Giuseppe Fedele Vitale sacerdote-medico-poeta genio gangitano

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La città di Gangi, dove è nato il poeta Giuseppe Fedele Vitale (1734- 1789), sacerdote e medico, appartiene alla provincia di Palermo e si trova nel centro agricolo-pastorizio-montano delle Madonie.

Una lapide datata col giorno del primo centenario della morte, ricorda il nome dell’illustre concittadino nella stessa via centrale dove aveva abitato e  aveva posto fine alle sofferenze lasciandosi precipitare, con intento suicida maturato in condizione di confusione mentale cronica, accentuata dalla condizione di cecità, di cui era stato oppresso fin da quando, trentottenne, scriveva l’opera poematica La Sicilia liberata (dai Mori – NdT).
Ma, procediamo con ordine: Giuseppe Fedele Vitale, che aggiungeva al patronimico il cognome Salvo della nobile famiglia materna, era rampollo di un ceto patrizio di ceppo palermitano. Il padre era medico, professione cui tenderà il figlio sacerdote-poeta, che dopo essere stato ordinato a Palermo, dove si era formato alla scuola di teologia dei Gesuiti, otteneva dalla curia vescovile, il permesso di realizzare la propria inclinazione verso la professione del padre, laureandosi in medicina nell’Università di Catania, città nella quale si era frattanto trasferito. Un adempimento significativo per la complementarità delle scelte, entrambe d’indirizzo missionario, il sacerdozio, cura per le anime, la medicina per il corpo.
Non abbiamo molte testimonianze sulle attività sacerdotali del Vitale. Testimonianze che invece ricorrono sulla passione del medesimo per la scrittura in versi per lo più dialettali. In un documento d’ignoto autore si legge: “Preso dalla ispirazione gli si rizzavano i capelli, enfiavano le vene della fronte, e prorompendo in versi era d’uopo di scrivere con assai speditezza,tanto essi gli scorrevano agevolmente”.
Di rilevanza storica nel curriculum del sacerdote-medico-poeta i momenti seguiti al suo rientro da Palermo a Gangi (1870), dove da segretario della Accademia degli industriosi contribuisce e determina l’intervento della direzione dell’Arcadia romana, che in riconoscimento dei meriti letterari del Vitale, di cui frattanto era stata apprezzata l’opera poetica “Il tempo dell’engunea musa”, nonché dei fermenti culturali nella città madonita, delibera di elevarne la sede a “Colonia arcadica”, attribuendo al poeta Vitale il nome arcadico di Vivaldo Oilidio, con documento datato 29 dicembre 1771, anni in cui Gangi veniva riconosciuta centro guida di operatività culturali in Sicilia, grazie a una coralità di intelligenze locali, con a capo i fratelli Bongiorono, mecenati spontanei sostenitori dell’Accademia degli Industriosi.
Evidentemente si rivelava imprescindibile l’apporto del Fedele Vitale nella sua triplice autorità prestigiosa di discendente, per parte di madre, del casato dei Salvo, che aveva a Palermo influenze sociali e politiche; dello stesso medico-sacerdote-poeta autore de La Sicilia liberata, che proprio dai potentati accademici e scientifici della capitale siciliana era ammirato e sostenuto, come dimostra l’attestato che lo abilitava a mantenere carica e stipendio di medico condotto anche dopo la sopravvenuta cecità; e ancora la fama che le opere poetiche continuavano a procurargli con crescendo di consensi non solo in Sicilia, dopo l’attestato dell’Arcadia.
I meriti letterari di Giuseppe Fedele Vitale vengono a tutt’oggi riconosciuti principalmente per il già citato poema in 33 canti, e con un accento che tende a evidenziare come definitivo il parere, a suo tempo espresso dal Meli, sulla non perfetta purezza del dialetto adoperato dal sacerdote poeta gangitano. Una osservazione che ci fa esclamare un “Da che pulpito viene la predica?”, confrontando e constatando come proprio il dialetto siciliano dell’abate Meli sia intriso di italianismi artigianalmente verniciati di siciliano. Ma che di là da tale nostra valutazione, alla luce dell’ampio respiro dell’opera del Vitale e della temperie culturale epocale in cui venne scritta, brilla di intuizioni anticipatrici del mistilinguismo nella letteratura italiana in auge tra le avanguardie sperimentali della seconda metà del Novecento, con le opere di narrativa di C.E. Gadda e, ancor meglio e più, del capolavoro Horcynus Orca del siciliano Stefano d’Arrigo di Alì Marina (Messina). Qui, la nostra proposta, può sembrare “dilatazione arbitraria”, ma non è un azzardo, se ci si vuol disporre a leggere la La Sicilia liberata del Vitale tenendo conto del suo variegato vocabolario (settecentesco).  E poi, con ponderazione, di quella testimonianza dell’ignoto biografo qui citato, sulle estemporanee e spontanee metamorfosi espressive del poeta nei momenti delle “ispirazioni”. Scritture “visionarie”, diremmo con il linguaggio della critica novecentesca. E poi, a favore della fama consolidata del geniale gangitano di quegli anni, la conveniente indagine che tenga conto dell’insieme degli scritti e non da qualcuna come per il solo grande poema. A parte il proposito di revisione per quest’ultimo, revisione che l’Autore non giunse ad attuare per il peggioramento delle proprie condizioni di cecità e l’aggravarsi in perdita della lucidità mentale responsabile del tragico gesto finale.
Mario Grasso