La Serenissima e la Splendidissima: memorie di Venezia a Termini Imerese tra il XIV e il XVII sec.

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Sino al 1819, la cittadina di Termini Imerese (che già in età augustea ebbe il titolo di «Splendidissima»), possedette un grande Caricatore del Grano, tra i più rilevanti del «Regno di Sicilia».

Il Caricatore era  costituito da un complesso di magazzini per il deposito transitorio di «vettovaglie», soprattutto cereali e legumi, da sdoganare prima del carico.
La presenza di questa importante prerogativa, sin dal medioevo, fece la fortuna economica della cittadina imerese, grazie alla sua felice posizione sulla costa settentrionale della Sicilia, quale naturale punto di sbocco di un fertile entroterra. Tutto ciò spiega la frequentazione dello scalo marittimo di Termini Imerese da parte di mercanti provenienti da tutto il Mediterraneo e, soprattutto, dalle quattro repubbliche marinare peninsulari (Amalfi, Pisa, Genova e Venezia).
L’esportazione siciliana delle «vettovaglie» era affidata ad un «Mastro Portolano del Regno» ed a funzionari subalterni detti «Vice-portolani», uno per ogni caricatore (come a Termini Imerese).
Curiosamente, il grande Caricatore termitano (gravitante sull’attuale Piazza Crispi), nonostante la sua importanza economica, per tutto il medioevo e per la prima metà del Cinquecento, rimase confinato al di fuori dell’abitato e, conseguentemente, esposto al pericolo di razzie piratesche. A ciò va aggiunto il fenomeno del progressivo interrimento del litorale che, come ebbe a sottolineare Carmelo Trasselli (1910-1982), costringeva le navi di maggiore stazza, per non rischiare di finire incagliate, ad ancorarsi ad una certa distanza dalla spiaggia, mentre delle piccole barche dovevano fare la spola per caricare le «vettovaglie» (cfr. C. Trasselli, Porti e scali in Sicilia dal XV al XVII secolo. In: Les Grandes Escales. Recueils de la Société Jean Bodin pour l’histoire comparative des institutions, XXXIII, Deuxième Parties, Les Temps Modernes, Édition de la Librairie Encyclopédique, Bruxelles 1972, pp. 257-281). Mentre le «vettovaglie» partivano alla volta di Venezia, dalla Serenissima giungevano a Termini Imerese  legname, cera, panni pregiati, libri, carta etc.
La presenza veneziana in Sicilia fu oggetto di due pionieristiche ricerche, entrambe edite nella rivista «Archivio Storico Siciliano» (d’ora in poi ASS), organo ufficiale della benemerita Società Siciliana di Storia Patria. La prima, ad opera di mons. Isidoro Carini (1843-1873), sfociata nel suo studio dal titolo «I Veneziani in Sicilia» (ASS, 1876, anno I, n. 2, pp. 347-363). La seconda, ad iniziativa di Giuseppe Pipitone Federico (1859-1940), confluita nel suo saggio «A proposito di una partecipazione di morte nel secolo XIV» (ASS, n. s. anno IX, 1884, pp. 387-403). Entrambi gli studiosi, però non fanno alcun cenno ai veneziani in Termini Imerese.
Prima di focalizzare l’argomento sulla cittadina imerese, ci sembra opportuno rammentare le origini documentate degli ultracentenari contatti tra Venezia e la Sicilia.
La più antica testimonianza, sinora nota, della presenza veneziana in Sicilia e, nello specifico, in Palermo, capitale del regno, rimonta all’epoca normanna.
Nonostante l’originale pergamena greca, anticamente appartenente all’archivio arcivescovile di Palermo, datata febbraio 1144, sia andata perduta, fortunatamente è disponibile una versione latina, datata 11 agosto 1309, trascritta ed inserita dal canonico Domenico Schiavo (1719-1773) nella sua grande raccolta documentaria (Diplomata, litterae, privilegia etc., ad archiepiscopalem Ecclesiam Panormi  pertinentia,  ms. sec. XVIII, della Biblioteca comunale di Palermo ai segni Qq H 3 f. 8).
Il documento in questione, ci informa che nel 1144, il re Ruggero concedette ai cittadini veneziani (veneti cives), Leonzio (o Ponzio) Marino, Marco Canali, Marco Gabussida, Roberto Venerio, Rodolfo Bembo e Bartolomeo Caterino, la licenza di riedificare un’antica e diruta chiesa greca, posta nel quartiere Seralkadi (Capo) di Palermo, con la facoltà di poterla intitolare a S. Marco (cfr. V. Mortillaro, Catalogo ragionato dei Diplomi esistenti nel Tabulario della metropolitana chiesa di Palermo, Appendice, Diplomi e documenti mancanti, n. 7, pp. 379-380; I. Carini, op. cit.; C. A. Garufi, I documenti inediti dell’epoca normanna in Sicilia, documenti per servire alla storia di Sicilia pubblicati a cura della Società Siciliana di Storia Patria, prima serie, diplomatica, vol. XVIII, Tip. Lo Statuto, Palermo 1899, doc. XVIII, pp. 44-45). Un chiarimento è d’obbligo per la grafia Gabussida del documento normanno, la cui corretta chiave di lettura è sinora sfuggita agli studiosi; a nostro avviso, infatti, si tratta della «sicilianizzazione» di «Ca’ Busida», cioè la casata (casa, in veneziano ‘ca) della famiglia veneziana dei Busida. Ricordiamo che l’articolazione familiare, in più rami, dei raggruppamenti di discendenti dal medesimo capostipite, la ca’ veneziana appunto, è stata oggetto di importanti ricerche da parte di Elisabeth Crouzet-Pavan nella sua monografia «Sopra le acque salse». Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Age (vol. I, Rome, pp. 407-409).
Tra i documenti della cancelleria dell’arcivescovato palermitano, troviamo ancora altri riferimenti alla locale chiesa di S. Marco dei Veneziani. Regnando Guglielmo I, nell’aprile 1165 (data incerta), tal Filiberta, vedova di Rodolfo figlio di Daniele, nel suo testamento, dopo aver designato l’arcivescovo di Palermo quale erede di buona parte dei suoi beni, espresse il desiderio di avere come ultima dimora terrena la detta chiesa di S. Marco al Capo: «Ecclesia Sancti Marci venetorum de quarterio Seralcadij» (cfr. Garufi, op. cit., doc. XXXIX, pp. 91-93).
Durante il regno di Guglielmo II, nel febbraio 1172, il predetto Marco Canale, con la moglie Rebecca ed i figli Vespasiano e Ranierio, concedettero alla detta chiesa di S. Marco un orto sito fuori porta S. Agata (cfr. Garufi, op. cit., doc. LX, pp. 149-150).
Infine, il 16 marzo 1186, Teocrito Morosini (nel documento Mairosin o Mairosini) di Chioggia, nel suo testamento stabilì come sua ultima dimora terrena la detta chiesa di S. Marco: «nostra ecclesia divi Marci que est in loco Kiralkadi» (cfr. Garufi, op. cit., doc. LXXXVI, pp. 209-210).
La comunità veneziana di Palermo continuò a fiorire nei secoli seguenti, entrando in concorrenza e, talvolta anche in conflitto, con altri mercanti stranieri che operavano in Sicilia. Nel 1460, i legati del comune di Palermo, nelle more del consueto giuramento di fedeltà al re Giovanni d’Aragona, presentarono diverse suppliche, tra le quali, la richiesta di intervenire per dirimere una delle tante controversie che sorgevano tra i commercianti stranieri, con conseguenti danni all’economia dei regnicoli. I mercanti veneziani, ritenendosi danneggiati dalla concorrenza di quelli iberici, provenienti dalla Catalogna, e non avendo ricevuto alcun indennizzo, per rappresaglia, imposero una serie di gabelle e di imposte: «per certi damni, Ki loru dìchinu haviri patùtu di la Nationi Catalana, & havi tantu tempu Ki tali asserti damni dìvinu essiri ja satisfacti» (cfr. M. De Vio, Felicis et Fidelissimæ Urbis Panormitanæ selecta aliquot ad  civitatis decus, et commodum spectantia privilegia per instrumenta varia Siciliæ etc., Panormi MDCCVI, p. 347).
Per quanto riguarda Termini Imerese, il primo indizio della presenza veneziana risale al 1327, quando è attestato che i mercanti di tutte le «nazioni» (nationes), cioè provenienti al di fuori del «Regno di Sicilia», compresi quelli delle quattro repubbliche marinare, vi ebbero strutture di accoglienza (fondaci) stabili (cfr. V. Cusumano, Storia dei banchi della  Sicilia. I Banchi privati, Loescher, Roma 1887). Ricordiamo che la rilevanza e la funzione dei fondaci veneziani trecenteschi nel quadro del fiorente commercio mediterraneo è stata ampiamente tratteggiata da Freddy Thiriet nel suo articolo scientifico, Les Vénitiens à Thessalonique dans la première moitié du XIVe siècle (in: «Byzantion», 22, 1952, pp. 323-332), attraverso l’emblematico caso di studio relativo alla greca Tessalonica, importante scalo egeo.
Carmelo Trasselli attesta che verso la fine del medioevo (1489-90) a Termini Imerese giungevano navi di varia provenienza e stazza: caravelle, veloci sagitte o saette, galeazze venete e francesi, nonché barche provenienti dai porti spagnoli della Biscaglia (cfr. C. Trasselli, Porti e scali  in Sicilia dal XV al XVII secolo..cit., p. 275). Del resto, Bernard Doumerc ha evidenziato la rilevanza assurta dalle  grandi imbarcazioni mercantili, nella grande rete del commercio marittimo veneziano (cfr. B. Doumerc, Le galere da mercato, in A. Tenenti-U. Tucci, a cura di, Storia di Venezia, Temi, Il Mare,  Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991, pp. 357-395).  
A Venezia, come in ogni sua colonia, dal Mediterraneo al Mar Nero, il vessillo di S. Marco, esibente il leone alato col libro aperto e la spada, era il simbolo tangibile della Serenissima, sul quale si pronunciava il consueto giuramento di appartenenza e fedeltà: «Ti co’ nu, nu co’ ti» (Tu con noi, noi con te). A S. Marco era altresì dedicato l’unico ordine cavalleresco veneziano (cfr. R. Bratti, I cavalieri di S. Marco,  Visentini, Venezia 1898, estratto da «Nuovo Archivio Veneto», XVI, II).
In ogni insediamento coloniale veneziano, come quello precitato di Palermo, era presente un luogo di culto (un oratorio, una cappella o una chiesa), intitolato a S. Marco, proprio della «Natione Venetorum». A Termini Imerese, sin dalla fine del XV secolo, è attestato il culto di S. Marco Evangelista, ma allo stato attuale delle ricerche, non è possibile documentare alcun legame con la locale comunità di immigrati provenienti dalla Serenissima.
Nel 1498, su iniziativa del termitano padre maestro fra Giacomo di Leo, minore conventuale, sorse la chiesa e monastero di S. Chiara sotto il titolo di S. Marco Evangelista, sul sito dell’ex sinagoga ebraica (Meskita iudeorum), lungo l’asse della «Strada dei Barlaci» (Ruga Barlachiorum), oggi Via Garibaldi.
Il sac. termitano Giovanni Andrea Guarino, nel suo Libro in cui si descrive l’antichità del Venerabile Reclusorio delle Donzelle Vergini sotto titolo del Principe della chiesa Cattolica S. Pietro, olim Monistero di S. Benedetto Abbate, progresso e stato presente; incominciando dall’anno 1443 fin’al 1759 (manoscritto del 1759, che si conserva nella Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese ai segni AR e α 11), riferisce che l’antica chiesa quattrocentesca di S. Marco Evangelista «era situata, ove al presente v’è l’infermeria delle Religiose restando per segno al di fuori una Croce di pietra attaccata alle fabbriche». Tale «Croce di pietra» è tuttora visibile nel prospetto dell’ex monastero, in corrispondenza dei locali che ospitano la Biblioteca comunale Liciniana.
Dalla primitiva chiesa di S. Marco è plausibile ritenere provengano le due gemelle acquasantiere lapidee (attribuibili agli inizi del XVII sec.) che si connotano per l’elegante accostamento cromatico tra i rossastri leoni stilofori, maestosamente assisi, e la sovrastante grigiastra pila a conchiglia, ancor oggi visibili all’entrata laterale della chiesa settecentesca di S. Marco.
Ricordiamo che l’arte veneziana si è ampiamente appropriata del simbolo del leone quale emblema di S. Marco, rappresentandolo ripetutamente con funzione chiaramente propagandistica della Serenissima. A tal proposito, ci sembra emblematica la coppia di leoni che si attribuisce allo scultore veneziano Giovanni Bonazza (1654-1736), scolpita nel 1722 utilizzando un calcare marnoso rossastro a vene di calcite spatica e collocata nella «piazzetta dei leoncini», sita presso la  celebre basilica di S. Marco.
Una maggiore certezza della presenza veneziana a Termini Imerese nei secoli XVI e XVII si evince dai dati documentari che riportiamo qui di seguito.
All’interno del più antico registro di battesimi (1542-48), conservato presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese (d’ora in poi AME), abbiamo scoperto un atto che comprova la presenza nella cittadina di un esponente della casata nobiliare dei Dandolo, una delle più importanti di Venezia. Questa celebre famiglia, documentata sin dalla fine dell’VIII secolo d. C., annoverò quattro dogi: Enrico (1192-1205), Giovanni (1280-89), Francesco (1329-1339) ed Andrea (1343-1354).
Il 29 novembre 1545, tal Nicolò Antonio Dandolo è attestato a Termini Imerese, essendo padrino di battesimo di «Diranza» figlia di Bartolomeo Di Landro. L’altro testimone, Pietro Badamo, appartenne certamente all’omonima casata nobiliare termitana, documentata nei secoli XV e XVI con i titoli di «nobile» e di «magnifico». Per quanto riguarda la madrina, Filippa L’Angelica, che appare citata frequentemente negli atti di battesimo, dovette essere una perpetua.
Esponenti della famiglia Di Landro, alla quale appartenne il detto Bartolomeo, sono attestati a Termini Imerese con il titolo di «mastro», che designava gli artigiani aventi una propria bottega con apprendisti e lavoranti alle proprie dipendenze. I Di Landro erano, infatti, abili costruttori di botti, attività artigianale particolarmente richiesta e redditizia, sita presso il lido, nella «strada di S. Bartolomeo» (Ruga Sancti Bartolomei), poi detta «dei Bottai» ed infine intestata a Giuseppe Salemi-Oddo. Possiamo quindi concludere che l’estensore dell’atto è stato molto essenziale, omettendo completamente i titoli delle persone menzionate.
Negli anni 70′ del Cinquecento, da Venezia giungevano a Termini Imerese pregiati panni, che si smerciavano nelle botteghe di venditori di stoffa e che, puntualmente, si rinvengono citati  negli atti di compravendita stilati dai notai locali. A titolo di esempio, rammentiamo che il 13 novembre 1570 il nobile Francesco Lo Giudice, cittadino di Termini, ma oriundo dalla Liguria, per il prezzo di onza 1 e tarì 22 vendette al magnifico Blasco Lomellino suo concittadino, una certa quantità di panni veneti neri (Archivio di Stato di Palermo, sezione di Termini Imerese, atti di notar Matteo de Michele di Termini Imerese, registro, vol. 13018, 1570-71, numerazione illeggibile).
Verso la fine del Cinquecento è attestata a Termini Imerese la figura del console della «nazione veneta», i cui compiti precipui, ben codificati, oltre a quello di tutela degli interessi commerciali dei propri connazionali e dei loro eventuali eredi diretti, riguardava anche l’amministrazione dei beni della locale colonia veneziana, l’incarico di riscuotere tributi nonché di dirimere eventuali vertenze legali (cfr. A. Trampus, La formazione del diritto consolare moderno a Venezia e nelle Province Unite tra Seicento e Settecento, «Rivista di storia del diritto italiano», 67, 1994, pp. 283-319).
Nel registro dell’anno 1589-90 degli «Atti dei Magnifici Giurati della Splendidissima e Fedele città di Termini» (d’ora in poi AMG), si conserva la lettera patente, datata 25 agosto 1590, con la quale venne conferito ad un rappresentante locale il consolato della «nazione veneta» (consolatus venetiarum nactionis), al fine di tutelare gli interessi dei mercanti veneziani residenti o «degenti» nella cittadina imerese, che costituivano il cardine della colonia.  Il documento, infatti, ci informa che Mariano Spatafora «Nobile Veneto e Console generale dell’inclita Nazione veneta», cioè dei veneziani «residenti et in qualsivoglia modo confluenti in questo regno di Sicilia», diede tale carica al Magnifico Giovanni Tommaso de Anfuso di Termini, con tutti i relativi privilegi e prerogative (cfr. AMG, 1589-90, ms. Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese, ai segni III 10 A 15, senza numerazione). Da notare che il detto Giovanni Tommaso de Anfuso-Lomellino, appartenente ad una nobile casata termitana di antica ascendenza ligure, in quanto console di Venezia, dovette avere a Termini una propria sede ufficiale ed essere coadiuvato da un apposito ufficio di cancelleria con funzionari subalterni alle sue dipendenze (notaio, segretario, scrivano etc.).
La Sicilia, come sottolineato da Ferdinand Braudel (1902–1985), nella sua fondamentale opera La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II (Colin, Paris 1949, vol. II, p. 275 e 306), ancora nel Seicento continuò a svolgere il suo ruolo principe di «isola del grano» e, pertanto, Termini Imerese, con il suo Caricatore, mantenne la funzione di rilevante scalo cerealicolo. Pertanto, in tale secolo continuarono i traffici commerciali non solo tra la cittadina imerese e la Serenissima, ma anche con i residui possedimenti veneziani nel Mediterraneo orientale (detti d’Oltremare). A tal proposito, è significativo quanto si legge in un atto di morte, addì 1° aprile 1652, annotato nei registri della Maggior chiesa di Termini Imerese (cfr. documento n. 2), dove è menzionato un tal «Antonino La donna dello stato venetiano di levante» che, trovandosi nel convento dei padri predicatori sotto il titolo di S. Vincenzo Ferreri, dopo la confessione, il viatico e l’estrema unzione, passò nel mondo dei più e fu sepolto nella chiesa del detto ordine.
A nostro avviso, il «(La) Donna» riportato nel documento non è altro che un’erronea «sicilianizzazione» del cognome veneziano Donà (cioè Donato). Da notare che, quello che nell’atto termitano del 1652 è designato come «lo stato venetiano di levante», in realtà non era che un piccolo barlume dei precedenti domini della Serenissima nel Mediterraneo orientale (cfr. M. Georgopoulou, Venice’s Mediterranean Colonies: Architecture and Urbanism, Cambridge University Press, Cambridge 2001), progressivamente erosi dagli ottomani, ormai ridottisi alle isole di Lemno e Tenedo (entrambe perse nel 1657), nonché Creta (caduta nel 1669). Venezia passò al contrattacco con la cosiddetta «guerra di Morea» (1684-1699), recentemente tornata alla ribalta grazie a nuovi studi e ricerche storiche (cfr. M. Infelise – A. Stouraiti, a cura di, Venezia e la guerra di Morea. Guerra, politica e cultura alla fine del ‘600, Franco Angeli, Milano 2005). Venezia riuscì a conquistare il Peloponneso fino all’istmo di Corinto, compresa l’isola di Egina, domini che vennero meno nel 1715 (cfr. B. Arbel, Colonie d’Oltremare, in A. Tenenti – U. Tucci, a cura di, Storia di Venezia…cit., pp. 947-80).
Tornando al Donà, è noto che all’interno di questo casato veneziano si distinguevano due rami: i «dalle Tresse», ed i «dalle Rose». Secondo Francesco Schröder (Repertorio genealogico delle famiglie confermate nobili e dei titolati nobili esistenti nelle provincie venete, Alvisopoli, Venezia 1830, ad vocem) nel 1476, un Antonio Donà, capostipite del ramo «dalle Rose», avrebbe preso tale designazione (poi estesa ai discendenti) per aver ricevuto da papa Sisto IV (Francesco della Rovere, 1471- 1484) l’onorificenza di cavaliere nella basilica vaticana in uno con il singolare dono della «rosa d’oro». I Donà dalle Rose diedero nome al ponte ed al palazzo nobiliare omonimo, di cui fu posta la prima pietra dal doge Leonardo Donà, il 24 marzo 1610 (cfr. G. Tassini, Curiosità veneziane ovvero origini delle denominazioni stradali di Venezia, 2a edizione, Grimaldo, Venezia 1872, ad vocem). Tre furono i dogi che appartennero ai Donà: Francesco (1545-1553), Leonardo (1606-1612), e Nicolò (1618).
Questa facoltosa casata è stata oggetto di un approfondito studio da parte di James C. Davis che ne ha delineato le plurisecolari fortune (cfr. J. C. Davis, A Venetian Family and its fortune, 1500-1900. The Donà and the conservation of their wealth. In: «Memoirs of the American Philosophic Society», 106, Philadelphia, 1993).
Ancora un ulteriore dato documentario emerge tra le carte dell’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese: un atto di battesimo della seconda metà del XVII secolo che attesta i legami familiari intercorsi fra tre grandi casate nobiliari: Moncada, Pio Savoia e Contarini.
Forniamo qui di seguito alcune notizie genealogiche delle tre famiglie predette, rimandando il lettore alle rispettive voci dell’Enciclopedia Storico – Nobiliare Italiana di Vittorio Spreti (vol. 6 + 2 app., Milano 1932), per ulteriori approfondimenti.
I Moncada, nobili siciliani d’origine spagnola, possedettero numerosissimi ed importantissimi feudi, dividendosi poi nei rami di Valsavoia e di Paternò e sono stato oggetto di studi approfonditi (cfr. Lina Scalisi, a cura di, La Sicilia dei Moncada: le corti, l’arte e la cultura nei secoli XVI-XVII, Sanfilippo, Catania 2006). Nel XVII secolo, un ramo della casata risiedette a Termini Imerese, tanto da essere inserita al n. 62 dell’elenco (Mastra) delle famiglie nobili, riportato dallo storico Vincenzo Solito, nella sua opera Termini Himerese Città della Sicilia posta in teatro etc. (tomo II, Bisagni, Messina 1671, pp. 154-157).
I Pio, signoreggiarono su Carpi (1319-1525) nel modenese, come testimonia la loro residenza fortificata, costituita da un’aggregazione di strutture di varie epoche, dal medioevo al Seicento. Marco e Luigi Pio, per adozione, ebbero conferito da Ludovico di Savoia (detto il Generoso, 1440-1465), con diploma dato a Torino il 27 gennaio 1450, il privilegio di utilizzare il cognome e l’insegna sabauda.
I Contarini, infine, furono un’antichissima e prestigiosa famiglia di Venezia, compresa tra le dodici dette «apostoliche» che, secondo la tradizione, avrebbero eletto il primo doge (697 d. C.).  Nei secoli seguenti, ben otto esponenti dei Contarini ebbero il titolo dogale. 
Vediamo, dunque, ciò che riporta l’atto di battesimo in questione (cfr. documento n. 3): il 13 settembre 1686, a Termini Imerese nacque Giovanni Moncada, figlio del duca di S. Giovanni, don Ferdinando Moncada, e di donna Margherita Pio di Savoia. Padrino del rampollo di casa Moncada fu «l’Illustrissimo, et Eccellentissimo Signor» Domenico Contarini «Cavaliero Venetiano» (che, non potendo essere presente, fece procura in favore dell’abate don Alvaro de Moncada, agli atti del notar veneziano Antonio Braino fu Vincenzo, rogati in Padova addì 10 giugno 1686), mentre madrina fu «l’Illustrissima ed Eccellentissima Signora Donna» Giovanna de Moura e Moncada, moglie del detto Contarini, che a tal fine delegò (agli atti del predetto notaio)  donna Luisa de Moncada  Principessa di Butera.
La documentazione da noi scoperta, pubblicata qui per la prima volta, costituisce una pagina di storia sinora dimenticata, recuperata oggi alla memoria, nonché una testimonianza tangibile dei vicendevoli plurisecolari contatti attraverso l’importantissima rotta marittima Venezia-Termini Imerese.
Patrizia Bova e Antonio Contino

Ringraziamenti: vogliamo esprimere la nostra riconoscenza, per l’indispensabile supporto logistico nelle ricerche, rispettivamente, ai direttori ed al personale della sezione di Termini Imerese dell’Archivio di Stato di Palermo e della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese. Un ringraziamento particolare va a don Antonio Todaro per averci permesso di effettuare delle fondamentali ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese.

Documento n. 1
Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Battesimi, vol. 1, f. 68r n. 8.

Eode[m] [29 novembre 4a indizione 1545] lu ditto [presti gaspano crixiuni] b[attizzò] la f[iglia] dj bartulu dj landro / n[omin]e djranza li co[m]parj petro badamo et colantonj dandolo la com[m]arj ph[ilipp]a laingelica [sic, L’Angelica]

Documento n. 2
Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Defunti, vol. 97 f. 91r, 1° aprile 1652.

A di d
[ett]o [primo Aprile Ia Indizione 1652] / Antonino La donna dello stato venetiano / di levante nel convento di s[an]to Domenico / rese l’anima à [sic] Iddio si confessò al p[ad]re / Fra Pietro currao del Ordine di Predica/tori hebbe [sic] il s[antis]s[i]mo viatico dà [sic] Don Ber/nardo castrogiovanni et l’extrema un/tione da don giuseppe pirrello, e fù [sic] / sepolto nella chiesa del sudetto conventi [sic] / p[er] il clero di n[os]tra chiesa mag[gio]re.

Documento n. 3
Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Battesimi, Consolazione, 1685-97, vol. 49 f. 31v n, 3, 14 settembre 1686.
Il m[ol]to Ill[ustr]e, et m[ol]to R[everen]do Sig[no]r d[otto]r d[on] Filippo mascellino Ar/ciprete d[i] q[ue]staCittà [sic] di Termine [sic] battezò [sic] lo [sic] bambino nato / hieri [13 settembre 10a Indizione 1686] dall’Ill[ustrissi]mo, et Eccellentis[si]mo Sig[no]r D[on] Ferdinando / de Moncada duca di San Giovanne [sic], e dall’Ill[ustrissi]ma, / et Eccellentis[si]ma Sig[nora] D[onna] Margarita, pio de Savoya, / m[ari]to e mog[li]e. Se l’impose nome, Giovanne, Dom[eni]co, /  Ant[oni]o, Gisberto, Ignazio, Aloisio, Alvaro Francesco, / Baldassare, Giuseppe,  li pad[ri]ni l’Ill[ustrissi]mo, et Ecc[ellentissi]mo / Sig[no]r Domenico contarini Cavaliero [sic] Venetiano / in persona dell’Ill[ustrissi]mo, et R[everendissi]mo Sig[no]r Abbate d[on] Al-/varo de moncada come p[er] procura nell’atti di / Not[ar] Ant[oni]o Brajno del q[uon]d[am] Vincenzo Venetiano data / in Padoa sotto li Dieci giugno 9a Ind[ition]e 1686, e / l’Ill[ustrissi]ma, et Ecc[ellentissi]ma Sig[nora] D[onna] Giovanna [sopra rigo: de] maura [sic, Moura], e moncada mog[li]e d[i] d[ett]o Sig[no]r Contarini in persona / dell’Ill[ustrissi]ma, et Ecc[ellentissi]ma Sig[nora]  D[onna] Aloisa de moncada / Principessa di butera come p[er] procura in  d[ett]o Not[a]r / in d[ett]o Giorno.