I misteri di Gangi: ma il poeta Giuseppe Fedele Vitale nel 1789 si è veramente suicidato?

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Spesso, parlando del poeta, sacerdote, medico-alchimista, gangitano Giuseppe Fedele Vitale (1734 – 1789), esce fuori che sia morto suicida.

La probabile infondatezza di tale ricostruzione dei fatti è emersa durante la recentemente presentazione dello studio sulle mummie della chiesa Madre di Gangi (Esperonews 7 novembre 2020). La versione della morte del poeta per suicidio potrebbe dunque non corrispondere a verità.
Essa è riportata, in modo dettagliato, da Francesco Alaimo nel suo “Giuseppe Fedele Vitale. Poeta e medico del secolo XVIII”, Scuola Salesiana del Libro, Piazza S. Chiara, Palermo 1940, p. 45.
Nel 1938, sempre a Palermo, Libreria Editrice Ciuni, Scuola Tipografica R. Istituto D’Assistenza Diretta da Marcello Manni, il frate cappuccino, anche lui di Gangi come Alaimo, Giustino Cigno, per l’Università di Lovanio Collezione di Studi pubblicati dal “Membres des Conférences d’Histoire et de Philologie”, 2 Série 48 Fascicule, aveva dato alle stampe l’opera “Giovanni Andrea Serrao e il Giansenismo nell’Italia Meridionale (Secolo XVIII)”, che certi ambienti clericali italiani non avevano digerito per niente, come testimoniato in una sua entusiastica recensione da Benedetto Croce.
Nella sua opera Cigno, in pochissime righe, citava quattro accademie siciliane gianseniste, tra le quali l’Accademia degli Industriosi di Gangi. Giuseppe Fedele Vitale di tale accademia era il segretario. Dopo qualche anno, lo Spirito Santo non fu più il Patrono, sostituito da un vescovo irlandese: S. Cataldo.
I monaci irlandesi sono noti per avere introdotto e diffuso in tutta Europa, Italia compresa, la cosiddetta “penitenza tariffata” o “penitenza insulare” (perché affermatasi dapprima nei monasteri irlandesi). Dalla penitenza tariffata era poi uscita fuori la polemica sulle indulgenze a pagamento (tariffa in denaro), aspramente criticata da Martin Lutero, dai protestanti e dai  giansenisti, anche se con sfumature dottrinarie in parte diverse.
Il Buon Gusto muratoriano (che faceva capo a Ludovico Antonio Muratori) imponeva inoltre una severa critica del devozionismo popolare. Da qui l’uso a Gangi, durante la festa dello Spirito Santo, di fare scendere, ai piedi del paese, a spalla e in processione, le statue lignee dei Santi allocate nelle diverse chiese paesane, presso la chiesa (oggi chiesa-santuario) dello Spirito Santo, come per dire: «Va bene la devozione ai Santi, ma ogni anno le statue dei Santi devono correre (letteralmente) davanti allo Spirito Santo (UNUS est DEUS ed è Spirito, come si legge in un dipinto degli affreschi di Palazzo Bongiorno e in “Rime degli Accademici Industriosi” del 1769), inginocchiarsi tre volte davanti a Lui e fare i “miracoli” davanti a Lui, perché la “Clementia Mundi” è Lui». La “Clementia Mundi” è il tema di un altro affresco di Palazzo Bongiorno. Alcune statue portate in processione sono di Filippo Quattrocchi, già collaboratore del pittore Vito D’Anna e scultore assai vicino alla famiglia dei baroni Bongiorno, recentemente accostato a simboli massonici da Lucia Vincenti sul Giornale di Sicilia del 22 ottobre 2020 (Palermo, p. 24: “L’universo alchemico nel centro madonita di Gangi. Inediti segreti si svelano nei settecenteschi saloni, depositari di altre misteriose simbologie occulte. Negli affreschi chiari riferimenti alla libera muratoria in più elementi: dalla fune alla bilancia massonica. Il palazzo Bongiorno in chiave esoterica”).
Nelle “Leggi dell’Accademia degl’Industriosi di Gangi” (che era Seconda Colonia dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto, a far data dal 1756, e Colonia Arcadia, a far data dal 1771-72), pubblicate in “Rime degli Accademici Industriosi di Ganci Coll’Orazione Funerale del Barone Francesco Benedetto Bongiorno. Protettore di essa Accademia”, opera stampata a Palermo nel 1769, Piazza Bologni, per D. Gaetano Maria Bentivegna, nella Stamperia dei SS. Apostoli, all’art. I si legge: «La nostra Accademia degl’Industriosi di Ganci riconosce la sua protezione dal sovrano Padrocinio dello Spirito Santo, e dalla sua Santissima Sposa Maria Vergine Assunta in Cielo; onde in tali giorni vale a dire nella Pasqua di Pentecoste, e a’ 15. di Agosto non si lasci di celebrarne le lodi [a Palazzo Bongiorno] con pubblica solenne Accademia».
Bisogna ricordare che le messe in parrocchia a quel tempo erano officiate in latino e il sacerdote celebrava dando le spalle all’assemblea ecclesiastica. A Palazzo Bongiorno, invece, gli Accademici Industriosi, alcuni dei quali erano arcivescovi, sacerdoti, abati e arcipreti (compreso l’arciprete della locale parrocchia), formavano “Corone di Sonetti”, e cioè “Catene d’Unione”, in lingua siciliana o italiana davanti a tutti coloro che, senza distinzione di ceto e di censo, partecipavano alla celebrazione (e qui vengono in mente i catechismi in siciliano del vescovo Francesco Testa, originario di Nicosia – Enna – e anche lui giansenista).
Ecco cosa scrive Francesco Alaimo (che nel suo libro usa il cognome Alajmo), a proposito del giansenista Giuseppe Fedele Vitale: «Il grande ed infelice poeta nella notte del 20 settembre 1789, dopo una violenta crisi di delirio, perduta la coscienza si buttò da un’alta finestra di casa sua e fu raccolto cadavere fra l’universale compianto e il dolore di quanti lo conobbero e l’ammirarono. Fu sepolto nelle catacombe della chiesa parrocchiale di Gangi [la “Fossa di Parrini”, che non è per niente una catacomba, come ampiamente argomentato dagli antropologi dell’Università di Palermo Sineo, Micciché e Carotenuto], e la sua venerata salma ove tuttora trovasi, giace nella magnifica urna, sormontata d’allori decretatagli dal patrio municipio nella ricorrenza del centenario del 1889».
L’Alaimo, qualche riga prima, per costruire il suo racconto, attinge abbondantemente dalle pagine delle Notizie relative alla vita dell’autore (La Sicilia liberata poema eroicu sicilianu di lu ciecu ab. d.d. Giuseppi Fidili Vitali, e Salvu di Ganci, Opera postuma, Volumi V. Palermu 1815, Pri li stampi di Vicenzu Lipomi, A spisi di lu stessu e cu li so propri caratteri,  pp. 223 ss.). Ma in quel testo non si parla di suicidio e si dice ben altro.
Ecco il testo, pp. 226 ss.: «Non è già inverosimile, che i forti studj, prodotti dal giovane Vitale sino a notte assai avanzata, siano stati la cagione ond’egli […] fu travagliato spesso con vari malori agli occhi, e finalmente nel trentottesimo anno di sua età restò del tutto cieco. Ma checché di ciò voglia pensarsi, gli è certo che l’entusiasmo […] giunse più fiate ad indurgli sì gran perturbazione al cervello, ch’egli trovava espediente di farsi incidere una vena della testa: ed è da notare che una volta fra le altre lo zampillo del sangue che ne uscìa fuori, pervenne fino a toccar la volta della camera. In fine egli è assai probabile, che cosiffatti sforzi d’impegno sieno stati quelli che negli ultimi giorni di sua vita, sconcertandogli in qualche modo la mente, vennero a sviarlo dal portare le dovute correzioni al suo Poema; e chi sa che prima non gli avessero ammortito la parte più delicata delle facoltà intellettuali, e si non fossero stati anch’essi che lo fecer cadere ne’ principali difetti del Canto ultimo».
Su questo specifico punto (i principali difetti del Canto ultimo) ritorna il regio storiografo Domenico Scinà, nel suo Prospetto della Storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Vol. 3, Palermo 1827, pp. 542 ss. Scinà, mettendo a confronto il Vitale e Domenico Tempio, scrive: «Di più alto intelletto e di gusto più fine fu Giuseppe Vitale». Ma nel Vitale, anche per lo Scinà, c’era qualcosa che non andava. Ebbene quel qualcosa, a nostro modo di vedere e come scrive indirettamente lo stesso Scinà, era il Mercurio alchemico, l’arsenico, e cioè l’alchimia/magia. Del resto i disturbi alla vista, la cecità e i disturbi cerebrali sono ben compatibili con lo svolgimento di attività di quel tipo.
«Ciò che veramente pare intollerabile è lo scioglimento, il quale si disdice a poema epico, anzi lo contrasta e deforma. Poiché la presa di Palermo, ch’è il termine della conquista, avviene per inaspettato accidente, e non per assalto, in luogo di una battaglia generale si dà lo spettacolo di una maga che, guaste le sue incantagioni, si scioglie in fumo ed in nebbia; e il poema eroico riesce finalmente in commedia, perché finisce con quattro festevoli matrimonii. Ma questi falli, che sono veramente grossolani, e tutti si osservano negli ultimi canti del poema, furono per quanto pare cagionati da quelle turbazioni di mente, che l’autore venne a soffrire negli ultimi tempi del viver suo». E, in nota a pie’ di pagina, Scinà aggiunge: «Fu soggetto negli ultimi anni della sua vita a gravissime perturbazioni del cervello».
Anche qui, nessun riferimento a un suicidio. La morte di Vitale, pertanto, può essere considerata l’inevitabile conseguenza della stessa condotta dell’intera sua vita. Ecco come conclude, infatti, l’autore delle Notizie relative alla sua vita, nel 1815:  «Se mai queste congetture non sono false, noi dobbiamo attribuire al fonte medesimo la rimota origine della sua morte; perciocché egli non finì di vivere se non a cagione di uno de’ suoi trasognamenti: il che avvenne l’anno 1789. li 20 settembre».
La tesi del suicidio risulta peraltro contraddetta da un documento dell’epoca nel quale si può leggere che Giuseppe Fedele Vitale ottenne la Grazia (?) di Dio. Che si tratti della “Clementia Mundi” giansenista e della “Pace e Giustizia” degli affreschi giansenisti di Palazzo Bongiorno? 

 

Trascrizione del Prof. Carmelo Fucarino:
Die 20: indizionis 1789: Rev: Sac: D: Joseph fidelis Vitale animam deo reddidit cuius corpus sepultus fuit in Eccl. Majori SS.o Viat.o refectus est: dei pacem (?) nactus.
Traduzione del Prof. Carmelo Fucarino:
Giorno 20 indizione 1789, il reverendo sacerdote don Giuseppe Fedele Vitale rese l’anima a Dio, il cui corpo fu sepolto nella Chiesa Maggiore, fu ristorato dal santissimo viatico, ottenuta la grazia (?) di Dio.
Francesco Paolo Pinello

Bibliografia-sitografia: https://accademiaindustriosidigangifra.jimdofree.com/