18 novembre 1157: il giorno in cui Montemaggiore entrò nella storia di Cluny

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C’è un giorno preciso, tra i tanti che si perdono nella nebbia del Medioevo, che per Montemaggiore Belsito segna un punto fermo nella storia: il 18 novembre 1157.
È questa la data che gli autori Filippo e Santi Licata, nel saggio Le Origini: Montemaggiore e il monastero cluniacense di Santa Maria (Youcanprint, 2024), identificano come quella della donazione del monastero di Santa Maria di Monte Maggiore all’Ordine di Cluny. Un atto giuridico, ma anche un simbolo religioso e politico di grande portata, capace di illuminare un’intera stagione della Sicilia normanna.

Siamo negli anni del regno di Guglielmo I d’Altavilla, detto “il Malo”, successore di Ruggero II e sovrano di un Regno di Sicilia ancora attraversato da tensioni politiche, religiose e culturali.
La conquista normanna aveva infatti riunificato un territorio che per secoli era stato dominato da popolazioni di cultura araba e bizantina. Era necessario “latinizzare” e “ricristianizzare” il Regno, non solo con le armi ma anche attraverso una capillare azione ecclesiastica, fatta di fondazioni monastiche e nuove diocesi.

In questo scenario, l’Ordine di Cluny rappresentava uno degli strumenti più raffinati della politica religiosa normanna. Le abbazie cluniacensi erano centri di spiritualità, ma anche di cultura e amministrazione, legati a una rete europea che faceva capo alla potente abbazia madre in Borgogna.
È in questo contesto che nasce l’atto che lega Montemaggiore alla grande tradizione cluniacense.

Il documento di cessione, redatto in latino nel glorioso anno M°C°L°VII° (“dalla nascita di Cristo, regnante l’invitto re Guglielmo, indizione VIa”), reca la firma di Daniele, vescovo eletto di Cefalù, e quella di numerosi testimoni canonici.
Ne riportiamo l’incipit: “Ego Daniel, Chepheri electus, consensu et voluntate fratrum subscriptorum, precibusque domini Renaldi de Tusa, concessi ecclesiae Cluniacensi ecclesiam Sanctae Mariae, cum omnibus pertinentiis suis, quae est apud Majorem Montem…”

Nella traduzione moderna:“Io Daniele, da Cefalù eletto, con il consenso e il volere dei fratelli nella fede sottoscrittori, e l’intercessione del signore Rinaldo di Tusa, concedo alla Chiesa Cluniacense la chiesa di Santa Maria, con tutte le sue pertinenze, che trovasi presso Monte Maggiore, affinché essa possa a norma di legge per sempre averne la proprietà senza smentita mia e dei miei successori.”

Si tratta di un atto semipubblico, secondo la terminologia diplomatica medievale: una decisione unilaterale di un’autorità ecclesiastica (in questo caso il vescovo), vincolante per la controparte destinataria.
Le clausole fissano anche una condizione simbolica: ogni anno, in occasione della festa del Santissimo Salvatore, la comunità cluniacense di Montemaggiore dovrà offrire due libbre di cera e una di incenso alla chiesa di Cefalù, tramite il priore (o più propriamente l’abate) di Sciacca, sede della sorella maggiore Santa Maria delle Giummare.

Il documento, “sigillato per mezzo di laccetti di seta rossa con una bolla di piombo in buone condizioni”, reca su un lato la figura di Cristo con la scritta Sigillum Sancti Salvatoris e sull’altro una chiesa con l’iscrizione Ecclesia Chephalocensis.
Sul verso compaiono le lettere greche IC XC, abbreviazione di Iesus Christus, secondo l’uso bizantino ancora vivo nella Sicilia del XII secolo.

Un particolare che unisce due mondi — quello latino e quello orientale — e testimonia la complessità culturale e religiosa dell’isola in quell’epoca.

Il latino del documento non è quello classico, ma quello “vulgarizzato” tipico dell’occidente medievale, ricco di adattamenti morfologici e sintattici che anticipano la nascita dei volgari.
Ogni segno e ogni parola offrono indizi preziosi sul cammino linguistico e culturale dell’Italia meridionale del tempo.

Tutti i nomi dei sottoscrittori sono preceduti dal signum crucis, segno di autentificazione e di fede, secondo la prassi ecclesiastica.
Tra i testimoni troviamo canonici provenienti da diverse sedi, come Giovanni di Monte Corbino e Pietro di Sciacca, a conferma dei rapporti ecclesiastici interdiocesani che legavano Montemaggiore a un più vasto circuito monastico e territoriale.

Gli autori Licata avanzano un’ipotesi affascinante: la data del 18 novembre, corrispondente alla solennità di sant’Oddone, secondo abate di Cluny e grande riformatore dell’Ordine.
La coincidenza non sarebbe casuale. Donare il monastero proprio in quel giorno avrebbe rappresentato un atto di adesione ideale e spirituale alla riforma cluniacense, oltre che un segno di devozione verso il santo abate che ne incarnava lo spirito.

Così, Montemaggiore non solo entra nella rete di Cluny, ma ne assorbe la liturgia, la disciplina e l’identità monastica, diventando un punto di luce nella mappa del monachesimo europeo in Sicilia.

Un dato storico poco noto, ma significativo, è che le uniche due pertinenze cluniacensi in tutta la Sicilia furono Santa Maria di Monte Maggiore e Santa Maria delle Giummarre di Sciacca.
Quest’ultima era la casa madre, da cui Montemaggiore dipendeva ed era subordinato. I due monasteri costituivano così un raro presidio cluniacense nell’isola, simbolo della riforma monastica che, dall’Europa, trovava spazio anche nel cuore del Regno di Sicilia.

Quel documento del 1157 — conservato con la sua bolla e le sue firme — non è soltanto una fonte d’archivio, ma una testimonianza viva: un atto che lega un piccolo luogo del Val di Mazara al respiro universale del monachesimo cluniacense e, più in generale, alla storia religiosa d’Europa.

Nel suo linguaggio solenne, tra formule giuridiche e accenti di fede, riecheggia ancora oggi la voce di un tempo in cui le pietre di un monastero potevano cambiare il destino di un intero territorio.

Santi Licata

Fonti: Tratto e adattato da: Filippo e Santi Licata, “Le Origini: Montemaggiore e il monastero cluniacense di Santa Maria”, Quaderni di ricerca XIII, Youcanprint, 2024. Introduzione di Rosa Maria Cucco.

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