Mafia e antimafia nel primo ventennio del terzo millennio. Vincenzo Pinello intervista Umberto Santino

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Umberto Santino ha fondato nel 1977 con Anna Puglisi il Centro siciliano di documentazione, primo centro studi sulla mafia in Italia.

Il Centro è stato poi intitolato a Giuseppe Impastato, militante della Nuova Sinistra assassinato dalla mafia il 9 maggio 1978. Santino, sociologo e militante antimafia, ha al suo attivo una sconfinata produzione bibliografica sulla criminalità organizzata e su temi ad essa collegati. Un quadro completo su di essa e sulle attività del Centro è nel ricco e sempre aggiornato sito web (https://www.centroimpastato.com/).

Vorrei iniziare dal No Mafia Memorial. Tu e Anna da tanto tempo progettavate di realizzare un archivio multimediale dei materiali di oltre quarant’anni di Centro Impastato: la biblioteca, l’emeroteca, gli atti giudiziari, i documenti originali su manifestazioni, comitati, mostre fotografiche… un patrimonio immenso. Possiamo dire che con l’apertura dello spazio di Corso Vittorio Emanuele l’obiettivo è stato raggiunto? Ci dici in poche frasi cos’è il No Mafia Memorial?

Il progetto del Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia, che si è abbreviato in No mafia Memorial, nasce come naturale prosecuzione dell’attività del Centro. Non si tratta soltanto di dare una sede adeguata ai materiali raccolti dal Centro, dalla biblioteca all’emeroteca, all’archivio, per renderli fruibili, ma di rilanciare l’attività di documentazione e ricerca, soprattutto in positivo, nell’elaborazione di progetti di mutamento, con un impegno collettivo. Il palazzo Gulì è una sede prestigiosa, è al centro del centro storico, da qualche tempo una grande isola pedonale, ma ci sono stati assegnati solo il piano terra e il secondo piano, che vanno bene per le mostre temporanee e per il percorso museale, ma abbiamo bisogno del primo piano dove andrebbe l’area di studio, lo spazio per incontri, che per noi sono indispensabili per realizzare il progetto nella sua pienezza. Certo, è stato fatto un gran passo in avanti, il Memorial è già nato e prima della pandemia e ora, con la ripresa dell’attività, ha molti visitatori, interessati alle mostre ma pure alle nostre pubblicazioni. Abbiamo trovato nuovi compagni di viaggio, senza di cui non avremmo potuto realizzare le iniziative avviate dalla fine del 2018. E ci sono soprattutto dei giovani che curano l’accoglienza e contiamo su di loro e sugli altri che verranno per dare vita a una nuova leva di attori culturali.

Mi pare necessario parlare della vicenda di Peppino Impastato su cui il Centro ha avuto un ruolo fondamentale. Pensi che ormai tutto sia stato chiarito o ci sono ancora questioni aperte?

Con grande ritardo, dovuto ai depistaggi, siamo riusciti ad ottenere un risultato pieno: le condanne dei mandanti dell’assassinio di Peppino: Vito Palazzolo e Gaetano Badalamenti (gli esecutori nel frattempo erano morti nella guerra di mafia dei primi anni ’80) e la relazione della Commissione parlamentare antimafia sul depistaggio: finora un fatto unico nella storia dell’Italia repubblicana. Su nostra richiesta, la Commissione ha indagato sul comportamento di rappresentanti delle magistrature e delle forze dell’ordine e ha individuato le responsabilità, in particolare del procuratore capo del tempo, Gaetano Martorana, e dell’allora maggiore Antonio Subranni, che sostenevano la tesi dell’attentato terroristico.

Si è parlato anche di un possibile rapporto dell’omicidio di Peppino con l’assassinio dei due carabinieri della casermetta di Alcamo, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, del 27 gennaio 1976, che ha portato a un imperdonabile errore giudiziario, con le condanne di innocenti, tardivamente annullate, ed è stato messo in relazione con il traffico di armi e la presenza dell’organizzazione segreta anticomunista Gladio. Allora ci furono perquisizioni nelle case di militanti di sinistra, compresa la casa di Peppino, alla ricerca di fantomatici brigatisti. Peppino scrisse un volantino durissimo, in cui parlava della mafia della zona, descrivendone le attività. Una cartella che recava l’intestazione “Strage di Alcamo” è stata sequestrata dopo l’omicidio di Peppino, e non è stata ritrovata. In un notiziario di Radio Aut, del 24 agosto 1977, l’omicidio dei carabinieri veniva messo in relazione con il sequestro dell’esattore Corleo, non sappiamo in base a quale documentazione. Nel 2011 si è aperta un’inchiesta sul depistaggio delle indagini per l’assassinio di Peppino ma è stata archiviata, per prescrizione dei reati. Noi consideriamo le indicazioni della relazione della Commissione parlamentare antimafia come un risultato definitivo.

Debbo dire che ci sono stati magistrati che hanno avuto un ruolo decisivo nelle indagini sull’assassinio di Peppino, come Rocco Chinnici e il suo successore Antonino Caponnetto, Franca Imbergamo, pubblico ministero nei processi ai mandanti. Anche Giovani Falcone ha fatto la sua parte e nel giugno del 1987, con in mano la prima edizione del libro La mafia in casa mia, con cui Anna e io abbiamo raccolto la storia di vita della madre di Peppino, Felicia, è andato negli Stati Uniti a interrogare Badalamenti, in carcere per la condanna nel processo alla Pizza Connection, che ha parlato dei suoi ottimi rapporti con Luigi, il padre di Peppino, e ha detto di non aver nulla a che fare con la sua uccisione. Abbiamo pubblicato il verbale dell’interrogatorio nella nuova edizione de La mafia in casa mia.

Che ricordo hai di Falcone?

 Con Falcone mi sono incontrato più volte e voglio ricordare l’ultimo incontro. Il 21 febbraio del 1992, nell’Aula magna della Facoltà di Giurisprudenza, ha partecipato alla presentazione del libro Gabbie vuote, una ricerca sui processi per omicidio che completava la ricerca pubblicata nel volume La violenza programmata, che riguardava le vittime di omicidio. Gabbie vuote riguardava gli autori e c’era un mio saggio sul maxiprocesso. Il titolo rispecchiava una situazione che si era venuta a creare: nel 1986, quando iniziava il maxiprocesso, c’erano 335 detenuti, nel febbraio del 1991 erano 20 e c’è voluto un apposito provvedimento per farli rientrare in carcere. Falcone era visibilmente soddisfatto perché qualche giorno prima la Cassazione aveva avallato l’impianto del maxiprocesso con i grandi delitti, in particolare gli omicidi politico-mafiosi, addebitati alla cupola di Cosa nostra, riconosciuta come un’organizzazione gerarchica, piramidale, verticistica. Alla fine del dibattito, in disparte, gli ho chiesto: “Sei sicuro che il procuratore della Procura nazionale antimafia sarai tu?”.

La risposta: “Questa volta non possono dirmi di no”. Il giorno dopo è apparso il nome del candidato procuratore: Antonino Cordova. Ho scritto più volte che, dopo la mafia, i principali nemici di Falcone sono stati i suoi colleghi, che hanno bocciato la sua candidatura a Consigliere istruttore, al posto di Antonino Caponnetto, preferendogli Antonino Meli che ha smantellato il pool antimafia; non l’hanno voluto al Consiglio superiore della magistratura e ora non volevano che dirigesse la Procura nazionale antimafia, una sua creatura nata all’interno della sua opera di costruzione di una nuova strategia investigativa e giudiziaria antimafia:

Vorrei approfittare di questa occasione per chiederti di fare una mappa aggiornata del potere di Cosa Nostra a Palermo e in Sicilia nel terzo millennio. Chi comanda, con chi e soprattutto come. Ti proporrei di partire dal tuo celebre concetto di “borghesia mafiosa” sul quale sei più volte tornato proponendo chiavi di lettura via via aggiornate.

Secondo la sentenza di primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia, lo Stato ha vinto e Cosa nostra non esiste più. Possono nascere altre organizzazioni che utilizzano il metodo mafioso, ma sono un’altra cosa. I magistrati si riferiscono alla Cosa nostra dominata dai corleonesi, che hanno imposto una sorta di dittatura militare, con il ricorso alle armi in una sanguinosa guerra interna e con i delitti politico-mafiosi prima, e poi con le stragi dei primi anni ‘90. La denominazione “Cosa nostra” compare negli Stati Uniti nel 1963, in Italia nel 1984, con le rivelazioni di Buscetta. L’organizzazione c’era prima dei corleonesi e si può dire che ci sia anche dopo la sconfitta dei corleonesi, la cui monarchia assoluta può considerarsi una parentesi. Con il maxiprocesso è crollato il mito dell’impunità mafiosa, con l’implosione del socialismo reale è finito il ruolo storico della mafia come baluardo armato contro ogni forma di mutamento. Con le condanne di capi e gregari si sono svuotati gli organici, soprattutto delle strutture apicali e intermedie. Con Provenzano si è tornati alla Cosa nostra molto simile a quella di Buscetta, una repubblica confederale, con una direzione collegiale, l’autonomia relativa delle famiglie, l’accorpamento dei mandamenti: gli organi che raccolgono più famiglie.

I tentativi di ricostituire il vertice di comando, la cosiddetta cupola, pare che finora siano falliti, grazie all’intensa capacità di monitoraggio degli investigatori che adesso si servono di forme sofisticate di intercettazione. E si può dire che, rispetto alla mafia storica, considerata come una chiesa, si sia fatta strada la laicizzazione, con la comparazione tra costi e benefici. Quando sono stati arrestati i mafiosi che avrebbero dovuto formare la nuova cupola, due di essi si sono dichiarati collaboratori. Anche i capi non si sentono di affrontare il carcere duro con tutte le sue restrizioni.

Stando alle relazioni della Direzione investigativa antimafia (DIA) la mafia attuale, nelle sue componenti: Cosa nostra, la cosiddetta Stidda (Stella o “scarda” di legno) e alcuni gruppi autonomi, si può rappresentare secondo lo schema seguente:

  • Palermo città: 8 mandamenti e 32 famiglie.
  • Provincia: 7 mandamenti e 48 famiglie.
  • Agrigento: 7 mandamenti e 41 famiglie, 8 gruppi della Stidda.
  • Trapani: 4 mandamenti e 17 famiglie.
  • Caltanissetta: 4 mandamenti e 13 famiglie, gruppi della Stidda.
  • Enna: 13 famiglie.
  • Catania: 3 famiglie e gruppi autonomi.
  • Siracusa: 2 gruppi.
  • Ragusa: Stidda.
  • Messina: vari gruppi collegati con Cosa nostra e ’ndrangheta.

A mio avviso, la mafia siciliana, se non è in crisi, ha comunque problemi, che riguardano l’organizzazione, il territorio, le attività, il sistema relazionale e il rapporto con la politica e le istituzioni, il consenso.

Dell’organizzazione ho già parlato; riguardo a quella che ho chiamato “signoria territoriale”, un dominio tendenzialmente o effettivamente assoluto sulle attività e anche sulle relazioni interpersonali, ci sono fatti nuovi, come l’insediamento di altri gruppi di tipo mafioso, per esempio i nigeriani, egemoni nel mercato del sesso e con un ruolo rilevante nel traffico di droga. Pagano il pizzo a Cosa nostra, convivono o collaborano? Sul traffico di droga non c’è più il ruolo egemonico a livello internazionale del tempo di Badalamenti, è emerso sempre di più il ruolo della ’ndrangheta; con la crisi della spesa pubblica ci sono minori possibilità sul terreno degli appalti; si sono sperimentate nuove forme di speculazione come l’uso dei fondi europei, l’eolico; si sono riverniciate vecchie attività come le scommesse e il gioco d’azzardo.

Per quanto riguarda il sistema relazionale, transclassista con in testa la “borghesia mafiosa” (per molti anni la mia analisi è stata giudicata un residuo veteromarxista, ora tutti parlano di “borghesia mafiosa”, ridotta a stereotipo che implica una criminalizzazione generalizzata) pare predominante il ruolo della corruzione, ma il rapporto con soggetti classificabili come “borghesi” è sempre stato un gioco a do ut des, fondato su una convenienza reciproca, più che frutto di un’intimidazione.

Il rapporto con la politica e le istituzioni, tenendo conto di quanto dicevo prima sulla fine del ruolo storico anticomunista, deve fare i conti con i mutamenti intervenuti negli ultimi decenni: non c’è più un partito stabilmente egemone, come la Democrazia cristiana; c’è stato per qualche tempo Berlusconi, con cui c’erano rapporti pregressi; dopo si è creata una situazione dominata dall’incertezza, con una sinistra inesistente o ridotta a frammenti residuali, clan personali, forme di populismo e pulsioni reazionarie anche marcatamente fasciste: una transizione che chissà quanto può durare e in periodi di transizione la mafia ha giocato su più cavalli, in attesa di puntare sul vincitore. Può succedere o sta succedendo qualcosa dal genere.

Il consenso c’è ancora, in vari strati della popolazione, ed è cresciuto soprattutto tra i giovani e i giovanissimi che sperimentano forme embrionali di baby gangs, con le feste popolari e i cantanti neomelodici che esaltano i capimafia come eroi popolari, riconoscendosi in essi, ma le reazioni alla grande violenza, le attività antimafia, dalla scuola all’antiracket, all’uso sociale dei beni confiscati, lo hanno sensibilmente ridotto, incrementando fasce di popolazione che praticano attività antimafia o sono comunque interessati a pratiche di mutamento, a partire dalla vita quotidiana.

Adesso ti proporrei di fare il punto sulla legislazione antimafia. Collaboratori di giustizia, sequestro e confisca dei patrimoni, concorso esterno in associazione mafiosa. Vuoi scegliere tu un tema o magari provare ad affrontarli insieme?

 II punto di svolta è stato la legge antimafia del 13 settembre 1982, la cosiddetta legge antimafia, approvata dieci giorni dopo l’assassinio di Dalla Chiesa, della moglie e dell’agente di scorta. Poi ci sono state altri provvedimenti, dopo le stragi del ’92, come il 41 bis che ha introdotto la legislazione premiale per i collaboratori di giustizia, il carcere duro e il cosiddetto ergastolo ostativo.

Il tema all’ordine del giorno da qualche tempo è la conciliabilità del carcere duro e dell’ergastolo ostativo con la Costituzione e con il rispetto dei diritti umani. Qui si scontrano due visioni: una che considera la mafia un’organizzazione di tipo sacrale, in cui si entra con un giuramento che impegna per tutta la vita e da cui si esce solo con la morte o con il pentimento-tradimento. Per cui il carcere duro e l’ergastolo ostativo sono fondamentali nell’architettura repressiva. L’altra visione è legata a una concezione emergenziale, che lega la pericolosità della mafia alle congiunture delittuose, per cui determinati provvedimenti sono considerati necessari per far fronte alle emergenze, ma dovrebbero essere attenuati o messi da parte al cessare dei delitti. Questo è quello che pensa la Corte europea dei diritti umani e anche, più o meno esplicitamente, la Corte costituzionale. Il problema è che la mafia è una sorta di emergenza permanente, un ordinamento opposto o colluso con quello statale. Come si vede, è un problema di fondo che rimanda all’ontologia della mafia e dello Stato. Anche per la trattativa Stato-mafia si pone un problema che va oltre l’evento particolare: si tratta di un episodio o di una storia? E i depistaggi, che mirano a oscurare i mandanti esterni, si iscrivono in questo contesto.

La tua attività di studioso è nota per il rigore nell’analisi delle fonti e la cautela nella ricostruzione di scenari e formulazione di ipotesi. È inoltre ben conosciuta la tua idiosincrasia per le teorie del complotto basate su suggestioni giornalistiche o ignoranza della storia e degli atti. Proprio per questo motivo molti sono interessati ad ascoltarti riguardo al depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio e sulla gestione del collaboratore Vincenzo Scarantino. Uno scenario del quale sembra proprio non tutto sia stato chiarito, tanto che a Caltanissetta tre funzionari di polizia sono tutt’ora sotto processo con l’accusa di avere contribuito al depistaggio, ma non si sa, almeno dal punto di vista giudiziario, per conto di chi. Negli anni si è anche ipotizzata l’ingerenza dei servizi segreti e da più parti, anche in sedi ufficiali, si è sollevato il dubbio che legato ai servizi fosse lo stesso Arnaldo La Barbera, allora dirigente della squadra mobile di Palermo. Alcuni operatori di polizia hanno testimoniato di avere visto in via D’Amelio, già nei minuti immediatamente successivi all’esplosione, uomini dei servizi. É immaginabile che un’attività di depistaggio di tale consistenza e natura fosse stata ideata, programmata e messa in atto da tre poliziotti? E anche più in generale, quale è la tua analisi?

L’inchiesta sulle responsabilità del depistaggio si è risolta in una sorta di gioco con il morto. Prima La Barbera, poi Tinebra. E ultimo arrivato, Faccia di mostro. A mio avviso le responsabilità maggiori sono della magistratura e dei servizi cosiddetti “deviati”: bisogna vedere dove comincia la “deviazione” e finisce la “normalità”. Ma i magistrati che hanno avallato le dichiarazioni messe in bocca a Scarantino, sono stati prosciolti, e i tre personaggi del processo di Caltanissetta sono secondari.

Si è definito il depistaggio per la strage di via D’Amelio “il più grave della storia repubblicana”, ma per tutti i delitti politico-mafiosi e per tutte le stragi, a cominciare da Portella della ginestra, il depistaggio più che un’eccezione è una regola, fa parte della progettazione e realizzazione dell’azione delittuosa. È una strategia che rende impossibile individuare le responsabilità di soggetti esterni alla mafia, collusi e compartecipi, ma dietro le quinte.

Per i delitti politico-mafiosi si è parlato di “convergenza”. È il termine adoperato dalla Procura, dall’Ufficio Istruzione, dalla sentenza del maxiprocesso: convergenza tra due poteri, quello criminale e quello istituzionale. Un’affermazione gravissima, che implicava la necessità di “voltare pagina” nella lotta alla mafia, mettendo al centro questa interazione, e credo che questa indicazione, che voleva diventare un programma di lavoro, abbia avuto il suo peso nello smantellamento del pool antimafia. Finché si tratta di reprimere la mafia militare va bene, più in là ci si perde.

Con la categoria della “convergenza” si è voluto sgombrare il campo dalle tesi che considerano la mafia un’agenzia che opera su commissione e prende ordini da altri. Agisce più che per interessi propri, per interessi di altri. Cioè: è eteronoma, non autonoma. Sarebbe il problema del “terzo livello”, escluso radicalmente da Giovanni Falcone. Non c’è una Supermafia, né a livello locale né a livello internazionale. Con la strage di via D’Amelio è andato in scena uno spettacolo collaudato e temo che non si andrà oltre il processo di Caltanissetta, ammesso che finisca con le condanne degli imputati. Per l’assassinio di Peppino abbiamo chiesto che del depistaggio si occupasse la Commissione parlamentare antimafia, e a suo tempo ho proposto che si facesse qualcosa del genere per i grandi delitti e le stragi su cui non c’è una verità giudiziaria o è parziale o fuorviante. La proposta non è stata accolta e non credo che ci siano le condizioni per accoglierla ora.

Spostiamoci adesso sull’altro versante, se mi permetti questa semplificazione: la società civile. Mi concentrerei su Palermo. È palpabile una certa stanchezza nei movimenti che hanno contribuito nel bene e nel male a fare la storia della città nell’ultimo trentennio. Mettere dentro questo ragionamento il ruolo del sindaco di Palermo è quanto mai opportuno, dato che la sua storia è stata coessenziale a quella di larga parte della società civile, perlomeno, ma non soltanto, nella dimensione dell’immaginario collettivo. D’altro canto, bisogna riconoscere al Centro Impastato grande lucidità nell’avere fatto una scelta di equidistanza e di prudenza, con uno sguardo sul mondo quanto più oggettivo, razionale, direi scientifico. Anche per questo chiedo a te di tracciare un profilo dei movimenti e dei gruppi di pressione oggi e sulla loro capacità di testimonianza e di incidenza.

Per rispondere adeguatamente a questa domanda dovrei riscrivere la mia Storia del movimento antimafia, la cui ultima edizione è del 2009.

A Palermo negli ultimi decenni, soprattutto dopo i grandi delitti e le stragi, sono nate associazioni, fondazioni, comitati che non si limitano alle commemorazioni delle vittime a cui sono intitolati ma svolgono attività nelle scuole, nell’antiracket, nell’uso sociale dei beni confiscati e alcune operano sul territorio. Si dovrebbero potenziare soprattutto la presenza e l’attività sul territorio coinvolgendo che vi abita, ma spesso è difficile, per costruire una soggettività civile in alternativa alla signoria mafiosa. Agendo su diversi piani: l’economia come soddisfacimento dei bisogni, la politica come partecipazione, la cultura come modello delle relazioni nella vita quotidiana. Un progetto di rinnovamento necessariamente a medio-lungo termine, che non può essere avviato soltanto dalla società civile ma occorrerebbe un impegno reale della politica. E il quadro è quello di cui parlavo prima.

Sì, c’è una certa stanchezza, anche perché spesso mancano i “ricambi” e c’è un calo di tensione, che purtroppo segue l’istogramma della violenza. Una mafia silente può venir presa per inesistente o esistente solo per gli investigatori capaci di guardarci dentro.

Non so se il termine più adatto per definire l’atteggiamento del Centro riguardo alla politica e alla pubblica amministrazione sia “equidistanza”. Abbiamo sempre evitato la tifoseria e la fidelizzazione acritica. Posso fare l’esempio del nostro rapporto con la “primavera” e con l’attività del sindaco Orlando. Nella fase in cui predicava: “la mafia ha il volto delle istituzioni”, come se fosse una sua scoperta, abbiamo, assieme ad altri, analizzato il bilancio, cioè la politica reale, e realizzato una forma embrionale di bilancio partecipativo, con il volume Le tasche di Palermo, e abbiamo visto che c’era una sostanziale continuità nell’uso del denaro pubblico: le voci maggiori erano spese di carattere assistenziale destinate a enti religiosi. Si parlava di rinnovamento e abbiamo redatto un dossier sugli appalti da cui risultava un connubio tra rottura e continuità: era stato estromesso il monopolista Cassina, ma compariva un personaggio come il conte Vaselli, legato a Ciancimino (rimando al mio libro L’alleanza e il compromesso). Ci rendevamo conto che erano scelte difficili, ma non ci siamo limitati alle denunce, abbiano fatto delle proposte, ma i rapporti con il sindaco e l’amministrazione “primaverile”, che prima erano ottimi, si sono interrotti.

Per le elezioni europee del 1989 Orlando in televisione poneva l’aut aut: “o io o Lima”, ma Lima fu candidato all’unanimità. Sempre in televisione ci fu l’attacco a Falcone, che avrebbe insabbiato le inchieste sui delitti politici e il cosiddetto “Coordinamento antimafia” diede il via a una imperdonabile campagna di denigrazione: la bomba per il fallito attentato all’Addaura se la sarebbe messa Falcone!

Il Coordinamento nel 1984 era nato su proposta del Centro e per un certo periodo aveva svolto iniziative concordate, successivamente era diventato la claque del sindaco; poi alcuni, che avevano acquisito reputazione di antimafiosi irriducibili, che li ha portati all’assemblea regionale o in parlamento, si sono autopensionati o sono andati a destra.

Nelle elezioni comunali del 1990 Orlando capolista della Dc, con numero due il limiano Di Benedetto, ottiene un trionfo e la lista di sinistra “Insieme per Palermo”, che invano aveva atteso che la capeggiasse Orlando, ha solo sei seggi. Il capolavoro di Orlando è coinciso con il disastro architettato dal giovane segretario comunista Pietro Folena.

Abbiamo proposto un’inchiesta su Palermo, con un libro che voleva essere una premessa: La città spugna, in cui ci ponevano il problema: come vive e di cosa vive Palermo. Non abbiamo trovato interlocutori per svolgere l’inchiesta, l’Università non ha preso neppure in considerazione la proposta (l’unico rapporto con un docente universitario è stato con Giorgio Chinnici per la ricerca sugli omicidi). Ancora oggi il problema è “sapere Palermo” per progettare e realizzare una politica che risponda ai bisogni, individuando le priorità.

A fronte di questo quadro tanto preoccupante quanto fedele allo stato delle cose, ci sono stati e ci sono elementi di positività, sintomi di dinamismo e di lungimiranza

Negli anni più recenti Palermo è stata capitale italiana della cultura 2018, ci sono state le installazioni di Manifesta, buone cose come l’isola pedonale nel centro storico, la disponibilità per la creazione del Memoriale, ma gran parte della popolazione rimane esclusa dalla vita comunitaria. La cultura non è l’esibizione dell’effimero ma un insieme di strutture: scuole, centri sociali, biblioteche, musei, teatri, monumenti, che non siano chiusi al territorio, magazzini, spettacoli per l’intrattenimento di pochi, tappe obbligate del turismo di massa, ma luoghi di educazione permanente, spazi di acculturazione collettiva e generino comportamenti quotidiani basati su valori condivisi. E ci sono problemi come i rifiuti (non ci sono solo i servizi che non funzionano, le discariche straripanti, l’incapacità di fare scelte adeguate, ci sono i cittadini che sporcano abitualmente, i negozianti che spazzano davanti al negozio e buttano l’immondizia sotto il marciapiede, le movide notturne che sono un campo di battaglia in cui vince chi sporca di più), i morti insepolti, i lavori pubblici che non finiscono mai, i servizi pubblici disastrosi, per cui la città figura agli ultimi posti  nelle graduatorie della vivibilità. L’era di Orlando mi pare che stia finendo male, non ha continuatori e il futuro pare appaltato alle destre più ignobili.

Ma le tue analisi, quelle di Anna Puglisi e di altri studiosi del Centro Impastato, non mai hanno trascurato la visione ampia dei fenomeni di tipo socio-politico ed economico, la prospettiva sul mondo all’interno della quale interpretare anche le dinamiche locali e areali.

Il problema della mafia e dell’antimafia non riguarda solo Palermo, ma si tratta di un tema generale come l’azione sociale nella società contemporanea. Archiviate le “grandi narrazioni”, si dice che bisogna contentarsi di attività monotematiche, precarie e con limitata capacità di mobilitazione. Le mobilitazioni per i mutamenti climatici, avviate da una ragazzina come Greta Thunberg, smentiscono questa tesi. I mutamenti climatici non sono un tema isolato e isolabile, rispecchiano un quadro che viene sintetizzato con espressioni come antropocene e capitalocene. L’era attuale è caratterizzata dai mutamenti provocati delle attività umane, e in particolare dal modello capitalistico neoliberista, che sacrifica tutto al mercato, con l’alterazione degli equilibri naturali. Anche il tema della mafia è un fenomeno-specchio in cui si riflettono le contraddizioni del nostro tempo. La globalizzazione è criminogena, dicevamo nel convegno internazionale del dicembre 2000, in contemporanea con la conferenza delle Nazioni Unite sul crimine transazionale svoltasi a Palermo. La criminogenicità si basa su due aspetti: l’incremento degli squilibri territoriali e dei divari sociali, per cui gran parte dell’umanità vive in condizioni di crescente povertà; l’altro aspetto è la finanziarizzazione dell’economia, quello che Luciano Gallino chiamava Finamzcapitalismo, che rende difficile, se non impossibile, distinguere captale legale e illegale. Così le mafie proliferano sia nelle periferie, come fonti di sopravvivenza, che nei centri, come forme di speculazione. La pandemia aggrava questa situazione, anche se la superideologia liberista, assunta a “pensiero unico”, dovrà essere temperata con forme che possono definirsi di “capitalismo compassionevole”. Draghi è la personificazione di questo modello. Abbiamo bisogno di un’analisi e di una progettazione a questi livelli.

Libera svolge un gran lavoro a livello nazionale e internazionale, per un certo periodo il Centro ne ha fatto parte, poi ci sono stati problemi di democrazia interna, dovuti a una gestione di tipo carismatico, e da tempo non ne facciamo più parte. A livello locale i coordinamenti finora hanno avuto esiti fallimentari. Speriamo che vada meglio con il progetto del Memoriale.

Le ultime pubblicazioni del Centro: ce le puoi illustrare, magari soffermandoti su una o alcune che ti sembrano particolarmente legate al contemporaneo, ai mesi della pandemia e delle nuove mafie, intendo dire.

Tra le ultime pubblicazioni c’è la nuova edizione de La mafia in casa mia, che rimane il testo fondamentale per capire Felicia e Peppino. Sul piano della ricostruzione storica di un periodo decisivo, come i primi quarant’anni di Stato unitario, La mafia dimenticata, con i testi integrali delle relazioni del questore Sangiorgi, è il frutto di una ricerca di molti anni e non ha avuto l’accoglienza che meriterebbe: il mondo accademico è fondato sull’apartheid. Abbiamo raccontato la nostra storia nel libro La memoria e il progetto, pubblicato in piena pandemia. Sulla pandemia siamo stati tra i primi a segnalare le possibili implicazioni mafiose. Le mafie possono intervenire su tre livelli: un welfare assistenziale per la popolazione più povera, le cui condizioni si sono aggravate; il prestito usuraio per le attività imprenditoriali e commerciali in crisi, allo scopo di annetterle al dominio mafioso; l’accaparramento dei fondi europei attraverso appalti e forniture, se, come sta accadendo, si riducono i controlli. Con lo sblocco dei licenziamenti si sta creando una situazione di grandi tensioni sociali e i sindacati non danno risposte adeguate. A questi temi e alle nuove mafie, che usano il modello mafioso, ma spesso non vengono riconosciute come associazioni di tipo mafioso, per esempio “mafia capitale”, ho dedicato lezioni e seminari a distanza al corso di dottorato sul crimine organizzato dell’Università di Milano e in master o Summer Schools di altre Università.

L’Autore dell’intervista

Vincenzo Pinello è ricercatore di Linguistica italiana all’Università di Palermo. Si è a lungo occupato di mafia scrivendo documentate inchieste giornalistiche e promuovendo eventi di informazione e denuncia. Attualmente si sta dedicando allo studio del linguaggio del giornalismo antimafia.