Renzi, il giorno dopo

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Qualcuno – più di uno – pensa che l’era di Renzi sia già terminata nel momento stesso in cui ha accettato il “suicidio” politico convincendosi – o facendosi convincere, scientemente o con, più o meno, bonari raggiri – di puntare tutto – come al tavolo verde – sul referendum del 4/12.
Un’era che, dietrologia a parte e presidenti emeriti in disparte, diversi ritengono essere stata una meteora necessaria in un momento storico fatto di maquillage, sull’onda di risvegli e di rivincite, tra scossoni e populismi vari, e che è stata capace di instillare nel sistema il germe della giovane, boccioniana, marinettiana velocità. Perché una certa rottamazione, in fondo, sarebbe servita al partito, in quel percorso di eliminazioni interne attraverso social e tivù. L’immagine, iconica quanto sia, accelera percorsi e mutua linguaggi, dissotterrando vecchie – e pur nuove – necessità. Appetiti, in fondo, soddisfatti in Italia – restia ad abbandonare le sue più rachitiche tradizioni – di ventennio in ventennio. 
Una scia – luminosa o scrostata al luminol – necessaria appunto, ma non eterna. Il ventennio, questa volta, lo si vorrebbe rendere nuovamente corale: non dell’uomo, ma della corrente, reazionaria, bianca, decisamente lontana dalle anime più “sinistre”. Un percorso a rilento e a ritroso, che potrebbe passare dal Graziano nazionale, legato all’Italia più tradizionalista, rassicurata e rassicurante. Un tesoretto di immagini – che, qui sì, ritornano splendidamente iconiche – che sono, in fondo, le stesse dell’Italia operaia, familistica, postbellica. 

Qualcuno – più di uno, in verità – crede che sia questione di tempo: il tempo di spegnere lentamente i sospiri dell’ultimo re e avviare, più coralmente appunto, il ripristino dello spirito di gruppo, tipico di un partito popolare che mediaticamente potrà pure rendere meno di cerchi e gigli magici – da abbandonare, adesso – ma che è pur sempre lido battuto e sicuro. D’altra parte, cerchi e gigli magici non sempre valgono la candela, specie con un popolo ossessionato – e qui ritorna – dalla dietrologia a ogni costo. 

Un primo passaggio, dunque, è rappresentato dal governo Gentiloni dove, ad esempio, Verdini – l’alleato post-berlusconiano di Renzi – non ha voce o quantomeno non ne avrà come immaginato in un esecutivo copia – bis – del precedente, sciolto all’indomani dell’esito referendario. Insomma, un percorso “step by step”, per usare un linguaggio aziendalistico che ormai ha contagiato tutto e tutti, pur di darsi un tono. Ciò non ne comporterà la dissoluzione – delle lobby retrostanti – ma la riconduzione nel loro giusto alveo: fuori dalle luci della ribalta, troppo fumose e sempre accese sulla “corte del re”.

Qualcuno – più di uno, ad onore del vero – ritiene che occorrerà un passaggio ancora – forse sostenuto dalla via giudiziaria – per trasformare gli ultimi residui di renzismo, tradotti, oggi, in numeri. Occorrerà un ultimo, felpato interno strappo per spostare – come da sempre è avvenuto in politica – l’attuale maggioranza d’assemblea – e poi di congresso – sul nuovo traghettatore. Da più parti se ne sente l’esigenza: una transizione senza clamori e urti da rottura, specie in un panorama politico dove alberga un movimento pentastellato sì acciaccato dal caso Roma e firme false, ma sempre pronto a divampare nei cuori e nelle urne; una rottura, infatti, sarebbe certamente una mutilazione elettorale poco saggiamente autoinflitta.
Un Graziano nazionale, pensa ancora quel qualcuno. Che, a differenza del giovane rampollo del blairismo nostrano, sa d’essere a tempo. Pagato, pure lui, con il voucher della presidenza del consiglio, tassello di un ulteriore ventennio “targato” questa volta non col nome di “qualcuno”, ma “abitato” dal partito per intero. Troppe le porte rimaste aperte che rischiano di chiudersi malamente senza che si riesca a gestirle: le poste in gioco sono alte, tanto più in periodi di crisi prolungata come l’attuale.
Un’operazione di restaurazione, insomma, passata proprio attraverso il vento della rottamazione che, alla fine, quasi dappertutto non è stata mai seriamente tale. Resta da capire, decisamente, il ruolo da comprimario che dovrà essere assegnato a Renzi, troppo ingombrante per relegarlo nell’oblio più scrosciante. In fondo, ancora, siede accanto a Gentiloni, Franceschini e seguenti, direttamente o tramite uomini e donne di sua stretta espressione. Sempre che il “noi” del partito – e del progetto restauratore, rassicurante come pochi altri – non contagi anche loro. In fondo, gli endorsement non sono mai stati solo i cambi di casacca, ma anche il cambio delle compagnie. Un amico non è per sempre. E neppure un padrone. Berlusconi docet.
 
Antonino Cicero
@AntoninoCicero1