Epidemie, clima e arte: La Barbera e S. Rosalia tra Palermo e Termini Imerese

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Vincenzo La Barbera, architetto civico, ingegnere militare, e pittore, nacque a Termini Imerese nel 1577 c.,

secondo di sei figli, da Mastro Pietro, calzolaio, abile mercante e, verosimilmente, anche paratore, e da Domenica de Michele (di Mastro Domenico, fabricator, costruttore, e di Pietra Scillufo), già vedova di Mastro Vincenzo Lo Consolo. Ciò è stato dimostrato, attraverso una puntuale ricerca archivistica, da Antonio Contino e Salvatore Mantia (cfr. A. Contino, S. Mantia, Vincenzo La Barbera Architetto e pittore termitano, presentazione di M. C. Di Natale, GASM, Termini Imerese 1998, pp. 35-36, 47-48 e 69-70; Idem, Architetti e pittori a Termini Imerese tra il XVI ed il XVII secolo, presentazione del rev. P. Francesco Anfuso, GASM, Termini Imerese 2001, p. 97).

Il nonno paterno di Vincenzo La Barbera, Bartolomeo, originario della Liguria, sposò a Termini Imerese, una tal Lucrezia (della quale, allo stato attuale delle ricerche si ignora il casato), allo scadere della 1ª metà del Cinquecento, divenendo cittadino della Splendidissima che allora disponeva di uno dei più grandi ed ambiti Caricatori, complesso di magazzini per lo stoccaggio transitorio delle vettovaglie (su Bartolomeo Barbieri, cfr. A. Contino, S. Mantia, Vincenzo La Barbera…cit., p. 19 e pp. 35-36; sul Caricatore, cfr. P. Bova, A. Contino, La Serenissima e la Splendidissima: memorie di Venezia a Termini Imerese tra il XIV e il XVII sec., “Esperonews”, Sabato, 4 Agosto 2018, on-line su questa testata giornalistica).

Il 17 Novembre XIa Indizione 1597, nella Maggior Chiesa di Termini Imerese, il pittore Vincenzo La Barbera impalmò Elisabetta Spatafora, figlia del suo maestro (cfr. A. Contino, S. Mantia, Vincenzo La Barbera…cit., p. 71 e doc. n. 5 p. 124). Vincenzo, infatti, aveva svolto il suo apprendistato presso la bottega di Antonino Spatafora (Palermo, c. 1552/53 – Termini Imerese, 22 Giugno 1613), architetto civile ed idraulico, pittore, cartografo, scenografo e capomastro delle fabbriche della città di Termini Imerese, esponente del manierismo siciliano. Lo Spatafora diresse numerosi lavori pubblici, di cui fu il progettista, come la nuova maggior chiesa termitana (cfr. P. Bova, A. Contino, Termini Imerese, Antonino Spatafora e il modello ligneo seicentesco della maggior chiesa, “Esperonews”, Sabato, 27 Novembre 2021, su questa testata giornalistica on-line).

Nel 1613, essendo defunto lo Spatafora, l’incarico di architetto civico della cittadina imerese fu ricoperto dal maggiore allievo e genero, Vincenzo La Barbera (cfr. A. Contino, S. Mantia, Vincenzo La Barbera…cit., pp. 69-89; Idem, Architetti e pittori…cit., pp. 25-30; pp. 98-118).

Agli inizi del 1622, il La Barbera si trasferì definitivamente con la famiglia a Palermo dove svolse precipuamente la sua attività di architetto e pittore, coadiuvando nella sua plurima attività, il collega Mariano Smiriglio (1569-1636), Architetto del Senato di Palermo (cfr. F. Meli, Degli Architetti del Senato di Palermo nei secoli XVII e XVIII, in: “Archivio Storico Siciliano”, 1938-39, pp. 305-470).

Attorno al 1623, si ebbe la diffusione di una epidemia di «febbre maligna», che danneggiava le vie respiratorie e rendeva difficoltosa la deglutizione, contagiosa non per immediato contatto, bensì «per inspirationem & expirationem», della quale si ha testimonianza negli scritti del medico Giambattista Cortesi (Bologna, 1553/1554 – Reggio Calabria, 1633/1634), professore di anatomia e di medicina pratica nell’Università di Messina. Il Cortesi, collegò l’epidemia con la variabilità climatica del biennio precedente, caratterizzata da prevalenti venti meridionali e dall’incostanza delle stagioni e degli etèsi (venti periodici da N-NE, tardo primaverili ed estivi, cfr. Meteorological Office, Weather in the Mediterranean. General Meteorology, vol. I, Meteorological Office 391, Her Mejesty’s Stationery Office, London 1962, XIV+361 pp.). Infatti, come ci informa il Cortesi, l’autunno fu mutevole, freddo, da secco ad umido. L’inverno fu molto instabile e caratterizzato da dominanti venti meridionali. La primavera, invece di essere temperata, in maniera inconsueta fu fredda ed umida (duobus annia ventus australis semper prædominium habuit, & etesiæ spirarunt quidem, sed non more consueto, autumnus varius fuit; modò enim siccus, modò humidus, in summa varius, & incostans, in qualitatibus activis magis frigidus, & in passivis siccus, itaut magis fuerit frigidus & siccus, quàm frigidus & humidus. Hyems, & ipsa varia, & incostans fuit spirantibus, ut plurimum ventis australibus. Ver, quod sua natura debet esse temperatum, frigidum & humidum fuit, & valde incostans, cfr. J. B. Cortesii, Miscellaneorum medicinalium decades denæ: in quibus pulcherrima ac utilisima quæque ad Anatomen, Chirugiam, et totius fere Medicinæ Theoriam, et Praxim spectantia sparsim quidem, sed iucundisimo ordine continentur. Ad illustriss[im].um senatum nobilis urbis Messanæ, ex typographia Petri Breæ, Messanæ MDCXXV, L+836+XIV pp., Decas IX, Epistola Sexta loanni Antonio Anguillonio Classis Triremium Sacra Religionis Equitum Hierosolymitanorum Archiatro Dignissimo, pp. 696-705). Del resto, proprio recenti studi hanno postulato una interdipendenza tra epidemie e fluttuazioni climatiche [cfr. T. Ben Ari, S. Neerinckx, K. L. Gage, K. Kreppel, A. Laudisoit, H. Leirs, N. Ch. Stenseth, Plague and Climate: Scales Matter, “PLoS Pathog”, 2011, 7(9), e1002160]. Il secondo decennio del Seicento in Sicilia, dal punto di vista climatico attende di essere ancora studiato nel dettaglio e questi dati costituiscono chiaramente un primo contributo alla ricerca, all’interno della cosiddetta “Piccola Età Glaciale” (Little Ice Age, LIA), contraddistinta da una avanzata dei fronti glaciali in molte parti del globo (per maggiori approfondimenti rimandiamo al nostro contributo: P. Bova, A. Contino, Scirocco e siccità a Termini Imerese e nelle Madonie negli anni 60′ del Cinquecento, “Esperonews”, Domenica, 28 Luglio 2019, in questa testata giornalistica on-line).

Alla «febbre maligna» del 1623, che aveva già mietuto vittime e debilitato la popolazione, purtroppo, doveva seguire un’epidemia ancora più devastatrice, quella della famigerata «peste», scoppiata nel 1624. Attualmente, nonostante gli sviluppi della medicina moderna, la peste è rimasta una malattia ad elevata patogenicità e possibile rapida diffusione, costituendo una subdola minaccia in molte aree del mondo, soprattutto africane e non può essere eradicata a causa della fauna selvatica che serve da serbatoio. La malattia, favorita dalla mancanza di igiene quotidiana, è provocata da un batterio (Yersinia pestis), trasmessa nella forma bubbonica dalle pulci dei ratti, mentre nelle forme polmonari e setticemiche, il contagio è interpersonale, tramite goccioline respiratorie diffuse dalla tosse. L’infezione, dopo un periodo di incubazione di 3-7 giorni, manifesta i sintomi: un improvviso rialzo termico, brividi, mal di testa, dolori muscolari, debolezza, vomito e nausea. Nella forma bubbonica le ghiandole si ingrossano e si infiammano [cfr. N. Ch. Stenseth, B. B. Atshabar, M. Begon, S. R. Belmain, E. Bertherat, E. Carniel, K. L. Gage, H. Leirs, L. Rahalison, Plague: Past, Present, and Future, “PLoS Med.”, 2008 Jan, 5(1), e3].

Il 25 Giugno VIIa Indizione 1624, il viceré di Sicilia, il principe Filiberto di Savoia (Torino, 16 Aprile 1588 – Palermo, 4 Agosto 1624), proclamò ufficialmente la propagazione dell’epidemia che ormai, inesorabilmente, si stava diffondendo a Trapani ed a Palermo (cfr. A. Amore, Emanuel Filiberto di Savoja Viceré di Sicilia, Giannotta, Catania 1886, 104 pp., in particolare, doc. pp. 101-103). Il morbo era arrivato in Sicilia attraverso il vascello della redenzione, per il riscatto dei cristiani in cattività presso i musulmani, che proveniva dall’attuale Tunisia, con un carico di merci, molte delle quali di gran pregio, che facevano gola all’avidità di molti. La propagazione dell’epidemia pestilenziale, che si diffuse poi nell’Isola, si sarebbe potuta evitare se non ci fossero state colpevoli incompetenze proprio nell’entourage del viceré, primo fra tutti il segretario Antonio Navarra, che pagò la sua cupidigia e malvagità con la vita, vittima della stessa infezione, il cui pericolo aveva dolosamente celato. Il giorno 8 Luglio, fu data ampia potestà alla deputazione sanitaria di quartiere, creata all’occorrenza, di poter procedere senza alcun preavviso come se si fosse in stato di guerra: «prosedendo en esto a ex arrupto [sic, ex abrupto] de guerra», comminando come punizione la prigione, la tortura, le frustate, l’esilio o fino a cinque anni di lavori forzati nelle galere: «presion, tortura, azotes, destierro, y asta a cinco annos de galera» (cfr. A. Amore, Emanuel Filiberto di Savoja Viceré di Sicilia, Giannotta, Catania 1886, doc. pp. 103-104).

Giannettino Doria (Genova, 24 Marzo 1573 – 19 Novembre 1642), cardinale di Santa Romana Chiesa ed arcivescovo di Palermo (nominato il 5 Luglio 1608, insediatosi il 7 Maggio 1609), che era a Termini Imerese (Terme) «a cagione di malattia» per delle cure termali, alla notizia della pestilenza, «determinò di trasferirsi sul momento alla propria residenza, quantunque gli amici, e i medici si sforzassero di trattenerlo, con insinuargli il timore di una sicura morte, ove tuttora convalescente esposto si fosse al pericolo di quel contagioso morbo» (cfr. L. Cardella, Memorie storiche de’ cardinali della Santa Romana Chiesa, VI, Stamperia Pagliarini, Roma MDCCXCIII, pp. 113-115).

Il 15 Luglio VIIa Indizione 1624, mentre a Palermo imperversava gravemente l’epidemia, in una grotta del monte Pellegrino vennero rinvenuti dei resti mortali, nel sito indicato da una certa Geronima la Gattuta, di 47 anni, ricamatrice, oriunda di Ciminna (attuale comune omonimo). Lei stessa raccontò gli avvenimenti nella sua deposizione verbale di interrogazione, stilata il 19 Luglio VIIa Indizione 1624, presso la Corte Arcivescovile di Palermo, che si conserva in un carteggio manoscritto cartaceo seicentesco, ai segni 2 Qq E 89, della Biblioteca Comunale di Palermo (d’ora in poi BCP), trascritto ed edito nel 1997 a cura della studiosa Rosalia Claudia Giordano (cfr. R. C. Giordano, a cura di, Originale delli testimonj di Santa Rosalia. Trascrizione del manoscritto 2 Qq E 89 della Biblioteca Comunale di Palermo, presentazione di F. Guttuso, appendice iconografica a cura di R. Guarneri Enea, Aere Perennius, Testi 1, Città di Palermo, Palermo 1997, 324 pp., in particolare, p. 23 e segg., nel ms. cc. nn. 33r e segg., Pan[or]mi die 19 Julij 1624).

Il racconto trascritto nella deposizione di Geronima la Gattuta, inizia antecedentemente all’epidemia, proprio nell’autunno del 1623, quando dilagava la già citata «febre maligna», della quale era affetta. Gerolama, ricoverata nell’Ospedale Grande di Palermo, essendo in fin di vita, aveva già ricevuto il sacramento dell’unzione degli infermi. La notte, le apparve «una monaca vestuta di blanco che attirava i lampi et essa confidente ci domandò acqua et li parsi che accostao detta monaca con la mano verso la bocca e si sentìo la bocca piena d’acqua. E ci dissi la ditta monaca: “non dubitari che sì sana: fa voto di andare a Monte Pellegrino”» (cfr. R. C. Giordano, a cura di, Originale delli testimonj…cit.). Girolama, nonostante che, grazie all’intercessione di S. Rosalia apparsa in abito monacale, fosse totalmente guarita entro tre giorni, per parecchi mesi indugiò ad adempiere il voto. Il 26 Maggio 1624, giorno di Pentecoste, essendo vessata da una febbre quartana della quale era affetta, finalmente prese la decisione di salire sul monte Pellegrino, in compagnia del marito Beneditto Lo Gattuto (oriundo di Burgio), di Vito di Amodeo, marinaio trapanese di 37 anni, e della di lui moglie, per sciogliere il voto fatto ed iniziare la ricerca dei resti mortali di S. Rosalia.

Giordano Cascini S. J. (Palermo, 25 Novembre 1565, ivi, 21 Dicembre 1635), rettore del Collegio Massimo palermitano, nella sua opera dedicata alla Santuzza, pubblicata postuma con digressioni dal confratello Pietro Salerno, poco dopo la metà del Seicento, ricorda che tutta la comitiva, giunse sul monte Pellegrino: «quivi fatta insieme da tutti divota oratione, & allontanate poi le compagne, rimase ella [Girolama La Gattuta] dentro la Santa grotta, parte per la stracchezza [stanchezza], e parte per tirare più à [sic] lungo la sua divotione, fù [sic] quì [sic] soprapresa [sorpresa] da leggier sonno e le parve sull’altare, secondo ch’ella descrive, vedere la Vergine Madre di Dio col Figlio in braccio, e col manto azzurro la quale cosi [sic] le dicesse. Venisti à [sic] sciogliere il voto, sei sana: e che quivi poscia di nuovo le apparisse la monachella, veduta già nell’Hospedale, con additarle un luogo dentro la grotta, accioche [sic] ivi cavando trovasse un deposito di sante Reliquie (…)».  Gerolama «non si poté contenere di non mettere ella stessa le mani à [sic] cavare all’hora all’hora per buon principio della opera, la quale andò co[n]tinuando poscia Vito [di Amodeo] dal primo giorno di lavoro dopò [sic] le feste, che fù [sic] il 29. di Maggio, aiutato d’alcuni suoi compagni; non che del continuo ogni dì vi lavorassero, ma con intervallo di più giorni, lasciando, e ripigliando l’opera cominciata, finche [sic] ripigliatala caldamente à [sic] 10. di Luglio in capo di sei giorni di perseveranza incontrarono [sic] un gran sasso (cfr. G. Cascini, Di Santa Rosalia Vergine Palermitana Libri tre. Nelli quali si spiegano l’Inventione delle Sacre Reliquie, la vita solitaria, e gli honori di lei. Con aggiunta di trè [sic] Digressioni historiche, del Monte Pellegrino, ove visse e morì: di suo Parentado ch’ebbe discendenza dall’Imperadore Carlo Magno: E d’alcuni componimenti in sua lode. dedicati all’Illustrissimo Senato di Palermo, I Cirilli, Palermo MDCLI, p. 24). Le estenuanti ricerche, portarono, quindi, il giorno 15 Luglio 1624, alla scoperta di alcuni resti umani, fortemente inviluppati dalle concrezioni di carbonato di calcio, depositate nel corso dei secoli, dall’acqua che stillava dalla grotta. I resti, trasportati poi in città furono custoditi dal Doria, presso la sede arcivescovile, mentre successivamente, dopo il responso positivo della seconda perizia, trovarono degna collocazione nella cattedrale palermitana.

Il 27 Luglio VIIa Indizione 1624, Vincenzo La Barbera, essendo sedici giorni prima venuta a mancare a Termini Imerese la madre Domenica de Michele, fece procura al cognato (marito della sorella Lucrezia), Giovanni Leonardo Salamone alias Pinnisi, al fine di espletare in sua vece le disposizioni testamentarie e stipulare alcuni rogiti, come avvenne poi il 28 corrente mese (cfr. A. Contino, S. Mantia, Architetti e pittori…cit., pp. 138-139). Vincenzo, infatti, risulta assente in tutti gli atti stipulati il detto giorno, evidentemente perché era impossibilitato ad allontanarsi da Palermo per raggiungere la città natia proprio a causa delle restrittive disposizioni sanitarie che vietavano gli spostamenti essendo in corso l’epidemia.

Il 14 Settembre VIIIa Indizione 1624, il La Barbera ricevette il compenso di ben cinquanta onze, su mandato senatorio, «pro magisterio et precio unius quatri noviter facti immaginae S. Rosaliae», dipinto della Santuzza, già realizzato dall’artista, essendo stato commissionato il 27 Luglio e consegnato il 24 Agosto (cfr. F. Meli, Degli Architetti del Senato di Palermo…cit., doc. XX, p. 403) Tale incarico, va sottolineato, fu dato a ridosso del rinvenimento nella grotta della Santuzza, e precedentemente al placet ufficiale del culto come patrona da parte delle autorità ecclesiastiche palermitane. Il dipinto, il cui costo totale pattuito ammontava alla cospicua somma di 67 onze e 6 tarì, era già stato portato solennemente in processione il 4 Settembre. Il Cascini, nella sua opera già citata, ricorda proprio il dipinto predetto, fornendocene una descrizione: «l’imagine di S. Rosalia divisata à [sic] foggia di Romita con rigido vestire e colle chiome sparse, la quale inginocchiata in atto supplichevole verso il Signore, che hà  [sic] il volto d’ira dipinto, e la mano saettante, studia di placarlo» (cfr. G. Cascini, Di Santa Rosalia…cit., p. 45).

Poco più di cento anni dopo, nel 1728, il gesuita Giovanni Maria Amato (Palermo, 15 Luglio 1660 – ivi, 4 Giugno 1736), figlio di Antonio, principe di Galati e duca di Caccamo, e di Francesca Alliata, letterato e storico, nella sua ampollosa opera dedicata alla storia della cattedrale di Palermo, rammenta ancora il dipinto. A tal proposito, come ulteriore informazione, l’Amato specifica che il dipinto era originariamente posto nella terza cappella della navata sinistra della cattedrale, mentre nel 1679 fu collocato nell’ottava: tabulam 1624. in 3. sacello sinistræ navis, 1679. in hoc 8. statutam elaboravit Vincentius Barbera, Thermitanus (cfr. G. M. Amato, De principe templo Panormitano Libri XIII. in quibus ostenditur panormitana cathedra. A S. Petro Apostolo instituta: Describitur Maxima Ecclesia, Prima, Secunda, Tertia, Quarta, Hodierna, Earumque Situs, Majestas, Architectura, Forma, Titulus, Consecratio, Altaria, Icones, Lipsana, Simulacra, Marmora, Mausolea Cæsarea, Regia, Pontificia, Privilegia, Decora, bina Concilia Provincialia, aliaque Monumenta non edita recensentur, & illustrantur, Cum duplici Indice Librorum, Capitumque, & rerum memorabilium, Ex typog. J. B. Aiccardo, Panormi MDCCXXVIII, 740 pp., in particolare, p. 345). A proposito del De principe templo Panormitano dell’Amato, mons. Gioacchino Di Marzo ebbe a scrivere che in esso il dotto gesuita «descrive con immensa erudizione, fino a soverchiare e a confondere, i quattro stati diversi, che avea sortito per le vicende de’ tempi la cattedrale palermitana, e reca a maggior lustro e migliore esattezza alcuni diplomi e molte antiche scritture» (cfr. G. Di Marzo, Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale di Palermo, in “Biblioteca storica e letteraria di Sicilia”, vol. X, Pedone-Lauriel, MDCCCLXXII, p. 3, nota n. 1).

Purtroppo, l’impostazione farraginosa che l’Amato diede al suo De principe templo Panormitano, in cui le informazioni si susseguono a ritmo serrato, spesso senza apparente soluzione di continuità, ha indotto gli studiosi successivi ad equivocare il senso corretto del testo latino di questo passo relativo al dipinto labarberiano, travisandone il significato. Il primo studioso che diede l’avvio all’errore fu l’erudito ottocentesco Agostino Gallo (Palermo, 7 Febbraio 1790 – ivi, 16 Maggio 1872), letterato e studioso d’arte, nel suo manoscritto Notizie de’ figularj degli scultori e fonditori e cisellatori siciliani ed esteri che son fioriti in Sicilia da’ più antichi tempi fino al 1846 (cfr. ms. Biblioteca Centrale della Regione Siciliana “Alberto Bombace”, d’ora in poi BCRS, sec. XIX, ai segni XV. H. 15., f. 522). Il Gallo, in tale autografo, citando il De principe templo Panormitano dell’Amato, sostenne che nella cattedrale di Palermo vi sarebbe stata una statua di S. Rosalia, realizzata nel 1679 da un certo Vincenzo La Barbera che, quindi, da pittore trasforma erroneamente a scultore. L’abbaglio, a nostro avviso, deriva da una erronea lettura nel testo amatiano: al posto dell’autentico statutam (latino stătŭĕre ‘collocare’), il Gallo dovette leggere erroneamente il latino statuam, donde sorse così l’inghippo.

Il sac. Melchiorre Galeotti (Leonforte, 1824 – Palermo, 1869), altro letterato e studioso d’arte, fu autore di un’opera conservata tra le sue carte manoscritte (databile ante 1860), relativa agli artisti siciliani o dimoranti nell’Isola tra XII e XVIII secolo, poi pubblicata postuma nel 1870. In essa, il Galeotti, pur leggendo correttamente gran parte del testo amatiano in oggetto, incorre anche lui nell’errore di riferire al 1679 la datazione della S. Rosalia che, invece, La Barbera aveva dipinto nel 1624: «L’Amato dice che nel 1679 il Senato fece dipingere la santa Rosalia pel Duomo al La Barbiera. Ma pare incredibile, perché in tal’anno il pittore contar dovea più di 90 anni» (cfr. M. Galeotti, Tavola Cronologica di Pittori, Scultori e Architetti Siciliani o dimoranti in Sicilia dal secolo XII al XVIII secolo, in “Nuove Effemeridi Siciliane di Scienze, Lettere e Arti”, anno II, Dispensa VIII e IX, Novembre-Dicembre 1870, Tipografia del Giornale di Sicilia, Palermo 1870, pp. 335-348, in particolare, pp. 343-344; sul Galeotti, cfr. V. Di Giovanni, P. Melchiorre Galeotti. Notizie e documenti, cav. Pietro Sofia Mesi, Palermo 1895, 66 pp.; R. La Delfa, Melchiorre Galeotti. Il percorso ecclesiologico, SEI, Torino 1996, VI+162 pp.).

Nella seconda metà del Novecento, gli studiosi Giovanni Corrieri e Giacomo Giacomazzi,  hanno ripreso tout court le asserzioni del Galeotti (senza peraltro citare lo studioso ottocentesco come sarebbe stato doveroso fare), tanto da scrivere: «un certo [sic] Amato lo ricordava vivo [Vincenzo La Barbera] nel 1679 quando gli venne affidato di dipingere una S. Rosalia per il Duomo di Palermo, ma la notizia è da ritenersi inverosimile in quanto, ponendo nel 1580 la data di nascita, nel 1679 doveva essere già centenario» (cfr. G. Corrieri, G. Giacomazzi, Termini Imerese, IBIS, Palermo 1965, p. 66). Agli inizi del XXI secolo, Antonio Contino e Salvatore Mantia, fidandosi del Gallo, hanno preso per veritiero quanto asserito, in maniera del tutto inconsistente, dallo studioso ottocentesco, relativamente all’esistenza di un fantomatico scultore termitano, omonimo del pittore Vincenzo La Barbera (cfr. A. Contino, S. Mantia, Architetti e pittori…cit., p. 38), errore che, finalmente, qui emendiamo in modo definitivo.

Dopo la citazione settecentesca dell’Amato, dobbiamo attendere l’Ottocento, con il già citato Agostino Gallo, per trovare menzione del dipinto labarberiano di S. Rosalia per la cattedrale palermitana (cfr. A. Gallo, Notamento alfabetico di pittori e musaicisti siciliani etc. ms. BCRS, sec. XIX, ai segni XV. H. 17., f. 24).

Negli anni 70’ del Novecento, mons. Paolo Collura (Prizzi, 2 Luglio 1914 – ivi, 28 Ottobre 1997), ha proposto l’identificazione del dipinto commissionato al La Barbera nel 1624, custodito originariamente nella cattedrale, con l’opera oggi conservata nel Museo Diocesano di Palermo (cfr. P. Collura, Santa Rosalia nella storia e nell’arte, prefazione di Salvatore Card. Pappalardo, Santuario del Montepellegrino, Flaccovio, Palermo 1977, 24 tavv. a colori f.t., 202 pp., in particolare, p. 45, fig. 25, p. 96). Il dipinto, olio su tela, nel registro inferiore effigia la santa vergine palermitana, genuflessa, con gli occhi supplichevoli rivolti verso il registro superiore, in atto di chiedere misericordia, mentre con le mani indica la città Felice per la quale impetra la salvezza, a simboleggiare l’intera Sicilia, funestata dalla pestilenza. E’ abbigliata con abiti eremitici, costituiti da un saio di tela grezza, cinto ai fianchi, in sintonia con l’afflato contemplativo che caratterizzò la sua esistenza terrena, ed è accompagnata da una simbologia pregnante: il giglio, simbolo virginale; il serto di rose, evidente allusione onomastica, offerto dall’angioletto (puntualmente raffigurato paffuto e nasuto, vero e proprio topos figurativo dell’artista); il teschio, vero e proprio memento mori, allusione alla caducità dell’esistenza umana. Il paesaggio è dominato da una veduta della città e del lido di Palermo, con la mole del Monte Pellegrino, proteso sul mare, disteso placidamente sino all’orizzonte e, come ultima quinta, parte dei rilievi che cingono la Conca d’Oro ad occidente. Nel registro superiore, che si apre scenicamente con degli angioletti che fanno capolino ai due lati, appare la visione celeste con la SS. Trinità e la S. Vergine Maria. Cristo e Dio Padre, a simboleggiare il loro dominio sull’intero creato, impongono le loro mani sinistre sul diafano globo, nel quale appaiono il cerchio equatoriale ed il semicircolo verticale (quest’ultimo, proprio allo zenit, è sormontato dalla croce). Sul globo, aleggia lo Spirito Santo, raffigurato sotto forma di colomba bianca dalle ali spiegate, la cui luce illumina il registro superiore. Il Cristo, a sinistra, col braccio destro levato, è in atto di scagliare una saetta, mentre la Madonna, genuflessa, rivolge lo sguardo verso la maestà divina, mentre tiene le braccia incrociate sul petto, in segno di umile accettazione ed adorazione.

Quest’opera di Vincenzo La Barbera, è considerata dalla stragrande maggioranza degli studiosi quale prototipo dell’iconografia di S. Rosalia (cfr. E. Calandra, Il Seicento e il primo Festino di Santa Rosalia. Fonti documentarie, ILA Palma, Palermo 1996, 164 pp., in particolare, p.  95; A. Gerbino, a cura di, La Rosa dell’Ercta. 1196-1991. Rosalia Sinibaldi. Sacralità, linguaggi e rappresentazione, Dorica, Palermo 1991, 368 pp.; M. C. Di Natale, Santa Rosalia nelle arti decorative, introduzione di A. Buttitta, con contributi di P. Collura e M. C. Ruggieri Tricoli, Cattedrale di Palermo 9-21 Luglio 1991, in “Archivio Fotografico delle Arti Minori in Sicilia”, Città di Palermo Assessorato Turismo, Arcidiocesi di Palermo, Palermo 1991; Idem, Capolavori d’arte del Museo diocesano. Ex sacris imaginibus magnum fructum…, Edizioni O.DI.PA., 1998, 158 pp., in particolare, p. 93; J. Dummett, Palermo. City of Kings. The Heart of Sicily, Tauris, London-New York 2015, 268 pp., nello specifico, p. 95; P. Palazzotto, Da Santa Rosalia a Santa Rosalia. Opere d’arte restaurate del Museo Diocesano di Palermo dal XVII al XIX secolo, Palermo, Cattedrale, Sacrestia dei Canonici, 12 Luglio – 4 Settembre 2003, Gruppo Editoriale Kalòs, Palermo 2003, pp. 8-10; S. Cabibbo, Santa Rosalia tra terra e cielo. Storia, rituali, linguaggi di un culto barocco, Sellerio, Palermo 2004, 386 pp., in particolare, p. 123; M. C. Di Natale, Il Museo diocesano di Palermo, Flaccovio, Palermo 2006, 130 pp., in particolare, p. 98 e note p. 129). In particolare, lo studioso Pierfrancesco Palazzotto, ha evidenziato nel dipinto diocesano qualche dettaglio che, a suo dire, potrebbe far propendere per una datazione successiva, ma giustamente ha anche sottolineato che il La Barbera potrebbe benissimo aver idealizzato la rappresentazione di alcuni edifici in fieri, anticipando nella tela il completamento dei lavori diretti dallo Smiriglio, magari avvalendosi dei progetti già elaborati dal collega (cfr. P. Palazzotto, Da Santa Rosalia a Santa Rosalia…cit., p. 10). Inoltre, lo studioso si è domandato il motivo della scelta del La Barbera per espletare il detto incarico, visto che dimorava a Palermo solo dal 1622. In realtà, il La Barbera, godeva del privilegio di cittadinanza avendo sposato la palermitana Elisabetta Spatafora, per cui era a tutti gli effetti civis panormitanus per ductionem uxoris e, peraltro, aveva già dimorato stabilmente con la propria famiglia nella città felice nel 1607-1608 (cfr. A. Contino, S. Mantia, Architetti e pittori…cit., p. 30). Inoltre, ci preme sottolineare che, relativamente alla presunta incongruenza tra dimensioni e prezzo del dipinto del La Barbera (cfr. P. Palazzotto, Da Santa Rosalia a Santa Rosalia…cit., p. 28 nota n. 5), questo rapporto non è direttamente proporzionale, perché pur essendo le misure contenute, rispetto ad una pala d’altare, il dipinto esibisce una minuzia di particolari tale da giustificare il costo, visto l’impegno necessario per la sua realizzazione.

Nel 2005, lo studioso canadese Gauvin Alexander Bailey (Clark University, Worcester, Massachusetts, U.S.A.) nel suo saggio relativo a van Dyck ed il culto di S. Rosalia, senza peraltro fornire riscontri per avallare le sue asserzioni, ha proposto l’ipotesi che l’arcivescovo Doria, «forse perché era scontento della tela modesta del La Barbera» (perhaps because he was unhappy with La Barbera’s modest canvas), poco dopo la processione del 4 settembre 1624, avrebbe contattato il pittore Antoon van Dyck (Anversa, 22 Marzo 1599 – Londra, 9 Dicembre 1641), allora presente a Palermo, per realizzare un’opera di maggiore respiro (cfr. G. A. Bailey, Anthony van Dyck, the Cult of Saint Rosalie and the 1624 Plague in Palermo, in G. A. Bailey, P. M. Jones, F. Mormando, Th. Worcester, eds., Hope and healing. Painting in Italy in a time of plague, 1500 – 1800, Worchester Art Museum and University of Chicago Press, Chicago 2005, VIII + 264 pp., in particolare, p. 127). Tale ipotesi, allo stato attuale delle ricerche, non solo non è dimostrabile, in base alla documentazione sinora nota, ma appare in netta contraddizione con l’emissione, da parte dell’amministrazione comunale palermitana, del mandato di pagamento al pittore; non è verosimile, infatti, che l’ordine senatorio, di concerto con l’arcivescovo Doria, abbia decretato l’esborso di una tale cifra per l’opera del La Barbera, peraltro appositamente realizzata per ornare la cappella eponima della Santuzza nella cattedrale, senza che la committenza fosse pienamente soddisfatta del livello richiesto. Lo studioso, comunque sia, posticipando l’intervento di van Dyck rispetto all’opera del La Barbera, almeno implicitamente, avalla la paternità dell’iconografia della Santuzza da parte del pittore termitano, anche perché ciò è indirettamente attestato dalla data del mandato di versamento già citato.

Successivamente, la studiosa Fiorenza Rangoni (Università Roma Tre, Roma), riprendendo ed ampliando le considerazioni di Bailey, ha espresso addirittura un giudizio palesemente ancora più riduttivo nei confronti di Vincenzo La Barbera, definendolo “pittore di non eccelso talento”, ovvero “di modesta levatura”. Tale valutazione, a nostro avviso, non è affatto condivisibile perché la figura del La Barbera va vista soprattutto nel contesto artistico siciliano del tempo, ancora legato ai modi del manierismo tardo-cinquecentesco. Intanto, la S. Santa Rosalia intercede per Palermo (vedi foto) del museo diocesano (olio su tela, 155 x 103 cm), si apprezza nella sua interezza soltanto osservandola de visu. Del resto, solo esaminando con occhio attento l’opera, non si può fare a meno di notare tutta una serie di dettagli che mostrano la valentia dell’artista, attraverso il sapiente utilizzo delle velature, stese sulla preparazione di fondo, ed al delicato impiego di lacche, in modo da sfruttarne opportunamente le trasparenze (a tal proposito cfr. F. Fazzio, schede tecniche di restauro, in P. Palazzotto, Da Santa Rosalia a Santa Rosalia…cit., p. 29). In primo luogo, anche in questa tela, il La Barbera si connota come un paesaggista di notevole pregnanza, come documenta la veduta della città di Palermo, immersa in una diafana luminosità, che esibisce una resa dei dettagli, estremamente minuziosa, rivelando una particolare attenzione alla pittura nordica, diremmo quasi cartografica, a partire dall’area urbana, cinta di mura e rafforzata da baluardi, sino a terminare al molo vecchio con il forte (Garita), spaziando dalla cala, alle strutture portuali etc. La raffigurazione del panorama urbano e periurbano appare decisamente in sintonia con la duplice formazione di architetto-pittore del La Barbera. A ciò si aggiunge la capillare presenza nel dipinto, sia di minute figure umane, appiedate o su cavalcature, sia di imbarcazioni, che arricchiscono ed animano la scena, rendendola alquanto movimentata e vivida. Similmente, la stessa passione per i particolari appare nella raffigurazione della Santuzza e, in particolare, per la resa dei simboli iconografici (si veda, ad es., la puntuale restituzione dell’anatomia della struttura ossea del teschio che induce a ritenere che egli conoscesse bene i trattati anatomici, ad es. il De humani corporis fabrica Libri septem dell’anatomista e medico fiammingo Andrea Vesalio edito nel 1543, le cui illustrazioni, secondo Giorgio Vasari, si debbono al pittore tedesco Jan Stephan van Calcar). A proposito del registro superiore del dipinto, invece, a nostro avviso, non è da escludere l’intervento di allievi, come suggerirebbero alcuni punti di contatto con i modi pittorici del cognato Giuseppe Spatafora II junior, allora poco più che ventenne (su questo artista, cfr. A. Cuccia, La ricostruzione della vicenda pittorica degli Spatafora nei rapporti culturali tra città e provincia, in G. Marino, R. Termotto, a cura di, Arte e storia delle Madonie Studi per Nico Marino, Voll. VII-VIII, pp. 143-158).

La Rangoni, inoltre, senza peraltro fornire riscontri iconografici e documentari decisivi a supporto, addirittura sostiene che van Dyck, insieme al padre Cascini, sia stato il “primo ideatore della iconografia della Santa”, tentando così di esautorare il La Barbera dal suo primato. La studiosa, basandosi solo ed esclusivamente sulla propria opinione, continua ad costruire un’ipotesi sull’altra, giungendo perfino ad affermare che «il pittore fiammingo, su indicazione del Gesuita, avrebbe, secondo la nostra convinzione, redatto un disegno o un bozzetto, poi passato al La Barbera che avrebbe realizzato il dipinto» (cfr. F. Rangoni, Anton Van Dyck a Palermo, i Gesuiti e S. Rosalia, in P. Broggio, M. Fagiolo Dell’Arco, J. J. García Bernal, F. Quiles García, cur., A la luz de Roma. Santos y santidad en el barroco iberoamericano – Volumen I. La capital pontificia en la construcción de la santidad, TrE-Press, Roma 2020, pp. 247-264, nello specifico, pp. 258-264). Grazie a questa curiosa ipotesi, del tutto priva di riscontri probanti, il La Barbera, verrebbe relegato a mero esecutore di un fantomatico bozzetto vandichiano. Purtroppo per la studiosa, i dati documentari attualmente disponibili pendono a favore della paternità della prima iconografica della Santuzza, da parte del La Barbera, magari con l’ausilio, dal punto di vista teologico, del Cascini, che peraltro nell’opera su S. Rosalia, lo ricorda come autore del dipinto commissionato dal Senato palermitano. Cascini, invece, emblematicamente tace di van Dyck, anche quando menziona il culto che si tributava alla Santuzza ad Anversa, città natia del pittore (cfr. G. Cascini, Di Santa Rosalia…cit., p. 400).  Per correttezza di informazione, ricordiamo che la Rangoni, in un suo precedente saggio del 2013, relativamente all’iconografia della Santuzza, aveva già adombrato la questione del presunto primato di van Dyck (cfr. F. Rangoni, Lo “Sposalizio mistico di S. Rosalia” nella chiesa del S. Salvatore a Vercana. Un problema risolto? Con alcune considerazioni sull’elaborazione dell’iconografia rosaliana di Anton van Dyck, “Quaderni della biblioteca del convento francescano di Dongo”, 70, Dicembre 2013, pp. 54-65). Curiosamente, in questo lavoro la Rangoni parla di una grotta di Quisquina sul monte Pellegrino” (cfr. F. Rangoni, Lo “Sposalizio mistico di S. Rosalia” …cit., p. 56). In tal modo, due distinti siti rupestri di eremitaggio della Santuzza, separati da un percorso stradale di oltre 120 km: la grotta dell’eremo della Quisquina, nei dintorni di S. Stefano di Quisquina (Agrigento), e quella del monte Pellegrino presso Palermo, divengono erroneamente tutt’uno.

A nostro giudizio, le ipotesi di lavoro e le opinioni personali non solo rischiano spesso di restare autoreferenziali, ma addirittura possono condurre allo cherry picking, cioè all’attitudine di scartare, anche non consciamente, i dati contrari che possano far vacillare le nostre congetture. La ricerca storica, non dimentichiamolo, per essere ampiamente condivisa dalla comunità scientifica necessita dell’imprescindibile supporto fornito dalle fonti documentarie e, nello specifico, archivistiche.

Tornando alla “riscoperta” del culto palermitano di S. Rosalia, bisognò attendere gli inizi del 1625 perché vi fossero ulteriori sviluppi provvidenziali. Il 18 Febbraio VIIIa Indizione 1625, il saponaro palermitano Vincenzo Bonello, nella sua deposizione giurata, essendosi confessato con il sac. Pietro Lo Monaco o del Monico (nativo di Termini Imerese) e con i frati cappuccini Antonino da Palermo e Bartolomeo da Sciacca, raccontò che il giorno 13 di detto mese e anno «Saliva il monte [Pellegrino] per arrivar alla cima che era vicino alla torre, ove vi era un grandissimo precipitio che dava alla parte del mare con animo di precipitarme. In quello istanti mi venne innanti una donna come una peregrina giovana [sic], di faccia d’angelo, bella e con uno splendore grande, mi accostò una mano al petto e mi disse: “Non andar più innanti né timer più. Vien con me che io ti voglio dimostrare il mio luogo e la mia cella”. Mi portò vicino alla chiesa in una grotta dove si dicea che era stato ritrovato il corpo di Santa Rosalia, et arrivata che fu mi disse: “Questa è stata la mia grotta, e questa è stata la mia cella peregrina, sono stata qui tanti e tanti anni, e molti cacciatori mi vanno cercando per questo Monte e per questa grotta, però invano perché io non sono più qui”. Io prese animo e li disse: “E chi sete voi, o donna peregrina, che sete così bella come un angelo?”. La donna rispose di essere S. Rosalia ed aggiunse poi che «il mio vero corpo e le mie veri ossa sono quelli che detto signor Cardinale [Doria] tiene in suo potere nella sua camera e che publicatosi il mio nome e fattasi la processione del mio corpo e cantatosi il Te Deum laudamus la mia città haverà la gratia, replicandomi sempre per molte volte (…) che io havesse fatto rivelare dal mio confessore al signor Cardinale detta sua apparitione» (cfr. R. C. Giordano, a cura di, Originale delli testimonj…cit., pp. 259-260). La Santuzza, inoltre, «per segno di verità che io so Rosolea» disse al saponaro, «tu in arrivare a Palermo, cascherai ammalato di questa infermità che corre e ti morrai», Il Doria, informato dell’apparizione, rimase molto colpito, decidendo poi di riunire nuovamente la commissione teologico-medica per effettuare una seconda perizia al fine di accertare e certificare l’autenticità delle reliquie e, finalmente, dopo sette mesi dal ritrovamento, il 22 Febbraio VIIIa Indizione 1625, venne dato un responso positivo.

Recentemente, lo studioso termitano Salvatore Mantia in un suo articolo, edito l’anno scorso on-line (cfr. S. Mantia, Vincenzo La Barbera: il pittore termitano devoto a Santa Rosalia, “Himeralive.it”, 21 Luglio 2020, on-line nel sito di tale testata giornalistica), ha giustamente evidenziato la devozione del La Barbera nei confronti di S. Rosalia. Stranamente però, Mantia, senza peraltro citare alcuna fonte a riprova, sostiene che il «15 Luglio 1624», dal Bonello sarebbero state «ritrovate» le «reliquie di Santa Rosalia», ma ciò è in disaccordo con tutte le fonti sincrone che collegano l’avvenimento con la figura di Geronima La Gattuta. In particolare, proprio le missive inviate dal sac. Pietro del Monico, al Doria, ed al padre Giacomo Dominici a Termini Imerese, riguardanti l’apparizione della Santuzza a Vincenzo Bonello, specificano chiaramente che l’avvenimento si colloca quasi sei mesi dopo, il 13 febbraio 1625, avendo il saponaro fatto la sua confessione il 18 successivo, ad hore otto di notte (cfr. rispettivamente, ms. BCP 2Qq E 89, epistola non firmata, s.d. e s. l., a cc. nn. 251r-256v, e firmata a 22 di Febr[ar]o, a cc. nn. 259r-261r, citate da V. Petrarca, Genesi di una tradizione urbana: il culto di Santa Rosalia a Palermo in età spagnola, Fondazione Ignazio Buttitta, Regione Siciliana – Assessorato Regionale dei Beni Culturali, Ambientali e della Pubblica Istruzione, Dipartimento Beni Culturali, Ambientali, Palermo 2008, 158 pp.,  in particolare, p. 119).

Il 23 Febbraio VIIIa Indizione 1625, con apposito bando (di cui si conserva copia nella BCRS), il Doria, dispose che il corpo della gloriosissima Santa Rosalia, già esposto nella cattedrale, fosse lasciato nella cappella di S. Cristina per tre giorni continui.

Due giorni dopo, Vincenzo La Barbera si obbligò con il dottore in entrambi i diritti, Andrea La Barbera Restivo, a dipingere una Santa Rosalia in preghiera, seguendo come modello un bozzetto preparatorio a tempera su cartoncino, «sguaczo di cartonello», per la cappella del committente sita nella chiesa di S. Anna La Misericordia a Palermo (cfr. G. Mendola, Dallo Zoppo di Gangi a Pietro Novelli. Nuove acquisizioni documentarie in V. Abbate, a cura di, 1570-1670. Porto di Mare. Pittori e pittura a Palermo tra memoria e recupero, Electa, Napoli 1999, p. 65, p. 83 nota n. 59 e p. 66, fig. 11). Il dipinto di S. Anna La Misericordia pur connotandosi per le stringenti analogie compositive con la tavola del Museo Diocesano, se ne discosta per la differente forte gestualità della figura di S. Rosalia e per una dominante atmosfera di umbratile luminosità.

Ritroviamo poi, il 7 Marzo VIIIa Indizione 1625, Vincenzo La Barbera, menzionato nella sua deposizione, vero e proprio verbale di interrogazione, stilato presso la Corte Arcivescovile di Palermo, riguardante la scoperta delle ossa di S. Rosalia (cfr. R. C. Giordano, a cura di, Originale delli testimonj...cit., pp. 277-282). Il nostro, disse di avere anni «48 incirca», di essere «oriundo della città di termine, ingingeri [ingigneri] di detta città et è pittore» e di avere «cinque figli, la maggiore delle quali è d’anni 17 incirca et è fimmina et l’altri di mano in mano di meno anni» [ms. BCP ai segni 2Qq E 89, cc. nn. 273r-274v, Pan[ormi]. die 7 Martij 1625]. Interrogato su quale dei suoi figli, per ben quattro volte «successe l’havere nominato et chamato [sic] Santa Rosalia senza saper parlare, et facendo atto di riverenza», rispose «che questo fu l’ultimo suo figlio, nomine Francisco, il quale è di aetà di mesi dicidotto incirca, nato qui in Palermo et battezzato nella parrocchia di Santo Nicolao l’Albergarìa». Il manoscritto in questione contiene anche le deposizioni di Elisabetta, moglie di Vincenzo La Barbiera di «aetà [sic] di anni quaranta in circa et è di Palermo» [cfr. ms. BCP ai segni 2Qq E 89, c. n. 267r-v, Pan[ormi]. die 7 Martij 1625], di soro Dorothea Spatafora, «d’aetà [sic] di anni 38 inc[irc]a et è di Palermo et monaca di San Domenico» cognata di Vincenzo la Barbiera» [cfr. ms. Idem, c. n. 271r-v, Pan[ormi]. die 8 Martij 1625], nonché di Antonia La Barbiera, figlia maggiore «d’età di anni 18 inc[irc]a et è nativa di Termine et habitatrice di Palermo» [cfr. ms. Idem, c. n. 269r-v, Pan[ormi]. die 8 Martij 1625]. Le versioni delle deposizioni predette, presenti nel ms. cartaceo seicentesco della BCP ai segni 2Qq E 90, inoltre, specificano chiaramente che Francesco La Barbera nell’evento miracoloso disse distintamente Santa Rosolea, mentre dopo era capace di dire, peraltro in maniera difficoltosa e ingarbugliata, solamente Santa Olea. Ad es., suor Dorotea Spatafora dichiarò che il nipotino trascorso l’evento «per dire Santa Rosalia dice solamente santa olea in confuso», mentre la sorella Antonia La Barbera dichiarò che il fratello «dice santa olea molto confusa e non cossi [sic] chiaro come l’altra volta» (cfr. V. Petrarca, Genesi di una tradizione urbana…cit., in particolare, pp. 119-12). Pertanto, appare lampante che solo ed esclusivamente nella circostanza del miracolo, il bambino pronunciò correttamente e per esteso Santa Rosalia, mentre successivamente, coerentemente con la sua età anagrafica, non era in grado di ripeterlo correttamente, proprio a causa del rotacismo (difficoltà di pronunciare la lettera erre), che generalmente scompare attorno ai 3-4 anni (cfr.  G. Bollea, Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli, Milano 2008, 176 pp.).

Lo stesso padre Cascini, così racconta il precitato evento miracoloso: «Vincenzo Barbera huomo di anni 48. Architetto della Città, e buon pittore, il quale havea dipinta quella Imagine di S. Rosalia, che fù [sic] collocata nella Catedrale [sic], e le portava molta divotione: Haveva costui ricevuto un pezzetto di quelle sante ossa, ma non essendosi ancora dichiarate per tali, lo tenea conservato, e nascosto, attendendo la dichiaratione; della quale subito che n’udì il rumore, andò quella medesima sera à [sic] mostrarlo ad alcuni Padri della Compagnia, che veduti haveano gl’altri in casa del Cardinale, come per assecurarsi meglio nella qualità, e similitudine delle reliquie; tornando à [sic] casa verso mez’hora di notte, mentre ascendea sopra le scale, non si potè contener di non dar parte della sua allegrezza alla moglie, che vedendolo salire sù allegro, lo [sic] dimandò della cagione, & eglı li [sic] rispose, che le reliquie della Santa erano già approvate, e ch’haveano in casa la parte di tanto tesoro; e la Moglie à [sic] lui: Dunque adoriamola, disse, noi ancora; senza però esprimere ne l’un ne l’altro il nome della Santa, per ciò Vincenzo pigliata la reliquia, che tenea dentro una carta, e tenendola in mano per mostrarla à [sic] tutti quelli della sua casa, che gli erano d’intorno da 8. persone, ecco la stupenda meraviglia, un suo piccolo fanciullino di 18. mesi per nome Francesco, che stava in braccio della Zia, mosso per certo da cagione superiore, cominciò a far forza, e la fece in modo, che le scappò dalle braccia, e si buttò inginocchioni il primo facendo anche cenno colle mani à [sic] tutti che così ancora s’inginocchiassero, e tirando anche per lo medesimo fine le falde della Zia, e dopo sciogliendo la lingua, che fin’all’hora non havea prima formato parola, se non forse per dir Mamma, e Tata, proferì speditamente, SANTA ROSALIA, ne [sic] contento di una volta, la replicò 4. fiate [cioè volte (in senso temporale), dal francese antico fiée], con far gran festa, e non bastò; ma fece tanta instanza  [sic] co’ gesti finche [sic] ottenne con isforzo quella carta colla reliquia, che havea in mano il Padre, e presala egli in mano riverentemente la baciò, senza essere stato da veruno insegnato ne [sic] con parole ne [sic] coll’esempio. Atto di stupore, & allegrezza grande provato col testimonio autentico di tutta quella casa» (cfr. G. Cascini, Di Santa Rosalia…cit., pp. 120-121). Nella seconda metà del Seicento, l’episodio predetto è raccontato con gli stessi toni da Vincenzo Auria (cfr. V. Auria, La Rosa celeste, discorso historico, Pietro dell’Isola, Palermo 1668, 136 pp., nello specifico, p. 91; Idem, Vita di S. Rosalia vergine romita palermitana, Pietro dell’Isola, Palermo MD. C. LXIX., 80 pp., in particolare, p. 72) e dal Padre Maestro fra Juan de S. Bernardo O. F. M. (cfr. J. de S. Bernardo, Vida, y Milagros de Santa Rosalìa Virgen, Thomàs Piferrer, Barcelona 1689, 244 pp., in particolare, pp. 232-233; versione italiana: G. da S. Bernardo, Vita e miracoli di Santa Rosalia vergine Palermitana, portata dal Castigliano all’Italiano dal P. Pietro Mataplana, Agostino Epiro, Palermo 1693, 280 pp., in particolare, pp. 220-221).

Ricordiamo che fra Juan de S. Bernardo O. F. M. (m. 7 Maggio 1700) ricoprì importanti incarichi nel suo ordine: Lector Jubilado, Calificador del Santo Oficio, Examinador Synodal de Sevilla, Padre de su Provincia del Tercero Orden de Andalucia, y de la Portugal, Difinidor General de todo el orden de S. Francisco.

L’evento miracoloso, è altresì riferito dal bollandista Joannes Stilting S. J. (Wijk-bij-Duurstede, 1703 – Antwerpen, 1762), nella sua agiografia di S. Rosalia, pubblicata ad Anversa nel 1748 (cfr., J. Stiltingo, Acta S. Rosaliæ virginis solitariæ, eximiæ contra pestem patronæ, commentario & notationibus illustrata, Vander Plassche, Antuerpiæ MDCCXLVIII, XXII+548 pp., in particolare, pp. 487-488).

Particolarmente, ancora Salvatore Mantia nel suo articolo già citato (cfr. S. Mantia, Vincenzo La Barbera: il pittore termitano devoto a Santa Rosalia, cit.), in dissonanza con la documentazione sincrona precitata, sostiene che Francesco Maria La Barbera, prima dell’evento predetto, «non parlava ancora ed era ritenuto muto, ma un giorno alla vista della reliquia [di S. Rosalia] il bambino, indicandola, improvvisamente parlò dicendo ben quattro volte “Olea, Olea”, ovvero Rosolea, Rosolea». In realtà, nessuna fonte sincrona accenna ad un presunto mutismo del bambino, mentre nel contesto del miracolo, come dettagliatamente appare dai documenti coevi, pronunziò senza errori le parole Santa Rosolea, non essendo in grado poi di ripeterle, limitandosi a dire Santa Olea.

Il 24 Marzo VIIIa Indizione 1625, il gesuita palermitano padre Vincenzo Galletti, deputato della Deputazione di Sanità degli Infermi pagò la somma di onze due e tarì ventiquattro a Vincenzo La Barbera, per il dipinto raffigurante S. Rosalia che era stato commissionato «per servizio della Cappella dello Lazzaretto che è nello loco di cifontes» (cfr. G. Mendola, in A. Contino e S. Mantia, Vincenzo La Barbera…cit., p. 101, nota n. 337). Il lazzaretto palermitano, infatti, era collocato all’interno del complesso edilizio del podere (loco) di Cifuentes (corrotto in Cifontes), che prendeva nome da don Luca Cifuentes de Heredia (Medinaceli, Vecchia Castiglia, c. 1530 – Palermo, 2 Marzo 1590), presidente della Regia Gran Corte. Già di proprietà di don Pietro de Luna duca di Bivona, il loco era sito extra moenia, a nord-ovest della città, all’interno di un esteso giardino, comprendente anche delle cave di calcarenite (donde il termine commerciale di pietra di Cifuentes). Del complesso edilizio dei Cifuentes, restano delle tracce nell’ex reclusorio o ritiro delle Croci (odierna sede della parrocchia S. Maria di Monserrato nella via delle Croci). Nel 1712 tutti i terreni, ad esclusione del reclusorio e delle relative pertinenze, furono acquistati da don Giuseppe Alliata e Colonna, IV principe di Villafranca, finendo conglobati nel cosiddetto “Firriato di Villafranca”, una vasta area recintata (donde il termine “firriato”), oggi scomparsa per l’espansione edilizia. La costruzione dell’Ucciardone (1833-34), ma soprattutto l’apertura di via Libertà (1848) avviarono l’inizio dello smembramento del firriato, mentre nel 1891-92 in esso fu collocata la Grande Esposizione Nazionale di Palermo (cfr. R. La Duca, I giardini di Luca Cifuentes ed il piano delle Croci,  in Bollettino dell’Ordine degli Ingegneri della provincia di Palermo”, anno XXIX, n. 2, Marzo-Aprile 1960, G. Denaro, Palermo 1960, estratto, 8 pp.; Idem, Dal “Firriato” di Villafranca alla Grande Esposizione, in “1891/92 L’Esposizione Nazionale di Palermo”, suppl. a Kalòs, a. III, 1991, p. 3; A. Chirco, Il Firriato di Villafranca, in “Per salvare Palermo”, n. 1, 2001, pp. 14-17; R. Cedrini, Repertorio delle dimore nobili e notabili nella Sicilia del XVIII secolo, 2 voll., II,  Grafill, Palermo 2008 p. 349 e segg.). Alla luce di ciò, definire il loco di Cifuentes con il termine «quartiere» come riferito da Salvatore Mantia (cfr. S. Mantia, Vincenzo La Barbera: il pittore termitano devoto a Santa Rosalia…cit.), non è quanto meno appropriato, essendo il sito del tutto esterno al perimetro urbano seicentesco, tanto da essere scelto per collocarvi il lazzaretto palermitano in tempo di epidemia.

In occasione del “festino” della Santuzza, la domenica 8 ed il lunedì 9 Giugno VIII Indizione 1625 (solo per editto del giorno 11 Luglio 1626 fu stabilito che il giorno 15 Luglio si guardi come festa di precetto perpetua in onore di S. Rosalia), furono realizzati diversi apparati effimeri, con la costruzione di archi trionfali, sovvenzionati dal Senato palermitano e dai vari consolati delle varie Nationes (cfr. A. Contino, S. Mantia, Vincenzo La Barbera…cit., p. 102). Il sac. Juan Formento, a proposito di tali strutture effimere, scrisse che il primo arco trionfale, di fronte la cattedrale, fu realizzato a spese dei genovesi dimoranti a Palermo: el primero fuè [sic] a costa de la nacion Ginovesa, echo en frente la Higlesia Mayor (cfr. I. Formento, Vida Milagros, y Inuencion del sagrado cuerpo de la Real Aguila Panormitana Santa Rosalia, Colicchia, Palermo 1663, p. 107). L’apparato effimero di questo arco trionfale, sito nella Strada di Toledo (attuale Corso Vittorio Emanuele), fu progettato proprio da Vincenzo La Barbera, stante le sue origini familiari liguri. Nella realizzazione materiale delle strutture effimere, Vincenzo fu coadiuvato dagli statuari Giovanni Battista Russo e Giovanni Nicolò Viviano, nonché dal pittore Pietro Alvino alias Lo Sozzo (figlio del manierista Giuseppe). Rappresentante senatorio, a sovrintendere la realizzazione di questi apparati effimeri e relative ornamentazioni, fu Francesco Riquesens barone di S. Giacomo (cfr. Filippo, Onofrio e Simplicio Paruta, Relatione delle feste fatte in Palermo nel M. DC. XXV. per lo trionfo delle Gloriose Reliquie di S. Rosalia vergine palermitana, Coppola, Palermo 1651, XII + 176 + II pp., in particolare, p. 5). Da notare che nella Relatione precitata dei Paruta, edita per l’appunto nel 1651, è inserita l’incisione di tale arco trionfale labarberiano, opera del figlio sac. d. Francesco Maria La Barbera, su disegno del genero Mariano Quaranta (probabilmente dal progetto originale), un omaggio, da parte dei due congiunti ed allievi, all’artista che era ormai scomparso (cfr. A. Contino, S. Mantia, Vincenzo La Barbera…cit., p. 102, 110; Idem, Architetti e pittori…cit., p. 188).

Il 14 Settembre VIIIa Indizione 1625, il La Barbera richiese al padre Girolamo Fontana S. J., l’autentifica di una reliquia di S. Rosalia donatagli precedentemente dallo stesso prelato. Vincenzo, ricevuta la conferma dal Fontana, ne fece dono al fratello maggiore, fra Simone La Barbera O. P., che in quegli anni era lettore nel convento di S. Vincenzo Ferrer di Termini Imerese (cfr. G. Mendola, in A. Contino, S. Mantia, Vincenzo La Barbera…cit., p. 102).

Il 12 Ottobre successivo, Vincenzo si obbligò con un certo Andrea Lo Vecchio di Carini a dipingere l’Immacolata Concezione coi Santi Andrea, Rosalia, Francesco e Teresa, di palmi 12 per 7 e mezzo. Il compenso pattuito fu di 19 onze (cfr. G. Mendola, Dallo Zoppo di Gangi a Pietro Novelli…cit., p. 65 e p. 83, nota n. 57).

Secondo il già citato Agostino Gallo, in tale anno il La Barbera dipinse anche una Santa Rosalia per l’Ospizio di Santa Cita, ricevendo ventiquattro onze di compenso come da mandato (cfr. A. Gallo, Notamento alfabetico di pittori, e mosaicisti siciliani, ed esteri che hanno lavorato opere per la Sicilia ricavate in parte da un mss. del Mongitore nella biblioteca del Senato in Palermo, ms. BCRS, sec. XIX, ai segni XV. H. 17., lettera B, f. 24 v.).

In appendice, abbiamo voluto inserire i due resoconti della traslazione marittima della reliquia di S. Rosalia dalla città di Palermo a quella di Termini Imerese, rispettivamente del p. Giordano Cascini S. J., e di fra Juan de S. Bernardo O. F. M. (originale in spagnolo e versione italiana). I due vivaci racconti del trasferimento, per quanto ci risulta sinora misconosciuti o addirittura sconosciuti soprattutto nella loro versione originale seicentesca, costituiscono una testimonianza tangibile del culto di S. Rosalia a Termini Imerese. Inoltre abbiamo voluto inserire il resoconto della traslazione delle reliquie a Termini ed il racconto del miracolo occorso a Palermo all’infante Francesco La Barbera figlio di Vincenzo, secondo la versione latina ufficiale, riportata negli atti di S. Rosalia, curata dal bollandista Joannes Stilting, nella prima metà del Settecento.

Cascini rammenta la consegna delle reliquie di S. Rosalia (in un vasetto d’argento) alla delegazione termitana, avvenuta a Palermo il 7 Giugno 1625, il loro trasporto via mare (con una sosta a Trabia) sino alla cittadina imerese dove giunse il giorno seguente, in cui, fu riposta in un reliquiario a statua della Santuzza che dopo la processione per le vie cittadine, fu collocato in una cappella nell’erigenda nuova chiesa madre e seguirono poi tre giorni festa solenne. Anche Juan de S. Bernardo accenna dell’esistenza di un apposito reliquario d’argento, che adornava la detta cappella, raffigurante la Santuzza: Imagen de plata (che Mataplana nella versione italiana tradusse statua d’argento).

Ricordiamo che lo storico locale seicentesco, Vincenzo Solìto, riferisce che «Nell’anno poi 1623. [sic] si scopri nel Regno di Sicilia la pestilenza, della quale fù [sic] infetta quasi tutto il Regno, especialmente [sic] la Città di Palermo, ma per favore specialissimo del Cielo la Città di Termini non раtì la peste, ma ne restò affatto libera, nel qual tempo fù [sic] straordinaria là [sic] diligenza fatta dal Magistrato Termitano [gli amministratori comunali], acciòcche [sic] quel male non havesse entrata nella loro Città». E’ evidente come il Solìto abbia erroneamente unificato l’epidemia di «febre maligna» (1623) con quella della «peste» (1624-1625), fornendoci però l’informazione che la cittadina imerese fu provvidenzialmente preservata da entrambe le sciagure grazie anche alle efficaci disposizioni sanitarie messe in atto da una amministrazione attenta alla salvaguardia dei cittadini. Inoltre, il Solìto, dopo aver in parte ripreso la descrizione di Cascini, riferisce che la reliquia di S. Rosalia, a Termini Imerese fu «condotta per tutta la Città sollenemente [sic] e riposta nella Chiesa Maggiore di еssа alli 27. di Giugno del 1625. dоvе adesso si ritrova, & ogni anno si celebra dal detto Magistrato la traslazione della santa Reliquia della detta Gloriosa Santa, e la di lei festa» (cfr. V. Solìto, Termini Himerese Città della Sicilia posta in teatro etc. tomo II, Bisagni, Messina 1671, pp. 124-125).

Oggi, nel Duomo, abbiamo ancora due testimonianze tangibili del culto della Santuzza. La prima è una tela della Madonna del Rosario con i santi Rosalia e Domenico di Guzmán, nell’omonima cappella, la quinta in cornu Evangelii (navata sinistra). Questa opera, datata 1756 e firmata, si deve al pittore palermitano, attivo nella cittadina imerese, Rosario Vesco (Palermo 1714 c., Termini Imerese, 1767).  La Madonna ed il Bambino dominano la scena e troneggiano su una nube assisa su di una pedana a gradini.  La Vergine e Gesù Bambino, rispettivamente, porgono un rosario a S. Domenico di Guzmán (a sinistra), posto al culmine della pedana, ed un serto di rose a S. Rosalia (a destra), raffigurata ai piedi dei gradini. Sulla pedana, dei gigli distesi, simboleggiano la purezza virginale. L’ambientazione è inquadrata dal teatrale ampio tendaggio, utilizzato come espediente per esibire nelle frange i 15 misteri del S. Rosario, e da una struttura architettonica a destra. Nasce il sospetto che il Vesco abbia ripreso l’ambientazione scenica da un precedente dipinto seicentesco che ornava l’altare e che magari si era deteriorato ad un punto tale da richiederne la “sostituzione”, come era prassi diffusa a quel tempo.

La seconda testimonianza è inserita all’interno del grande ciclo a tempera (1801-1802), opera di Giuseppe Di Garbo (1742-1814), pittore castelbuonese, pienamente attivo nelle Madonie (cfr. A. Mogavero Fina, Giuseppe Di Garbo pittore inedito del ‘700, Kefa, Palermo 1983, 30 pp.; R. Mastacchi, Il kerygma cristiano nell’iconografia del Credo in Italia, Cantagalli, Siena 2008, 168 pp., scheda a p. 140). Detto ciclo, si estende sulle volte, sulla cupola, sulle pareti del presbiterio e della conca absidale (ivi, da notare le raffigurazioni degli Apostoli entro riquadri rettangolari simulanti cornici). Nella parte destra della navata trasversale o transetto, in un ovale, è effigiata la Santuzza patrona della cittadina imerese, come esplicitamente recita il cartiglio: S[ANCTA]. ROSALIA V[IRGO] PATR[ON]A. La Santuzza, dalla cui iconografia traspare il messaggio catechetico pertinente alla sua vita ed alle sulle virtù, è effigiata come una fanciulla dai lineamenti delicati, incoronata con il tradizionale serto di rose, la conchiglia capasanta, o conchiglia di San Giacomo (Pecten jacobæus Linné), sul petto, il bastone nella destra, entrambi simboli di peregrinazione, nonché il crocifisso nella sinistra, che attesta l’empatia con la passione di Cristo immolatosi per riscattare l’umanità  dall’iniquità del peccato.

Tornando alla testimonianza di Giordano Cascini, questo studioso sincrono accenna anche all’esistenza di altri altari ed immagini presenti nelle chiese termitane, tra le quali rammenta però soltanto S. Maria di Porto Salvo (sotto il titolo di S. Anna). In quest’ultima chiesa, fondata nel 1623 dai Frati Minori del Terzo Ordine di S. Francesco con annesso convento, infatti, si conserva ancora un olio su tela raffigurante il Matrimonio mistico di S. Rosalia o Madonna col Bambino, S. Rosalia, e i SS. Pietro e Paolo, opera di un ignoto artista seicentesco, che ha tratto ispirazione da un’incisione cartacea (cfr. National Gallery of Art,  Washington, U.S.A., fondo Ailsa Mellon Bruce), di Paul du Pont o Paulus Pontius (Anversa, 27 Maggio 1603 – ivi, 16 Gennaio 1658), pittore, disegnatore ed incisore fiammingo (cfr. E. Bénézit, dir., Dictionnaire Critique et Documentaire des peintres, sculpteurs, dessinateurs et graveurs de tous les temps et de tous le pays par un groupe d’écrivains spécialistes français et étrangers, 3 tomes, III, Gründ, Paris 1924, p. 515). L’incisione del du Pont, a sua volta, in controparte, derivava dall’analogo soggetto di van Dyck (oggi Vienna, Kunsthistorisches Museum, cfr. Z. Z. Filipczak, Van Dyck’s ’Life of St. Rosalie’, “The Burlington Magazine”, CXXXI, n. 1039, October 1989, pp. 693-698; S. J. Barnes, Van Dyck. A complete catalogue of the paintings, Yale University Press, New Haven-London 2004, p. 285, scheda III.50.), eseguito nel 1629 ad Anversa, per la locale cappella di patronato del Sodalizio dei Giovani Celibi (Sodaliteyt van de Bejaerde Jongmans). Questa confraternita laica, alla quale aderirono molti pittori, scultori ed incisori, era stata fondata nel 1608 da Willem de Pretere S. J. (m. 1626), nella chiesa gesuitica della detta città, allora dedicata a S. Ignazio di Loyola (cfr. A.K.L. Thijs, De jezuïeten en het katholieke herstel te Antwerpen na 1585, Antwerpen 1985, 46 pp.). Relativamente al dipinto termitano rimandiamo al saggio della studiosa Anna Virzì (cfr. A. Virzì, Modelli fiamminghi secenteschi in alcuni dipinti di Termini Imerese, in G. Bongiovanni, a cura di, “Scritti di storia dell’arte in onore di Teresa Pugliatti”, De Luca, Roma 2007, pp. 111-113). La studiosa, a tal proposito, menziona (p. 112) «una stampa che riproduce in controparte il dipinto del Van Dyck, realizzata nel XVIII secolo dal fiammingo Paul Dupont», mentre in realtà l’incisione data al Seicento.

L’ultima indicazione, fornitaci dal Cascini, si riferisce al 1629, quando Termini Imerese ebbe la sua chiesa intitolata alla Santuzza: «nell’anno 1629. le si dedicò anche una bella Chiesa in quel luogo, dove chiamano la terra vecchia, con una nuova compagnia ò [sic] fraternità, la quale, trovandosi all’hora in Termine, cominciò di sua mano il Cardinal Doria con dirvi la prima messa il giorno stesso dell’inventione di S. Rosalia 15. di Luglio». Il Cascini cita il «luogo» detto «la terra vecchia» dove era ubicata la chiesa della Santuzza, che corrisponde alla parte più antica dell’abitato, prossima al Castello, a quel tempo sia parzialmente inglobata nel perimetro della fortezza, sia rimasta esterna ad esso (cfr. P. Bova, A. Contino, Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari: l’esempio della Rocca del Castello di Termini Imerese dall’Antichità al 1950, in questa testata on-line, Lunedì, 14 Settembre 2020). Purtroppo, allo stato attuale delle ricerche, mancano ulteriori riscontri documentari, relativi a questo luogo di culto ed alla sua ubicazione. E’ noto, invece che la seicentesca chiesa di S. Girolamo, annessa al coevo convento dei padri Cappuccini ebbe il titolo di S. Rosalia. Del resto, ancora oggi nell’altare maggiore vi si osserva la pala settecentesca che esibisce la Sacra Famiglia con i santi Girolamo e Rosalia, opera del padre Fedele da S. Biagio (cfr. G. Costantino, Padre Fedele da San Biagio. Fra letteratura artistica e pittura, S. Sciascia, Caltanissetta 2002, 286 pp., nello specifico, p. 136). Quest’ultimo, frate cappuccino, al secolo Matteo Sebastiano Palermo Tirrito (San Biagio Platani, Agrigento, 18 Gennaio 1717 – Palermo, 9 Agosto 1801) fu allievo di Olivio Sozzi (Catania, 14 Ottobre 1690 – Ispica, 31 Ottobre 1765), di Sebastiano Conca (Gaeta, 8 Gennaio 1680 – Napoli, 1º Settembre 1764) e del napoletano Marco Benefial (Roma, 25 Aprile 1684 – ivi 9 Aprile 1764).

Ricordiamo che i cappuccini, nel 1547 edificarono il loro convento extra moenia, con annessa chiesa dedicata a S. Girolamo, da cui prese nome la contrada, ma il sito e l’area risultarono instabili essendo interessati da movimenti gravitativi (cfr. A. Contino, Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese, Giambra, Terme Vigliatore, Messina 2019, 300 pp., in particolare, p. 211). Al fine di contrastare i danni prodotti da tali fenomeni, il Consiglio Civico di Termini destinò onze 200, provenienti dalla imposizione di grana 2 a salma, o cantàro estratti dal pubblico Caricatore, per ripararsi il detto convento. La disposizione consiliare ebbe l’approvazione del Tribunale del Real Patrimonio con dispaccio del 20 Dicembre 1600. Negli anni 20’ del Seicento, i frati ritennero opportuno edificare un altro convento intra moenia, ma incontrarono una forte opposizione da parte degli osservanti di S. Maria di Gesù (La Gancia) e dei riformati di S. Antonio di Padova, donde ne nacque una lunga disputa che non si riuscì a sanare nemmeno nel 1627, quando la Sacra Congregazione diede l’incarico all’arcivescovo Doria che, però, non volle entrare in merito alla spinosa questione (cfr. V. Criscuolo, I Cappuccini e la congregazione romana dei vescovi e regolari. 1624-1629, Monumenta historica Ordinis Minorum Capuccinorum, Institutum Historicum Ordinis Minorum Capuccinorum, Roma 1999, p. 15 e pp. 417-418). Il 28 Marzo 1631, il provinciale dei cappuccini fra Francesco da Alcamo inoltrò ulteriore supplica al dicastero romano, per impetrare «la traslazione […] d’un convento da un luogo ad un altro per minacciare ruina e per essere incommodissimo per li poveri frati infermi non potendo essere visitati da medici se non con grandissima difficultà per la molta lontananza» (cfr. V. Criscuolo, I cappuccini e la Congregazione romana dei vescovi e regolari. 1630-1640, Monumenta historica Ordinis Minorum Capuccinorum, Institutum Historicum Ordinis Minorum Capuccinorum, Roma 2004, pp. 159-160). Il 5 Luglio 1633, Papa Urbano VIII (al secolo Maffeo Vincenzo Barberini, Firenze, 5 Aprile 1568 – Roma, 29 Luglio 1644), con breve apostolico dato a Roma in S. Maria Maggiore, concesse ai frati di vendere al migliore offerente il vecchio edificio e l’infermeria (infirmariæ ac Domûs veteris) e di impiegare il denaro ricavato per edificare il nuovo convento (cfr. M. Wickart, Bullarium Ordinis FF. Minorum S. P. Francisci Capucinorum: seu Collectio Bullarum, Brevium, Decretorum, Rescriptorum & Oraculorum &c. quæ à S. Sede Apostolica pro Ordine Capucino emanârunt. Continens Bullas, Brevia, Decreta, Rescripta & Oracula, quæ Regnorum utriusque Siciliæ & Sardiniæ Provincias, videlicet Neapolitanam, Lucaniæ, Rhegiensem, Cosentinam, S. Angeli, Barensem, Hydruntinam, Panormitanam, Messanensem, Calaritanam & Turritanam: nec non Custodias Italiæ, Monferratensem, Tridentinam, & Melitensem specialiter concernunt, 7 tt., Romæ MDCCXL-MDCCLII, Tomus Tertius, Typis Joannis Zempel Austriaco-viennensis Prope Montem Jordanum, Romæ MDCCXLV, XLVIII+358 pp., in particolare, p. 152). L’edificio era in fieri l’anno successivo, mentre era stato già realizzato nel 1636. In quest’ultimo anno, lo stesso sommo pontefice, il 9 Luglio, con bolla data a Roma in S. Maria Maggiore, autorizzò la demolizione della chiesa vecchia (Ecclesia veteri dictæ Domûs Regularis), al fine di riutilizzare le macerie ed i materiali (illiusque cæmentis, & materialibus) per erigere quella nuova (cfr. M. Wickart, Bullarium Ordinis FF. Minorum S. P. Francisci Capucinorum…cit., pp. 153-154).

La Santuzza appare raffigurata nel seicentesco dipinto di Vincenzo La Barbera della Sacra Famiglia coi Santi Gerolamo, Giovanni Battista Stefano Protomartire e Rosalia, ordinato da Felipe de La Casta, castellano di Termini, per essere destinato nella cappella di patronato sita nella chiesa conventuale di S. Girolamo nell’omonima contrada. L’opera, inizialmente commissionata nella seconda metà del primo decennio del Seicento con l’intitolazione di Vergine dello Stellario (cfr. A. Contino, S. Mantia, Vincenzo La Barbera…cit., p. 90), fu dipinta da Vincenzo nel 1615-16, ovviamente senza la figura di S. Rosalia, mentre nella versione originaria era presente, oltre al ritratto del committente, anche quello della prima moglie Girolama Simonte. Il La Casta, il 27 Ottobre Ia Indizione 1602 aveva sposato Girolama Simonte del fu Antonino, vedova de Rubeo, dalla quale non ebbe prole, che si spense poi nel 1624. Don Felipe de La Casta, il 21 Febbraio IXa Indizione 1626 si risposò con Giovanna de Napoli e Bruno che, il 15 Aprile Xa Indizione 1627, diede alla luce il figlio Francesco de La Casta de Napoli. Un rogito del 3 Ottobre Xa Indizione 1626, in notar Antonino Comella senior di Termini Imerese (cfr. Archivio di Stato di Palermo sezione di Termini Imerese, d’ora in poi, ASPT, vol. 13128, 1625-26) attesta che il 12 Novembre IXa Indizione 1625, nella città di Palermo, agli atti di notar Mariano Zapparata, era stato celebrato un atto di donazione irrevocabile da parte di donna Caterina Arrighetti, moglie di Fortunio Arrighetti, in favore del capitano Felipe de La Casta, di un cofanetto aureo contenente sette reliquie di S. Rosalia, con tanto di certificazione rilasciata il 29 Giugno, ratificata dall’arcivescovo Doria e dal dottore in sacra teologia ed in entrambi i diritti,  don Francesco de La Riba, Protonotaro Apostolico della cattedrale di Palermo (cfr. A. Contino, S. Mantia, Architetti e pittori…cit, p. 74 nota n. 118). Il senese Fortunio Arrighetti (m. 28 Gennaio 1634, sepolto nella chiesa di S. Francesco d’Assisi di Palermo) era tesoriere generale di Sicilia ed aveva sposato il 27 Dicembre 1611 la palermitana Caterina Castelnuovo Valguarnera (cfr. M. Bologna, a cura di, Gli Archivi Pallavicini di Genova. Archivi aggregati, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali – Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Pubblicazione degli Archivi di Stato, II, Roma 1996, XII+476 pp., in particolare, p. 400).

Alla luce del precitato riscontro documentario, appare lecito ritenere che in data successiva al detto rogito, non solo Felipe de La Casta abbia fatto riporre le reliquie nella cappella di suo patronato nella chiesa di S. Girolamo extra moenia, ma che abbia incaricato il La Barbera di apportare alcune modifiche alle figure presenti nella pala d’altare che aveva dipinto in precedenza, attualizzandone l’iconografia. Infatti, come ha rivelato l’indagine radioscopica eseguita dal prof. Giuseppe Salerno sul dipinto in questione, nell’ambito del restauro dell’opera, al di sotto del leone accovacciato ai piedi di S. Girolamo, esiste il ritratto della prima moglie del La Casta. In tale contesto, non solo il La Barbera aggiunse la figura di S. Rosalia, ma modificò anche la positura del Gesù Bambino, mutuandola dalle opere di van Dyck, come giustamente sottolineato dallo storico dell’arte Antonio Cuccia (cfr. A. Cuccia, scheda n°. 14, in Vincenzo Abbate, a cura di, Porto di Mare…cit., pp. 193-194, fig. a p. 194). Una volta edificato il nuovo convento intra moenia, fu realizzata la novella cappella di patronato dei La Casta (dove poi nel 1637 fu sepolto Felipe) e vi furono traslati tutti gli arredi, le sepolture e le opere d’arte, nonché le reliquie in essa contenute, cioè quelle di S. Rosalia, al cui patronato fu dedicato il titulus dell’edificio ecclesiale. Quindi, appare chiaro che l’intitolazione della chiesa non è affatto dovuta al fatto che «durante la sua costruzione la “Santuzza” più volte apparve in sogno ad uno dei frati cappuccini che sovrintendevano ai lavori» (cfr. N. Cimino, La Chiesa di Santa Rosalia a Termini Imerese, in “televideohimera.it”, 15 Luglio 2020, on-line nel sito della detta testata giornalistica). Questa tradizione orale, riferita dallo studioso Nando Cimino, appare quindi, ampiamente smentita dai dati documentari ed iconografici, qui analizzati.

A seguito della soppressione degli ordini, delle corporazioni, e delle congregazioni religiose regolari, conservatori e ritiri ecclesiastici (Regio decreto 7 Luglio 1866, n. 3036) e della confisca e liquidazione (legge 15 Agosto 1867, n. 3848), il convento dei cappuccini (comprese le suppellettili, la biblioteca, le opere d’arte ed i beni immobili) fu incamerato dal demanio statale (in forza della legge 21 Agosto 1862 n. 794 e secondo il Regolamento per la esecuzione della legge sulla soppressione delle corporazioni religiose e sull’asse ecclesiastico, dato a Firenze, 21 Luglio 1866, P. Grazioli, Parma 1866, 24 pp.) essendo convertito agli usi civili. Il fabbricato conventuale incamerato fu adibito ad ospedale, trasferendovi quello ex Fatebenefratelli sotto il titolo della SS. Trinità (attuali strutture museali).

Concludendo, la ricerca effettuata ha permesso di inquadrare la figura di Vincenzo La Barbera, pittore ed architetto termitano, palermitano sia per parte di moglie, sia per adozione, nel contesto della riscoperta del culto di S. Rosalia e della nascita e sviluppo dell’iconografia della Santuzza. Il culto si diffuse anche a Termini Imerese, al punto tale da assumere il patronato di S. Rosalia sulla cittadina, e di ciò si hanno tracce tangibili ancora tra il Settecento e gli inizi dell’Ottocento. Infine, gli eventi epidemici degli anni 20’ del Seicento sono stati messi in relazione con la marcata variabilità climatica di quel periodo che, con tutta probabilità, ebbe il suo peso nel favorire la diffusione dei due contagi di «febbre maligna» e di «peste».

Patrizia Bova e Antonio Contino 

Ringraziamenti: vogliamo palesare la nostra più sincera gratitudine, per l’essenziale supporto logistico nelle nostre ricerche e per la consueta disponibilità, rispettivamente, ai direttori ed al personale dell’Archivio di Stato di Palermo sezione di Termini Imerese e della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana “Alberto Bombace” di Palermo. Un ringraziamento particolare va a don Francesco Anfuso e don Antonio Todaro per il supporto fornito alle nostre indagini sul campo, nonché a Giovanni Ferrero (Genova) per i preziosi suggerimenti e per gli utili spunti di ricerca.

Appendice documentaria

 

Documento n. 1

Resoconto di Giordano Cascini relativo al trasporto marittimo della reliquia di S. Rosalia da Palermo a Termini Imerese. Cfr. G. Cascini, Di Santa Rosalia Vergine Palermitana Libri tre. Nelli quali si spiegano l’Inventione delle Sacre Reliquie, la vita solitaria, e gli honori di lei. Con aggiunta di trè [sic] Digressioni historiche, del Monte Pellegrino, ove visse e morì: di suo Parentado ch’ebbe discendenza dall’Imperadore Carlo Magno: E d’alcuni componimenti in sua lode. dedicati all’Illustrissimo Senato di Palermo, I Cirilli, Palermo MDCLI, pp. 348-349.

[p. 348]. Desiderando du[n]que d’havere [la città di Termini] una reliquia di S. Rosalia, con molto affetto ne supplicò il Cardinale, che gli ne fù [sic] cortese, onde preparandole una bella solennità, mandò uno del magistrato per nome Michel Angelo Anfuso col Padre Giacomo Domenichi Rettore di quel Collegio della Compagnia di Giesù [sic] deputati à [sic] riceverla, e si consegnò loro a 7. di Giugno 1625. con strumento publico del Protonotaro D. Vincenzo Domenichi sù’ l [sic] ponte del molo picciolo, il qual luogo era serrato, e guardato dì e notte, acciò [sic] potessero quivi di lontano trattare i forastieri, che sospetti non erano d’infetione coi sospetti della Città. L’accompagnamento, che perciò venne coi detti Deputati, fù [sic] di dodeci [sic] barche molto bene armate, & adornate di bandiere, & altri ornamenti con musiche, varij strumenti, & archibugeria, e sopra tutte v’era una grossa fragata c’havea da condurre la santa reliquia. all’entrata del porto à [sic] vista della galea Reale abbattè lo stendardo, però le fù [sic] fatta cortesia d’inalberarlo di nuovo per honore della Santa reliquia; la quale chiusa in un vasello d’argento, e portata dall’Arcidiacono di Termine, & altri Preti vestiti degli habiti sacri, fu locata sull’altare ch’era preparato nella poppa, dove le si diede l’incenso, si cantò l’antifona, & oratione della translatione, festeggiandosi in tanto con musiche, con trombe, e piffare [sic, pifferi] non solo dalla banda dei Terminesi sulle barche, ma da quella di Palermo, e dalla Reale ancora, che non finia d’honorare la Santa reliquia, finche [sic] [sic] fuori del porto: scaricarono le barche più volte l’archibugeria, e la Città la salutò con tiri di cannone; però il popolo, che corso era al mare, & alle mura, non si potea satiare di lodare Iddio per l’occorsa maraviglia; Cioè ch’essendo venute quelle barche col vento in poppa, & arrivate avanti del mezo [sic] giorno, durava quel vento, sì ch’era divenuto gagliardo, & il mare grosso, molto contrario al ritorno; ma ecco, che in ricevendosi la santa reliquia sulla fragata di repente si muta il vento contrario in favorevole, e si placa il mare con stupore di tutti, ch’eravamo presenti si che [sic] spiegate [p. 349] le vele se ne volavano con felice ritorno, non senza doppia maraviglia, percioche [sic] quel vento che gonfiava le vele, non estinguea già le candele sull’altare, dov’era la santa reliquia. Arrivarono quella sera alla Trabia, Castello trè [sic] miglia presso a Termine, d’onde il dì segue[n]te agl’otto, che fù [sic] Domenica partì, salutata da quel Castello, colla compagnia d’altre 20. barche, che le vennero incontro similmente adornate, e mentre s’avvicinava questa picciol’armata con festa, e tiri d’archibugi, i beluardi  [sic, baluardi] della Città di Termine, & il Castello Reale prevenivano di lontano con tutta l’artegliaria salutando la santa reliquia, e molto più nello sbarcare; fù [sic] riconosciuta, e consegnata al Vicario, & alla Città, e posta in una bella statua perciò apparecchiata; questa [sic] poi condotta in processione per le migliori strade ben ornate con feste archi trionfali, incontrandosi per certo varij segni d’allegrezza, e giuochi di acqua, e di vino, spargimento di denari al popolo, e concerti di musiche. [sic] locata sull’altare della Chiesa maggiore, & eletta per Padrona, durando per trè [sic] giorni continui la solennità, con designarli una Cappella nella stessa Chiesa, che di nuovo si fabrica. Altrove gli s’erano drizzati altari, & imagini come nella Chiesa di nostra Donna di Porto salvo, & altri luoghi, ma poi nell’anno 1629. le si dedicò anche una bella Chiesa in quel luogo, dove chiamano la terra vecchia, con una nuova compagnia ò [sic] fraternità, la quale, trovandosi all’hora in Termine, cominciò di sua mano il Cardinal Doria con dirvi la prima messa il giorno stesso dell’inventione di S. Rosalia 15. di Luglio.

 

Documento n. 2

Racconto di Juan de San Bernardo O. F. M. relativo al trasporto marittimo della reliquia di S. Rosalia da Palermo a Termini Imerese. Cfr. J. de S. Bernardo, Vida, y Milagros de Santa Rosalìa Virgen, Thomàs Piferrer, Barcelona 1689, pp. 232-233; versione italiana: G. da S. Bernardo, Vita e miracoli di Santa Rosalia vergine Palermitana, portata dal Castigliano all’Italiano dal P. Pietro Mataplana, Agostino Epiro, Palermo 1693, pp. 220-221.

[p. 232] La Ciudad de Termini, aviendo sido favorecida con una Reliquia de Santa Rosalía, que le dió el Señor [p. 233] Cardenal Arzobispo, embió por ella en una Fragata y. once Barcas, adornadas de Gallardetes, y de todas las galas maritimas. Llegando al Muelle de Palermo, fue entregada al Arcediano de Termini, que la recibió, revestido con Capa de una tela de oro muy vistosa, assistido de buen numero de Clerigos: colocóla sobre un Altar, que estaba apercibido en la popa de la Fragata, donde de rodillas la incensó, y caminando con viento favorable, llegó felizmente à la Ciudad. Fueron recibidas las Barcas con mayores demonstraciones de fiesta, y regocijo, que si llegára una Flota de preciosissimas riquezas, y dieronle assiento en una Capilla, que le tenian labrada en la Iglesia Mayor, donde la pusieron en una Imagen de plata muy costosa, y muy hermosa.

[p. 220] La Citta [sic] di Termini mandò a ricevere una Reliquia, di cui favorilla il Signor Cardinal’Arcivescovo, con una Fragata, ed undici barche, tutte a gala marinaresca adornate. Arrivate queste al Molo di Palermo fù [sic] consegnata quella all’arcidiacono di Termini, il quale vestito con Cappa di tela d’oro, ed accompagnato da gran numero di Chierici, la ricevette e collocolla in un Altare per ciò preparato nella poppa, dove ginocchioni l’incensò; e poi con vento favorevole ar[p. 221]rivate in Termini, furono ricevute con tali dimostrazioni d’allegrezza, come appunto averebbon fatto, se fosse ivi capitata una ricchissima flotta dall’Indie: la messero in una statua d’argento di gran valuta, e collocaronla in una Cappella riccamente a tal fine lavorata.

 

Documento n. 3

Resoconto relativo al trasporto marittimo della reliquia di S. Rosalia da Palermo a Termini Imerese. Cfr., J. Stiltingo, Acta S. Rosaliæ virginis solitariæ, eximiæ contra pestem patronæ commentario & notationibus illustrata, Vander Plassche, Antuerpiæ MDCCXLVIII, pp. 314-315)

350 Pergit ille mox ad aliam ejusdem dicecesis civitatem, maritimam & Splendidam, que: Latinis Thermæ, Siculis Termine dicitur. Civitas hec, ut notat, jam manifesto miraculo infrà referendo beneficam S. Rosaliæ opem experts erat, quando Cardinalem archiepiscopum Panormitanum humiliter rogavit, ut aliquid sibi communicare dignaretur ex Sanctæ reliquiis. Annuente Cardinali, ad recipiendas reliquias deputatus est unus è magistratibus D. Michæl Angelus Anfuso cum rectore collegii Societatis Jesu P. Jacobo Domenichi; quibus die VII Junii anni 1625 reliquie datæ sunt cum instrumento donationis authentico. Translatio hæc fáctu est viâ maritimâ, sacræque reliquiæ, thecâ argenteâ reclusa, altari, quod in puppi navis exstructum erat, per archidiaconum Thermensem reverenter sunt imposite. Magnificum duodecim navium comitantium aliarumque rerum apparatum dubit Cascinus desideranti: nam similia plerumque omittenda censui, ne justo sim longior.

351 Illud unum cum ipso, qui adfuit, observo, veniam fuisse contrarium e vehementem, ita ut [p. 315] mare intumesceret, quando redeundum erat Thermas, postquam donata erant sacræ reliquiæ. Verùm hisce navi impositis, ventum mox mutatum marequé placatum testatur, ita ut, mirantibus omnibus, qui aderant, secundo vento feliciter proveherentur,  & ne candela quidem, coram reliquiis accense, in puppi exstinguerentur. Postquam felici navigatione Thermas delatæ erant reliquiæ, impositæ sunt statuæ eleganti, magnificoque cum apparatu à supplicantibus circumlatæ, super altare principis ecclesiæ sunt depositæ, ibique Sancta civitatis electa est patrona, continuata per triduum solemnitate; ac eidem Sanctæ novum Sacellum in ecclesia jam ditta fabricari cæptum. Præterea anno 1629 nova ecclesia ibidem Sancta dedicata, eo instituta cone fraternitas sub ejus nomine, ipso Cardinali Doria primam Missam istic celebrante in festo inventionis die xv Julii.

 

Documento n. 4

Racconto del miracolo occorso a Francesco La Barbera figlio dell’architetto e pittore Vincenzo La Barbera. Cfr., J. Stiltingo, Acta S. Rosaliæ…cit., pp. 487-488).

[487] 59 Mirabile est, quod sequitur apud Cascinum, ubi refertur hoc sensu, sed multo prolixiùs. Vincentius Barbera, architectus civitatis Panormitanæ & pictor, particulam habebat reliquarum S. Rosaliæ, sed tam absconditam servabat, donec lis de approbatione esset decisa. Die xv Februarii audivit approbationem esse decretam, etsi necdum esset promulgata. Mirè lætatus hoc nuntio, statim eâdem vesperâ cum reliquiis accedit aliquos Patres à Societate Jesu, qui alias Sanctæ reliquias viderant, ut earum audita similitudine se magis securum redderet. Reversus domum, rem communicat uxori, quæ hor[p. 488]tatur, at simul reliquias illas venerentur. Cum autem chartam, quâ involutæ tenebat reliquias, domesticis omnibus vellet ostendere, infans ipsim Franciscus, octodecim mensis natui, quem amita vel matertera gestabat in brachio, vi cæpit se gestantis brachio evolvere, evolutusque se primus in genua provolvit, manu quoque significans, ut idem facerent alii; deinde verò expedite pronuntiat, Sancta Rosalia, easdemque voces alacritate magna quater repetit, licet antea necdum voces ullas proferre soleret, nisi fortè Mamma & Tata: demum tot gestibus instabat, ut reliquiæ sibi traderentur, ut pater eas in manus daret infantulo, qut eas primus omnium reverenter exosculatus est. Hac omnium domesticorum testimonio firmata fuisse, testatur Cascinus.

1 COMMENT

  1. Non era scontato ma sono riuscito a leggerlo tutto, comprese le numerose e sistematiche smentite, come di chi è quasi smanioso di dimostrare di essere il più bravo. Ma caro professore; fermo restando che giustamente “carta canta” e che i documenti sono inoppugnabili, ti potevi risparmiare la smentita di uno scritto che io, come hai opportunamente evidenziato, ho riportato come semplice tradizione orale. Forse non sai, ma probabilmente non è tua materia, che i racconti, le leggende o appunto le tradizioni orali, seguono come un binario un percorso che è parallelo alla realtà senza mai incontrala. Si entra cioè in un contesto etno-antropologico che investe anche la sfera emotiva, o quella sentimentale o magari solo folklorica. Ed il fatto che un documento le possa smentire, non significa che non continueranno ad essere raccontate. Una buona salute.

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