Bruxelles: un termitano nel cuore degli attentati

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Gli attacchi terroristici di Bruxelles del 22 marzo scorso hanno, ancora una volta, squarciato un velo in Europa, riproponendo la paura e l’insicurezza provate, più di recente, dopo i fatti di Parigi. La “capitale europea” è anche un simbolo, certo, e sono proprio i simboli che fanno più rumore e che danno maggiore visibilità: un morto nel cuore dell’Europa ne vale più di dieci negli anfratti di un villaggio siriano, secondo la logica comunicativa dell’Isis.


Il tentativo, tra i tanti, è quello di creare instabilità e irrigidimento tra le istituzioni del vecchio continente, che adesso deve aprire gli occhi e comprendere di trovarsi davanti, giocoforza, ad una realtà nuova seppure non inedita. I terroristi hanno un obiettivo, non solo mediatico: compattare una parte consistente del variegato mondo islamico contro l’Occidente, da presentare sempre più come realtà a sé e, quindi, come nemico pubblico ben identificato e identificabile.

A Bruxelles, in quelle ore, nel giorno delle esplosioni all’aeroporto di Zaventem e alla metropolitana, alla fermata Maelbeek, che hanno causato la morte di 32 persone e il ferimento di centinaia, e nei giorni successivi, c’era un termitano, Luigi Sunseri. Un testimone, suo malgrado. Luigi vive nella capitale belga da circa due anni e lavora presso il Parlamento europeo. In mezzo una candidatura a sindaco nella sua città nel 2014 con il Movimento 5 Stelle.

Cosa vuol dire vivere nella “capitale europea”?
«Vuol dire vivere in una delle città più multiculturali e multilinguistiche del mondo – esordisce Sunseri – perché Bruxelles, ospitando tutte le sedi delle istituzioni europee e la Nato, ha cittadini da ogni parte d’Europa e del mondo». Luigi, in quelle ore, era a casa, in procinto di recarsi a lavoro… «Ero ancora a casa, per puro caso e fortuna. Mi sono svegliato con qualche minuto di ritardo e non appena ho letto la notizia dell’attentato in aeroporto, pronto per andare a lavoro, ho preferito non uscire. Niente spostamenti in auto o metro, ci hanno sconsigliato qualsiasi uscita non strettamente necessaria. Chi era già in Parlamento non è stato fatto uscire, se non diverse ore dopo». Sunseri, infatti, abita «vicino al Parlamento e non uso la metropolitana per andare in sede, ma molti miei colleghi sì. E comunque quella in cui c’è stata l’esplosione, oltre ad essere la fermata più vicina a casa mia, è anche quella – continua Sunseri – che viene usata di più per andare in Parlamento o in Commissione».

Quale la differenza tra la Bruxelles del prima e del dopo attentati?
«Attualmente la città è militarizzata e con polizia ad ogni angolo. Si respira un’aria certamente diversa. Purtroppo anche un semplice tratto in metropolitana o una passeggiata per le vie del centro provocano ansia e tensione».

Attentati parigini, attentati brussellesi… Stessa eco?
«Quando si parla di morte non farei mai differenze. La pressione mediatica è stata forte, ma le vittime sono vittime, sempre».

Questo problema stragista e terroristico è anche un problema identitario, checché se ne dica, pur con regole che recano con sé, spesso, letture e azioni non lineari: europei contro europei (pensiamo ai foreign fighters), musulmani contro musulmani. Il mondo islamico, che è tale senza altre esemplificazioni, è una galassia variegata al suo interno, magmatica, spesso ricca di contraddizioni, le stesse che, soprattutto in Medio Oriente e nel continente africano, esplodono quasi fosse una costante resa dei conti (dietrologie a parte), per spostare l’attenzione su terreni nuovi. E l’Europa ritorna ad essere periferia da portare alla ribalta, ancora una volta. L’Islam moderato è una categoria giornalistica: l’Islam è Islam e, come ogni altra religione che voglia fondarsi su un messaggio d’amore e di pace, non può che constatare che le estremizzazioni non sono mai in sintonia con queste ambizioni. Chi uccide è un criminale, al di là della religione di appartenenza, del sesso, della razza e così via. Ciò che ci si attende, certo, è una condanna ferma e decisa, senza sconti, senza ma, senza distinguo vari da parte di quei musulmani, loro sì, che praticano la religione e non possono accettare che si uccida in suo nome. Rimane, all’interno dell’Isis, la questione dell’appartenenza, che spesso segue la logica che si ritrova nei clan mafiosi, ad esempio. Si instaurano regole e rapporti in un territorio preciso o anche oltreconfine. Un senso di appartenenza per legare e legarsi, sempre di più. E anche con questo occorre fare i conti, lavorando a che questo eventuale difficile legame che si può instaurare non si rafforzi ed evolva, invece, in denuncia e ripudio.

Destabilizzare significa sempre creare un clima da caccia alle streghe… Che aria si respira nei confronti dei gruppi di origine o di religione islamica? C’è, diciamo, una sorta di paura collettiva?
«Beh, purtroppo sì. Ma, a mio avviso, va fatto un forte distinguo tra religione e criminalità. Associare dei gesti estremi e sanguinosi come questi ad una religione è errato. Un terrorista è un terrorista, un criminale è un criminale. Null’altro».

A che punto è il processo di integrazione?
«Ci sono zone di Bruxelles dove il processo d’integrazione tra culture è molto avanzato; altre, come Maelbeek, dove è evidente che qualcosa ha fallito».

Cosa cambierà, adesso, dopo gli attentati?
«Spero torni la serenità e la tranquillità. La vita va comunque avanti e quello che ci auguriamo è che questa politica del terrore finisca! Passata la paura del momento, quella che è rimasta è la consapevolezza che tutto prosegue e che, certo, siamo stati fortunati a non esserci trovati in quei luoghi in quei momenti… come si commenta tra amici e colleghi».

Nei palazzi delle Istituzioni europee, oltre alle dichiarazioni ufficiali, quali sono le reali intenzioni?
«Purtroppo quello che si percepisce è che l’Europa proverà a chiudersi in se stessa. È un rischio. Uno dei valori fondanti della nostra Europa è la libertà. Se questa dovesse venire a mancare, in qualsiasi modo, o se questo dovesse comportare la fine di Schengen… finirebbe l’Europa».