grande rapidità e abilità esecutiva, non ammettendo errori o ripensamenti. Pertanto, appare imprescindibile, per la buona riuscita dell’opera, la predisposizione corretta e cadenzata delle varie fasi di lavoro. L’allestimento della bottega del frescante La Barbera, dovette prevedere quindi, una mole di lavoro non indifferente, propedeutica alla fase esecutiva propriamente detta che necessariamente deve essere eseguita tenendo conto delle condizioni meteo-climatiche e del tempo concesso al pittore ed alla sua squadra, dalla velocità di asciugamento dell’intonaco. Per ulteriori approfondimenti sulle varie fasi della tecnica dell’affresco, rimandiamo il lettore al trattato di Giuseppe Ronchetti (1857 – 1922) veramente completo e dettagliato (cfr. G. Ronchetti, Pittura murale – fresco – tempera – stereocronomia – pittura a olio – encausto ad uso dei decoratori – pittori – architetti – ingegneri e dilettanti di pittura – coll’aggiunta di un dizionario-enciclopedia dei termini principali riguardanti la pittura murale, Hoepli, 6ª edizione, Milano 1955, XV+405 pp.).

Nella parete di fronte l‘ingresso della Sala del Magistrato il La Barbera, a suggellare la fase finale della decorazione a fresco, eseguì un cartiglio con iscrizione (le cui lettere sono state dipinte scorciate e sformate a seguire realisticamente le volute), sancendo a memoria dei posteri la paternità dell’opera. Grazie alle ricerche degli scriventi coadiuvate dal collega Giuseppe Esposito, l’esatta lettura di tale iscrizione è stata finalmente decrittata nel 2018 e pubblicata nel 2019, emendando definitivamente tutte quelle precedenti: VINCE/N/TIVS BARBERA IN[VENTOR] P[ICTOR] T[H]ER[MITANU]S▲ I6I0▲[cfr. P. Bova, A. Contino, G. Esposito, L’estrazione e l’uso delle brecce calcaree a rudiste...cit., pp. 119-141, in particolare, p. 129 nota n. 62].

Questo ciclo a fresco, senza alcun dubbio, rappresenta un vero e proprio unicum autocelebrativo, una riscoperta e rivisitazione dei fondanti valori etici degli antenati che resero illustre Himera e Thermae, realizzato attraverso il ruolo determinante del connubio pittura-letteratura nel diffondere gli ideali di una propaganda interamente protesa alla riaffermazione della centralità della cittadina demaniale imerese, esaltandone i fasti ed i suoi gloriosi trascorsi storici, mirando al recupero dell’identità classica e del prestigio della Splendidissima.

L’autorità, il potere degli amministratori civici si esplica attraverso il sapiente utilizzo del linguaggio “all’antica”, ispirato alla classicità che si esprime prepotentemente nell’architettura e nella pittura non solo della ‘Cammara Picta’, ma dell’intero palazzo civico, simboleggiando la stabilità politica e il nuovo orgoglio della civitas demaniale. La renovatio viene portata avanti attraverso un rinnovamento che guarda all’antichità, procedendo nel solco lasciato dai “maggiori”.

Questa renovatio urbis ebbe come maggiori autori i due architetti civici della Termini del tardo Cinquecento e del primo Seicento: Antonino Spatafora ed il genero-allievo Vincenzo La Barbera. Antonino Spatafora (Palermo, c. 1552/53 – Termini Imerese, 22 Giugno 1613), architetto civile ed idraulico, pittore, cartografo, scenografo, una delle eclettiche figure di spicco del manierismo siciliano del tardo Cinquecento e del primo Seicento, progettista non solo dell’edificio civico, ma anche della maggior chiesa termitana (cfr. P. Bova, A. Contino, Termini Imerese, Antonino Spatafora e il modello ligneo seicentesco della maggior chiesa, Sabato, 27 Novembre 2021, in questa testata giornalistica on-line). Il La Barbera, succeduto al suocero nella direzione dei lavori pubblici della cittadina imerese (1613), fu il degno continuatore dell’opera dello Spadafora, che propugnava la sobrietà e linearità dei prospetti esterni degli edifici monumentali, focalizzando sul portale d’ingresso i principali caratteri distintivi e celebrativi, mentre una maggiore opulenza si concentrava sugli interni, nello specifico sui locali di rappresentanza, trattati in modo significativamente distintivo, sia dal punto di vista architettonico, sia decorativo, espressione precipua del potere civico.

Negli anni scorsi, prendendo le mosse dallo studio del bellissimo portale manieristico, i cui materiali lapidei (Pietra Bianca di Termini) provengono dalle cave della Rocca del Castello, allora site a breve distanza dal lido, abbiamo potuto ricostruire dettagliatamente e minuziosamente la complessa ed affascinante storia della realizzazione del palazzo civico termitano con il suo fiore all’occhiello costituito dall’importantissimo ciclo labarberiano [cfr. P. Bova, A. Contino, G. Esposito, L’estrazione e l’uso delle brecce calcaree a rudiste...cit., in particolare, pp. 133-135]. L’edificio, come recita la targa celebrativa posta al di sopra del portale, fu completato nel 1642, durante il regno di Filippo IV di Spagna e III di Sicilia, auspici il viceré, Juan Alfonso Enriquez de Cabrera, Almirante de Castilla ed i civici magistrati. Del resto, come scoperto da Patrizia Bova, Antonio Contino e Giuseppe Esposito, l’iscrizione appare affiancata non solo dallo stemma della città demaniale di Termini (a destra), ma anche dalle insegne gentilizie del viceré Juan Alfonso Enríquez de Cabrera e della viceregina Luisa o Aloisia Sandovàl y Roxas (a sinistra).

Il ciclo a fresco labarberiano è stato decrittato nel suo poliedrico substrato simbolico ed iconologico, dallo storico dell’arte Vincenzo Abbate (cfr. V. Abbate, La “Cammara Picta” del Magistrato e l”Umanesimo” termitano agli inizi del Seicento in “Storia dell’Arte”, 68, 1990, pp. 36-70). Proprio Vincenzo Abbate, nel suo saggio del 1990 (in alcune parti ormai datato) sulla ‘Cammara Picta’ ha giustamente compreso che, per quanto il La Barbera fosse un artista versatile, non avrebbe potuto da solo porre in atto un ciclo a fresco così complesso ed articolato senza l’indispensabile aiuto di un letterato profondo conoscitore delle fonti documentarie antiche. Un’opera di così vasto respiro come la decorazione a fresco della Sala Domus Civitatis, così pregna di risvolti celebrativi della magnificenza della Splendidissima, non poteva che essere il frutto di una mutua interazione tra un artista ed un letterato, che lavorando in sinergia sono riusciti a realizzare e rendere palpabile la complessa ideazione delle ambientazioni, rappresentate nei quadroni, esaltando gli eventi cardine e le figure illustri di Himera e di Thermae. In tal modo, alla comunicazione visiva trasmessa dalle immagini affrescate, fa da contraltare il testo latino delle didascalie esplicative, marcate da un gusto antiquario che enfatizza ancor più l’aspetto evocativo di un invidiabile passato storico: Termini erede d’Imera. Si tratta di un ben congegnato processo di recupero della Identitätsbildung (formazione dell’identità) della cittadina imerese, quale erede della grecità che scelse e colonizzò questo settore della Sicilia, particolarmente caro al ceto intellettuale e dirigente termitano del Seicento.

Vincenzo Abbate, in mancanza di riscontri documentari, si era sbizzarrito a proporre diverse figure di eruditi termitani che avrebbero potuto svolgere l’arduo compito di supportare il La Barbera: il filosofo e teologo (Sacræ Theologiæ Magister) fra Pietro Calanna (Termini Imerese, c. 1531 – ivi, 19 Gennaio 1606), minore conventuale, autore della Philosophia Seniorum Sacerdotia, & Platonica. A iunioribus, et laicis neglecta Philosophis. De mundo Animarum & Corporum (De Franciscis, Panormi M. D. XCIX.), oppure don Francesco Nugnes Zabatteri od ancora il letterato don Vincenzo Marchisi. In realtà, il mistero su questa figura di letterato è stato definitivamente risolto solo nel 1998, grazie alle capillari indagini archivistiche svolte da Antonio Contino e da Salvatore Mantia, svelando così che il La Barbera si avvalse della fattiva collaborazione del magister Giovanni Leonardo Faraone, precedentemente totalmente sconosciuto alla critica. Fu il Faraone che, per l’appunto, curò gli aspetti relativi alla scelta dei soggetti storici ed alle didascalie dei cartigli. Tutto ciò, si evince chiaramente dal mandato di pagamento di onze 4, in favore del Faraone, su incarico del tesoriere comunale Pietro de Marino, agli atti di notar Matteo de Michele: in faciendo impresas et historias pingendas in tecto cammare domus dicte civitatis (cfr. A. Contino, S. Mantia, Vincenzo La Barbera Architetto e Pittore Termitano. Presentazione di M. C. Di Natale. Termini Imerese, GASM, Termini Imerese 1998, 150 pp., in particolare,  pp. 83-85). Il Faraone, letterato e grammatico (magister gramaticæ et humanitatis), in servizio a quel tempo nel locale studium della cittadina imerese, era originario di Benevento.

Nuove ricerche, sinora inedite, portate avanti dagli scriventi, soprattutto nel 2020, hanno permesso di acquisire nuovi tasselli da inserire nel complesso mosaico, ancora lungi da essere delineato, relativo alla figura di Giovanni Leonardo Faraone (Pharaone) da Benevento ed al suo soggiorno siciliano per oltre un ventennio, sino alla fine dei suoi giorni proprio a Termini Imerese.

Il cognome di questo personaggio, senza alcun dubbio ha una origine toponomastica, poiché deriva dallo stupendo ed ormai fatiscente, pittoresco borgo abruzzese di Faraone (oggi noto come Faraone Antico o Faraone Vecchio, attualmente frazione di Sant’Egidio alla Vibrata, in provincia di Teramo, ormai abbandonato in favore del nuovo centro abitato.

Secondo gli studiosi, il toponimo Faraone (Pharaone), si lega al longobardo fara, unità fondamentale dell’organizzazione sociale e militare di questo popolo germanico (cfr. K. Von Amira, Grundriss Des Germanischen Rechts, K. J. Trübner, Strassburg 1913, XII+ 302 pp., in particolare, p. 171 e segg.; W. Bruckner, Die Sprache der Longobarden, K. J. Trübner, Strassburg 1895, reprint De Gruyter 1969, Quellen und Forschungen zur Sprach- und Culturgeschichte der germanischen Völker vol. 75, 354 pp., in particolare, p. 87 segg.; S. Antonelli, Il territorium apruziense in età longobarda, in I Longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento, Atti del XVI Congresso internazionale di studi sull’alto Medioevo, Spoleto, 20-23 Ottobre 2002, Benevento 24-27 Ottobre 2002, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2 voll., 1714 pp., 974 ill. b/n, 47 ill. colori, II, Spoleto 2003, pp. 1151-1168, nello specifico, p. 1158). E’ plausibile ritenere, quindi, che l’abitato di Faraone sorse come fara, nel senso di ‘accampamento’, avamposto militare conteso tra i ducati longobardi di Spoleto (a cui apparteneva) e quello di Benevento, essendo strategicamente collocato a guardia di importanti vie di comunicazione, in primis, la strada della Metella.

I primi marcati problemi statici dell’abitato di Faraone, allo stato attuale delle ricerche, si legano alla sequenza sismica del 1703 che provocò nell’abitato dei danni macrosismici valutati attorno l’VIII grado (cfr. E. Boschi, E. Guidoboni, G. Ferrari,  G. Valensise, P. Gasperini P., a cura di, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a. C. al 1990. Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, SGA Storia Geofisica Ambiente,  SGA, Bologna 1997, 644 pp., la versione aggiornata all’indirizzo http://storing.ingv.it/cft/).

Agli inizi dell’Ottocento, Luigi Ercole così descriveva il borgo ed il territorio di Faraone: «Ad un quarto di miglio verso Settentrione era ne’ tempi andati un Castello, di cui restano alcune vestigia, e dalle rovine del quale Faraone è sorta. Ha a Settentrione un profondo fosso scavato dalle acque piovane, che scendono dal Colle di Montesanto e dalla Pianura adjacente all’Ovest; e in altra poca distanza il misterioso Fiume Vibrata […] Ad Oriente gli scorre molto dappresso il Fiume Salino, colle cui acque fanno crescere eccellenti erbaggi. Il suo Territorio è tutto in bella e vaga pianura, e forma una parte del confine del Regno, tra S. Egidio e Montesanto. Egli è evidentemente formato dalle Alluvioni del Fiume Vibrata e Salino, giacché ad una certa profondità presenta a varie riprese degli Strati di sabbia, di pietre, e di argilla trascinata dagli accennati due Fiumi. Vi si trovano bellissime petrificazioni di rami d’alberi, d’erbe, e di rettili. L’aria vi è assai buona, ma un po’ fredda, in cui perciò non prosperano gli Olivi; Abbonda in grano e vino, in belle ed alte canapine, in grosse e saporite rave e ravanelli, de’ quali fanno commercio colla propria Provincia e colla vicina Ascoli nello Stato Pontificio. Distante al Sud-Ovest da Teramo 9 miglia, e un miglio al Nord-Est dal Confine del Regno, E’ Terra Baronale del Secondo Ripartimento, composta di 384 anime; Feudo della Famiglia Tullij. Diocesi della Real Badia di Montesanto» (cfr. L. Ercole, Dizionario topografico-alfabetico portatile, in cui sono descritte tutte le città terre, e ville regie, e baronali, giurisdizioni, e diocesi della provincia di Teramo divisa in cinque ripartimenti con brevi notizie istoriche de’ luoghi, Berardo Carlucci, Teramo 1804, 204 pp., in particolare, pp. 46-47).

Nella parte relativa al Reame di Napoli del Dizionario corografico-universale dell’Italia sistematicamente suddiviso secondo l’attuale partizione politica d’ogni singolo Stato italiano (vol. IV, parte I,  Civelli Giuseppe e Compagni, 1852, 1056 pp., in particolare p. 366), si legge che Faraone, avendo ormai perso lo status comunale «dipende per l’amministrazione da Sant’Egidio». Quest’ultimo, dopo l’annessione al regno sabaudo, assunse poi l’attuale denominazione di Sant’Egidio alla Vibrata (cfr. R.D. 28 Giugno 1863, n. 1426, giusta la deliberazione del 15 Settembre 1862 di quel Consiglio comunale).

Agli inizi degli anni 20’ del XX secolo, con R. D. di Vittorio Emanuele III, addì 24 Aprile 1921, n. 908 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n. 170 del 20 Luglio 1921), che approvava le tabelle degli abitati da consolidare a cura ed a spese dello Stato, fu disposto anche l’inserimento di Faraone, a causa dei movimenti gravitativi che interessavano l’abitato (cfr. Bollettino ufficiale del Ministero dei lavori pubblici. Parte prima e seconda. Leggi, Decreti, Circolari, Comunicazioni e Disposizioni sul personale, anno XXIII, n. 2, 11 Gennaio 1922, Roma 1922, pp. 51-52).

Eventi sismici (1943, 1950) favorirono un aggravamento dei movimenti gravitativi che già avevano  minacciato in precedenza l’abitato di Faraone. Tutto ciò portò poi alla decisione di dare atto al totale dislocamento della popolazione nella nuova sede urbana di Faraone Nuovo (in seguito all’accentuarsi dei movimenti franosi si ebbe il decreto del Presidente della Repubblica Italiana, Luigi Einaudi, del 23 Febbraio 1952, n. 424: Inclusione dell’abitato di Faraone frazione del comune di Sant’Egidio alla Vibrata (Teramo) fra quelli da trasferire a totale carico dello Stato, cfr. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana,  Serie Generale n. 108 del 9 Maggio 1952, p. 1696), completata in un quindicennio circa, decretando così l’abbandono ed il progressivo degrado del borgo medievale.

Tornando al letterato beneventano Giovanni Leonardo Faraone, allo stato attuale delle ricerche, nulla sappiamo della famiglia di origine ed altrettanto oscura rimane la sua prima formazione, anche se egli ebbe certamente una buona reputazione come letterato e, in particolare, come grammatico, che dovette travalicare l’ambito della sua regione di origine. Non sono altresì noti i motivi per cui egli si trasferì in Sicilia dove appare documentato già nell’ultimo decennio del Cinquecento. Infatti, la prima attestazione documentaria, relativa alla presenza del Faraone nell’Isola, rimonta al 1596, allorché Giovanni Leonardo appare attivo a Caccamo, dove svolgeva il suo incarico di maestro di scuola di umanità (ut tunc magisterio scole humanitatis dicte terre). Ciò appare chiaramente dalla causale di un mandato di pagamento, datato 6 Novembre Xa Indizione 1596, da parte di mastro Giacomo Cardella, gabelloto dell’Acatapanìa ovvero Curatore della Mastrìa di Piazza (ufficio annonario) di detta città, dove risulta che il Faraone incassò la somma di onze sette e tarì venticinque alla presenza dei testimoni, i termitani Vincenzo e Giovanni Francesco Vallelunga padre e figlio (cfr. Archivio di Stato di Palermo, Sezione di Termini Imerese, d’ora in poi ASPT, fondo notai defunti, atti di un notaio incognito di Termini, vol. 1650, ff. 44r.-45r.). Da notare che il mandato fa esplicito riferimento ad un precedente rogito agli atti di notar Filippo Pecorella di Caccamo, datato 19 Maggio VIa Indizione 1593, che possiamo ragionevolmente ritenere fosse relativo proprio all’incarico di docente assunto dal Faraone. Purtroppo, allo stato attuale delle ricerche, i rogiti superstiti del detto notaio Pecorella non vanno oltre al range 1611-1615.

Il 3 Agosto XIIa Indizione 1599, il sacerdote termitano Calogero de Michele (zio materno di Vincenzo La Barbera), in qualità di procuratore del nipote Domenico de Michele, diede in affitto a Giovanni Leonardo Faraone una casa solerata (raddoppiata da un solaio), ubicata nella città di Termini e nel quartiere sotto l’Ospedale (della SS. Trinità, oggi Museo Civico), per la somma annuale di 10 tarì, essendo presenti al rogito il precitato Francesco Vallelunga e mastro Pietro Faraci (cfr. ASPT, notai defunti, atti di notar Tommaso Bertòlo di Termini Imerese, 1598-1599, vol. 12971).

Il 22 Agosto V Indizione 1607, Giovanni Leonardo Faraone, su mandato di Lorenzo Lo Cascio, tesoriere dell’Universitas  (da universi cives, “unione di tutti i cittadini”, comune) di Termini, assente alla stipula, ricevette dal notaio Matteo de Michele, onze 6 e tarì 20 a completamento del salario di onze 20 a lui spettante per la mansione di magister humanitatis, relativo all’anno indizionale 1606-1607 (cfr. ASPT, fondo notai defunti, atti notar Matteo de Michele di Termini, vol. 13037, 1606-7, f. 291).

Nel registro del 1606-1607 e 1607-1608 degli Atti dei Magnifici Giurati della Splendidissima e Fedele Città di Termini (d’ora in poi AMG), ms. della Biblioteca Comunale Liciniana di Termini Imerese (d’ora in poi BLT) ai segni III 10 a 20,  abbiamo scoperto (e ne facciamo menzione qui per la prima volta), l’atto di concessione della cittadinanza termitana a Jo[hannes] Leonardus Pharaonius Beneve[n]tanus, in data XVII Settembre VI 1607 (ff. 153v-155r). Il privilegio fu dato dai giurati (amministratori civici) che reggevano la cittadina, Camillo Patteri, Giacomo Bonafede, Giuseppe Solito ed Andrea Giambruno. Questi ultimi, nel documento ufficiale che abbiamo rintracciato tra gli atti giuratori, ampollosamente si fregiano come rappresentanti dell’ordine senatorio dell’Universitas della Splendidissima città di Termini Imerese: Ordo Spl[endidissi]me Ther[m]ar[um] Himere Urbis Uni[versita]tis. A nostro, avviso, questa designazione racchiude in sé proprio la ferma volontà di sancire l’importanza della filiazione di Termini dalla città di Himera che troverà pochi anni dopo la sua massima espressione artistico-letteraria proprio nel ciclo labarberiano.

L’atto di conferimento della cittadinanza, ci conferma che il Faraone, già da parecchi anni era stato valido insegnante degli adolescenti che frequentavano lo studium termitano. La cittadinanza veniva accordata al Faraone, in uno con tutta la famiglia (cum tota familia), per aver dimorato a Termini, oltre un quinquennio continuo ed altri parecchi anni, esercitando la predetta professione. Da quel giorno, egli avrebbe usufruito del diritto di cittadinanza, comprensivo di ogni immunità, grazie e diritti. Il documento fu sottoscritto dai giurati predetti e dal mastro notaio della corte giuratoria, Matteo de Michele.

Nell’anno IX Indizione 1610-11, dal Ruolo dell’Officio di Mastro Notaro della Corte Civile di Termini apprendiamo che il Faraone fu ascritto tra i concorrenti per tale ufficio e ciò induce a ritenere che Giovanni Leonardo fosse in possesso anche di titoli giuridici, legati alla sua formazione accademica, non solo letteraria (cfr. AMG, 1610-11, ms. BLT, s. n.).

Il 22 Giugno IX Indizione 1611, Giovanni Leonardo Faraone fu riconfermato nella sua mansione di maestro di gramatica et humanitatis pro anno uno, sempre con il compenso di onze 20 annuali. Cinque anni dopo, in uno dei bastardelli (registri notarili per annotarvi, anche provvisoriamente, atti di specie disparate in una serie unica e quindi non omogenea), inventariati come appartenenti ad un notaio sinora incognito, ritroviamo ancora il Faraone, il 12 Settembre XV Indizione 1616, quale beneficiario della somma di onze tre pro salario ricevuta da Giovanni Giacomo Cinquemani, addetto alla tesoreria della corte giuratoria di Termini (cfr. ASPT, notar incognito di Termini Imerese,  bastardelli, vol. 1696, 1616-17, f. 33r).

L’assunzione di Faraone nello studium termitano, costituì un tassello nella costruzione di quella politica di rinnovamento culturale portato avanti e tenacemente perseguita dall’amministrazione civica di Termini Imerese.

Piuttosto che ipotizzare l’esistenza di un cenacolo culturale propugnante una sorta di «Umanesimo termitano», come proposto da Vincenzo Abbate, siamo orientati a ritenere  che sia stato proprio lo studium termitano il vero fulcro accademico del rinnovamento culturale del Seicento imerese. Il Faraone, grazie alla sua attività di insegnamento svolta nello Studium termitano dovette ben presto inserirsi pienamente nell’humus culturale della cittadina imerese, sino ad essere scelto per supportare l’opera di frescante del La Barbera, segno evidente del prestigio e del credito come studioso di humanitas ormai ben consolidati e pacifici.

Purtroppo, non sappiamo quando Giovanni Leonardo Faraone entrò in competizione letteraria con il poeta, musico, pittore ed insegnante, Sebastiano Bagolino (Alcamo, 25 Marzo 1562 – ivi, 26 Luglio 1604). Quest’ultimo era figlio del pittore Giovan Leonardo, di origine veronese, e di Caterina Tabone, alcamese [cfr. F. M. Mirabella, Sebastiano Bagolino poeta latino ed erudito del sec. XVI, in “Archivio Storico Siciliano”, d’ora in poi ASS, n. s., XXXIII (1908), pp. 105-266; XXXIV (1909), pp. 1-32; XXXV (1910), pp. 1-32, 245-292; XXXVI (1911), pp. 77-112, 396-430].  Il Bagolino, nei suoi carmina, definisce Giovanni Leonardo con l’irriverente epiteto di «beneventanum poetastrum», bersagliandolo in maniera molto sferzante e mettendo in ridicolo l’avversario rimarcando impietosamente i caratteri ed i difetti fisici del collega (cfr. A. Di Giovanni Mira, Su i migliori storici e poeti latini del secolo XVI in Sicilia, Solli, Palermo 1832, 40 pp., in particolare, p. 23; F. M. Mirabella, Sebastiano Bagolino poeta latino ed erudito…cit., ASS, XXXV (1910), pp. 1-2, vedi appendice documentaria).

Il Bagolino, infatti, ironizzò ferocemente sulla vena poetica dell’antagonista, sostenendo che fosse menzognero chi metteva in dubbio le qualità del Faraone, perché ci sarebbero mille prove del suo essere «poeta». Con questo espediente Bagolino mise in ridicolo l’aspetto fisico e rimarcò i mali di cui soffriva il Faraone, dandoci però un interessante ritratto del maestro di origine beneventana. Bagolino discetta, ad esempio, sulla barba nera di Giovanni Leonardo, secondo lui dall’aspetto ripugnante per l’eccessiva presenza di fuliggine, che paragona a quella squallida di Pacuvio (Marco Pacuvio, poeta e tragediografo latino: Brindisi, 220 a. C. – Taranto, c. 130 a. C.); il suo naso grosso, poi, non c’era dubbio, rimandava al famoso poeta Nasone (Publio Ovidio Nasone, poeta latino: Sulmona, 43 a. C. – Tomi, Mar Nero, 17 d. C.) e via seguitando. Infine, una sola cosa lasciava Bagolino dubbioso sul fatto che il Faraone fosse un poeta: l’ernia, perché si domandava quale fosse stato nella storia un vate che avesse sofferto di tale problema fisico. La poesia del Bagolino, che nell’afflato petrarchesco raggiunge alte vette, scade notevolmente in quella satirica. In quest’ultima, infatti, appare pervaso da una vena poetica intrisa di fiele, che scade nel vero e proprio vituperio dell’avversario attraverso parodistici ritratti assetati di acredine e maldicenza. Del resto non sappiamo cosa scrisse il Faraone e se e come rintuzzò l’attacco mordace del Bagolino.

Purtroppo, attualmente la produzione letteraria del Faraone è del tutto sconosciuta, per cui  ben si comprende come la restituzione storica e biografica è l’unico aspetto che abbiamo potuto approfondire su queste figura.

Giovanni Leonardo Faraone si spense poi a Termini Imerese il 27 Ottobre II Indizione 1618, venendo sepolto nella chiesa di S. Vincenzo Ferrer (Santo Vincentio) dei padri predicatori di S. Domenico (cfr. Archivio Storico della Maggior chiesa di Termini Imerese, d’ora in poi AME, vol. 93, ad indicem).

Concludendo, la nostra indagine ha messo in evidenza i legami che nella ‘Cammara Picta’ coinvolgono gli ambiti propri della letteratura e delle arti pittoriche. Nella realizzazione del ciclo a fresco, grazie alla reciproca interazione tra il La Barbera frescante ed il Faraone letterato, è nata una sinergia ed un sincretismo, mirabilmente capace di conciliare la rielaborazione dei topoi classici storico-letterari, legati agli eventi storici principali di Himera e Thermae, e la loro trasfigurazione secondo la personale visione e l’estro dell’artista. Siamo in presenza di un vero e proprio “manifesto” della rinascita culturale termitana in cui il connubio tra arte e letteratura riesce a dare origine ad una rivisitazione in chiave attualistica della classicità, presa ad esempio dalla società colta e della classe politica termitana degli inizi del Seicento. Il rinnovato interesse verso la storia antica e la mitologia classica, si lega alla glorificazione dei personaggi illustri quali modelli di comportamento, esempi di valori morali e di virtù da esaltare ed emulare. Le didascalie latine, costituiscono un misurato sussidio scritto alle immagini dei quadroni, generando il felice incontro tra i due codici espressivi, immagine e scrittura, arte visiva e letteratura che, in tal modo, divengono complementari (linguaggio visivo e linguaggio scritto), giammai contrapposti.

Patrizia Bova e Antonio Contino

Ringraziamenti: vogliamo esternare la nostra più sincera gratitudine, per l’essenziale supporto logistico nelle nostre ricerche e per la consueta disponibilità, rispettivamente, ai direttori ed al personale dell’Archivio di Stato di Palermo, sezione di Termini Imerese e della biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese. Ringraziamenti particolari vanno a don Francesco Anfuso e a don Antonio Todaro per averci permesso di effettuare basilari ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese.

Appendice documentaria
Di Giovanni Mira, Su i migliori storici e poeti latini del secolo XVI in Sicilia, Solli, Palermo 1832, 40 pp., in particolare, p. 23; F. M. Mirabella, Sebastiano Bagolino poeta latino ed erudito…cit., ASS, XXXV (1910), pp. 1-2.

Ad Pharaonem quendam beneventanum poetastrum

Mentitur, qui te, Pharao, non esse poetam / Dixerit: indiciis hoc ego mille probo. / Quod tibi prae nimia squalet fuligine barba, / Nonne, et Pacuvii squalida barba fuit? / Quod donata fuit magni tibi copia nasi, / Nonne satis celeber Naso poeta fuit? / Quod tibi putidulis hircus gravis accubat alis / Nunquid Aristophanes non redolebat idem? / Quod furis, Empedoclis fuit hoc, qui frigidus Aetnam / Ardentem insiluit, dum cupit esse Deus. / Ergo, mi Pharao; totus (mihi crede) poeta es, / Hoc unum certe me dubitare facit. / Hernia me dubitare facit, te haud esse poetam: / Dic mihi: quis vates herniolosus erat?