Termini Imerese, un mulino a vento tra S. Caterina e S. Giovanni nel Cinquecento

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Il mulino a vento è un dispositivo di conversione dell’energia eolica in meccanica per mezzo di vele montate su di un asse rotante (albero del vento) che direttamente, o attraverso degli ingranaggi appositi, imprime il moto a vari impianti (per la macinazione, la raffinazione, l’estrazione etc.). Il vento è una fonte energetica rinnovabile ad emissioni zero che permette la produzione di energia pulita ed ecosostenibile.

La più antica attestazione documentaria, sinora nota, della tecnica molitoria ad energia eolica risale al VIII sec. d. C. Tuttavia, non ci sono pervenute fonti coeve e la prima menzione si deve all’annalista persiano Ṭabarī (Amul, Mazandaran, 839-Baghdad 923), nella sua opera «Storia dei profeti e dei re» (Taʾrīkh al-rusul wa l-mulūk). In essa, lo storico musulmano riferisce che il califfo Omar I fu ucciso da un tecnico persiano che era stato fatto schiavo, Abū Lu’lu’a, adiratosi per il rifiuto di togliere l’esosa tassa (kharāj) giornaliera; l’artigiano avrebbe affermato, tra l’altro, di essere in grado di costruire mulini mossi dal vento (cfr. J. Needham, Science and Civilization in China, Vol. 4, Physics and Physical Technology, Pt. 11: Mechanical Engineering, Cambridge University Press, London 1965, pp. 556-560).

Il geografo e storico Al-Mas’udi (c. 956 d.C.) nella sua opera «Prati d’oro e miniere di gemme» (Murūj aḏ-Ḏahab wa-Maʿādin al-Jawhar) riferisce una versione leggermente differente nella quale il califfo aveva chiesto all’artigiano Abū Lu’lu’a se fosse lui quello che si era vantato di poter costruire un mulino mosso dal vento, ricevendo come risposta: «in nome di Dio, costruirò questo mulino di cui parlerà il mondo» (cfr. H. E. Wulff,  The Traditional Crafts of Persia, Their Development, Technology, and Influence on Eastern and Western Civilization, Massachusetts Institute of Technology, Massachusetts Institute of Technology Press, Cambridge, Massachusetts 1966, 404 pp., in particolare, pp. 284-289).

Lo storico della tecnologia, Robert Forbes (Breda, 21 Aprile 1900 – Haarlem, 13 Gennaio 1973), ha evidenziato come il mulino a vento, inizialmente dispositivo esclusivo dell’Iran e dell’Afghanistan, nel Dodicesimo secolo divenne un’importante fonte di energia in tutti i territori islamici, passando dall’originario uso per la macinazione dei cereali o per l’emungimento da corpi idrici superficiali o sotterranei, agli opifici di macinazione delle canne da zucchero e altri scopi “industriali” (cfr. R. J. Forbes, Man, the maker. A history of Technology and Engineering, Schuman, New York 1950, 356 pp., nello specifico, p. 93 e segg.).

I mulini a vento di tipo persiano sono attestati dal viaggiatore e geografo Muḥammad al-Idrīsī (forse Ceuta 493 dell’Egira/1099-1100 – Sicilia, c. 560/1164-1165) nella sua opera «Libro del sollazzo per chi si diletta di girare il mondo» (Kitāb nuzhat al-mushtāq fī ikhtirāq al-āfāq), chiamata anche il «libro di Ruggero» (Kitāb Rujār o Kitāb Rujārī), completata verso il 1154, dove riferisce di quelli della regione di  Sid̲j̲istān (o Sīstān), oggi suddivisa tra Iran ed Afghanistan sud-occidentale: «Non vi cade mai della neve, ma vi soffiano dei venti forti con una tale continuità che, per macinare il grano, vi hanno costruito dei mulini mossi da questa forza» (cfr. Géographie d’Édrisi traduite de l’arabe en français d’âpres deux manuscrits de la bibliothèque du roi et accompagnée de notes par P. Amédée Jaubert, Imprimerie Royale, Paris M DCCC XXXVII, p. 443, traduzione nostra).

Anche il geografo al-Dimashqi (1256–1327) nella sua opera «Passaggio del tempo letteralmente scelto riguardo alle meraviglie della terra e del mare» (Nukhbat al-dahr fī ʻajāʼib al-barr wa al-baḥr), completata nel 1300, cita i mulini a vento della regione di Sīstān (cfr. H. E. Wulff,  The Traditional Crafts of Persia….cit.). Si trattava di mulini ad asse verticale. La struttura muraria disposta su due piani esibiva superiormente le macine che erano mosse da un rotore ad asse verticale posto inferiormente. Il rotore era costituito da un palo verticale ornato da raggi costituiti da un certo numero di nervature verticali, ciascuna ricoperta longitudinalmente di tela per formare vele separate, efficacemente capaci di catturare il vento. Ogni parete era provvista di un’apertura, sfalsata rispetto all’altezza del rotore, con il suo margine smussato, in modo da convogliare opportunamente il vento proveniente da qualsiasi direzione.

I mulini di tipo persiano, ancora esistenti e funzionanti da tempi plurisecolari, chiamati localmente Asbad, sono costituiti da strutture a due piani (con una disposizione ribaltata rispetto a quella testimoniata in precedenza, tanto da esibire inferiormente le macine, superiormente l’apparato movente), riunite in un impianto complesso collocato opportunamente in una unica area. Esempi spettacolari sono quelli della regione di Nashtīfan nel nord-est dell’Iran, dove spira un vento forte costante e prolungato (Shamal). Ogni mulino esibisce otto ambienti fissi (costituiti da un impalcato ligneo con tramezzi di ṭawb, miscela di argilla e paglia), di cui ciascuno ospita un albero verticale centrale, sul quale sono infissi a raggiera dei puntoni orizzontali che reggono sei strutture verticali costituite da assi di legno appaiate a formare una sorta di palette (generalmente mosse dal vento attraverso aperture diametralmente opposte). Il movimento della struttura eolica aziona direttamente una coppia di mole lapidee da macina, una convessa e l’altra concava, senza la necessità di alcun ingranaggio intermedio.

Per una descrizione estremamente dettagliata di un mulino persiano (nello specifico di Nehbandan, Khorasan meridionale, Iran) e relativa bibliografia aggiornata, cfr.  M. Zarrabi, N. Valibeig, 3D modelling of an Asbad (Persian windmill): a link between vernacular architecture  and mechanical system with a focus on Nehbandan windmill, “Heritage Science”, 2021, 9, 108,  https://doi.org/10.1186/s40494-021-00587-0.

In occidente, nel medioevo si sviluppò l’uso dei mulini ad asse orizzontale anziché verticalmente come nel modello persiano che si diffuse in Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda e stati iberici (con le relative pertinenze italiane). Lo schema cruciforme delle loro vele si diffuse e prevalse per oltre 700 anni, dal Dodicesimo al Ventesimo secolo.

Il modello europeo di mulini a vento ad asse orizzontale che ebbe maggiore successo e diffusione fu quello, detto Kinderdijk in Olanda, caratterizzato da una struttura portante fissa a forma di torre, che utilizza dei meccanismi semplici per la tenuta delle vele ed il trasferimento dell’energia eolica alle macine, grazie ad una struttura mobile in cima, che porta le vele, capace di ruotare su apposite guide.

L’ingegnere Hugh Pembroke Vowles (1885 in Pembroke, Wales – 1951 in “The Leaze”, Oxlynch, Stonehouse, Gloucestershire, England) fece molte ricerche sull’impiego dei mulini a vento, da quelli persiani sino a quelli diffusisi nel continente europeo, dal medioevo all’età moderna, focalizzando soprattutto sul punto di vista della storia della tecnologia applicata all’energia eolica (cfr., ad es., H. P. Vowles, An Enquiry into Origins of the Windmill, “Transactions of the Newcomen Society – The International Journal for the History of Engineering & Technology”, Vol. 11, Issues 1, 1930–31, pp. 1-14, in particolare, pp. 7-8). Lo storico del medioevo Edward J. Kealey ha sostenuto il pionieristico ruolo dei mulini a vento nell’Inghilterra anglo-normanna del Dodicesimo secolo, sostenendone il loro ruolo di vera e propria «rivoluzione tecnologica» e ritenendo alquanto dubbiosa, se non inconsistente, la presunta influenza dei mulini persiani su quelli europei (che egli non esita a ritenere «unici»), tanto che sarebbero stati i crociati ad introdurre la tecnica in Palestina [cfr. E. J. Kealey, Harvesting the Air: Windmill Pioneers in Twelfth-Century England, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, California 1987, 320 pp., in particolare, pp. 11-12 e cap. II).

Gli studiosi inglesi hanno anche affrontato nel dettaglio le ricadute, legate all’uso dell’energia eolica creata dai mulini a vento, nella storia dell’economia delle isole britanniche (cfr., ad es., J. Langdon, Water-Mills and Windmills in the West Midlands, 1086-1500, “The Economic History Review”, New Series, Vol. 44, No. 3, August 1991, John Wiley & Sons, Inc., 1991, pp. 424-444)

Lo storico inglese Roy Gregory, grande sostenitore della conservazione dei mulini a vento, ha messo in evidenza come in Inghilterra queste macchine eoliche furono utilizzate in maniera alternativa rispetto agli usi più consueti (macinazione del grano in farina e, in alcuni luoghi, per estrarre acqua da falde idriche relativamente superficiali), anche per oltre venti usi “industriali”. Infatti, commercianti e produttori avevano ingegnosamente utilizzato queste macchine eoliche per l’estrazione e la lavorazione di materie prime grezze, la fabbricazione di merci, la frantumazione di semi oleosi, il taglio del legname, la macinazione del tabacco da fiuto etc. Lo studioso ha descritto in maniera particolareggiata i mulini ed i loro utilizzi, cercando di analizzare le motivazioni economiche che hanno indirizzato l’imprenditoria verso l’impiego dell’energia eolica rispetto ad altre fonti di energia (cfr. R. Gregory, The Industrial Windmill in Britain. Phillimore & Company, 2005, 148 pp.).

Lo stato dell’arte delle conoscenze sulla storia dell’uso dell’energia eolica nel passato è stato tratteggiato da M. J. Pasqualetti, R. Righter, P, Gipe, History of Wind Energy in C. J. Cleveland (ed.), “Encyclopedia of Energy”. Vol. 6, Elsevier, 2007, pp. 419-433].

Nell’immaginario collettivo europeo, i mulini a vento richiamano soprattutto quelli del nord Europa e, dell’Olanda in particolare, mentre in ambito mediterraneo sono famosi quelli della Spagna e, relativamente alla Sicilia, di Trapani.

Nell’Olanda meridionale, a 15 km da Rotterdam, sorge la comunità di Kinderdijk (comune di Molenwaard), dove sono presenti ben 19 mulini a vento inseriti nella lista del Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO (1997). Schiedam ha invece dei mulini a vento che raggiungono l’altezza di ben 30 m,

Lo scrittore, poeta, drammaturgo e militare spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra (alla nascita Miguel de Cervantes y Cortinas, Alcalá de Henares, Madrid, nato presumibilmente il 29 Settembre, battezzato il 9 Ottobre 1547 – Madrid, 22 Aprile 1616), nel capitolo VIII della sua opera El ingenioso hidalgo don Quixote de la Mancha (parte prima, de la Cuesta, Madrid 1605) ambienta la famosa avventura della battaglia di Don Chisciotte (al secolo Alonso Quijano) contro i mulini a vento, accompagnato dal fido scudiero Sancho Panza. Il detto capitolo, infatti, reca l’ampolloso titolo: Del buon successo che ebbe il valoroso don Chisciotte nella spaventosa e giammai immaginata avventura dei mulini a vento, con altri avvenimenti degni di felice ricordo (Del buen sucesso que el valoroso Don Quixote tuvo en la espantable, y jamas imaginada  aventura de los molinos de viento, con otros sucessos dignos de felice recordacion). I mulini di tale saga cervantesiana, ancor oggi presenti in questa regione spagnola della Castiglia-La Mancia, costituiscono una meta turistica di notevole valenza.

Nella Sicilia occidentale, e precisamente nella Riserva delle Saline di Trapani e Paceco, vi sono ancora i mulini sorti a servizio delle saline, i più noti nella nostra isola, che costituiscono un elemento paesaggistico peculiare. Sin dal Quattrocento vi sono attestazioni documentarie relative ai mulini nel Trapanese come quello voluto nella prima metà del secolo dal mercante catalano Giacomo Casanova di Barcellona, dimorante a Palermo (cfr. Salvatore Fodale, Casanova e i mulini a vento e altre storie siciliane, Quaderni della Biblioteca siciliana di storia e letteratura, Sellerio, Palermo1986, 96 pp.).

Veramente emblematico ed illuminante è ciò che scrisse il viaggiatore e geografo Muḥammad al-Idrīsī nella sua opera già citata in precedenza, dove menziona in Sicilia, sia pure indirettamente, la presenza di mulini della tipologia persiana che egli, aveva già menzionato in Oriente (Iran-Afganistan e Cina). Al-Idrīsī, infatti, attesta che a Calatubo nel Trapanese (di cui rimangono ruderi dell’antica fortezza nei dintorni di Alcamo) vi era una cava di pietra dalla quale si estraevano elementi lapidei utilizzati per realizzare macine molitorie di due distinte tipologie: ad acqua e «persiani», cioè a forza eolica (cfr. Idrisi, Il libro di Ruggero. Il diletto di chi è appassionato per le peregrinazioni attraverso il mondo, traduzione a cura di U. Rizzitano, Flaccovio, Palermo 1994, 124 pp., in particolare p. 44). Alla luce di ciò, tenendo conto della continuità d’uso, ci sembra alquanto plausibile ipotizzare che la tecnica dei mulini a forza eolica sia passata in Sicilia, pionieristicamente in Europa, con la dominazione musulmana, derivando dai territori persiani, dove è attestata, come abbiamo visto in precedenza, sin dal VII sec. d. C.

In ambito italiano continentale, ben nota è la citazione del sommo poeta Dante Alighieri (Firenze, 1265 – Ravenna, 1321) nel canto XXXIV dell’Inferno della Divina Commedia, che «tratta di Belzebù principe de’ dimoni», dove il Maligno viene paragonato ad un mulino a vento: «par di lungi un molin che ‘l vento gira».

Lo storico siciliano Antonino Giuffrida ha messo correttamente in evidenza che la scelta di impiantare dei mulini a vento piuttosto che ad acqua, dipendeva fortemente dalle favorevoli condizioni dovute alla presenza di venti di forza costante durante i vari mesi dell’anno (cfr. A. Giuffrida, Permanenza tecnologica ed espansione territoriale del mulino ad acqua siciliano (secoli XIV-XVI),  “Archivio storico per la Sicilia orientale”, vol. 69, Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale, Catania 1973, fasc. 2, pp. 193-215, in particolare, p. 206).  La ventosità specifica del sito veniva attentamente valutata attraverso osservazioni empiriche, mentre oggi si sarebbe provveduto ad una apposita campagna anemologica sito-specifica, istallando una stazione di misura sperimentale.

Dopo questa panoramica, entriamo nel vivo della documentazione relativa al mulino a vento di Termini Imerese ed alla sua ubicazione topografica in ambito urbano, ma in un’area a bassa densità abitativa, poco dopo la metà del Cinquecento, ancora caratterizzata da case in rovina (casaleni), spesso divenute giardini (xilbe), una situazione già attestata dai rogiti notarili del Quattrocento, forse retaggio degli eventi bellici e delle pestilenze del Trecento.

La scoperta dell’esistenza nel Cinquecento di un mulino a vento a Termini Imerese, risale alla prima metà degli anni 90’ del Ventesimo secolo,  grazie alle ricerche d’archivio di uno degli scriventi (cfr. A. Contino, Gli Schimmenti di Castelbuono e la contrada dei Mulinelli a Termini nel secolo XVI, “Le Madonie”, anno 75, n. 3, 15 Febbraio 1995, p. 3, Tip. “Le Madonie”, Castelbuono, Palermo). Il rogito cinquecentesco in questione, è inserito in copia nel Mazzo VI del fondo documentario manoscritto degli Atti della Comunia del Clero di Termini (d’ora in poi ACCT) che si conserva nella Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese (d’ora in poi BLT), f. 950 e segg. Il rogito è datato 24 Marzo IX indizione 1551 ed intervengono alla stipula, relativa ad una casa (della quale si descrivono i confini), Nicola Fayolo e Francesco Bonafede. L’atto notarile fa esplicito riferimento ad una precedente transazione agli atti di notar Sebastiano Bertòlo di Termini del 7 Febbraio IV Indizione 1546.

Il documento ci informa che il detto mulino a forza eolica era ubicato nella città di Termini (quindi intra moenia) nel luogo chiamato della «cortina» e, precisamente, nel «Piano del mulino a vento» (planum molendini di lo vento), limitrofo alla «strada grande», che conduceva alla chiesa di S. Caterina ed a quella di S. Giovanni Battista, sulla quale prospettava l’abitazione oggetto del rogito. La chiesa di S. Caterina aveva attiguo anche un suo giardino che doveva avere una certa estensione, tanto da essere chiamato Territorio (xilba seu Territorio). Siccome xilba/xirba  o chirba/ghirba deriva dall’arabo ḫirba ‘rovina’, ‘tugurio’ (cfr. R. Dozy,  Supplément aux dictionnaires arabe, 3e édition, Leiden-Paris, 1967, I, p. 356), vi dovevano essere dei ruderi di un grande edificio preesistente (poi divenuto giardino recintato) del quale, allo stato attuale delle ricerche, si ignora la funzione originaria.

Nel manoscritto anonimo, relativo alla Cappella del Santissimo Sacramento della Maggior Chiesa di Termini Imerese, intitolato Volume I di scritture diverse (ms. dell’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese,  d’ora in poi AME, sec. XV-XVII ai segni Aζ1, ai ff. 374 e  375), sono presenti altri due rogiti notarili del Cinquecento, che confermano ulteriormente l’esistenza a Termini Imerese di un mulino a vento (mulino di lo vento) nel periodo 1554-1559 (cfr. A. Contino, Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese (Sicilia centrosettentrionale), Giambra Editori, Termegrafica, Terme Vigliatore, Messina, 2019, p. 177).

Sostanzialmente, i due rogiti forniscono informazioni comparabili al primo documento, specificando che il detto mulino a forza eolica era ubicato nella «contrada di Santa Caterina ovvero (seu) della cortina (di la cortina)» e, precisamente, nel «Piano della cortina e del mulino a vento» (planum di la cortina et di lo molino di lo vento), limitrofo alla «strada grande» che dalla detta chiesa conduceva a quella di San Giovanni Battista.

Riepilogando, gli unici riferimenti topografici superstiti certi, citati nella descrizione presente nei predetti rogiti, sono la chiesa di S. Caterina d’Alessandria, che dava nome alla contrada, e quella di S. Giovanni Battista, della quale permane la torre campanaria ed altri ruderi all’interno del perimetro dell’attuale Villa comunale “Nicolò Palmeri”.

E’ ben evidente che il «Piano del molino di lo vento» e le strutture molitorie a forza eolica, erano collocate lungo la «strada grande», tra le due chiese precitate, ovviamente in un sito ben esposto ai venti. Sito che, possiamo presumere sia stato contiguo alla «cortina», che dava l’altro nome al quartiere di S. Caterina, cioè alle mura di cinta medievali che bordavano ed in parte secavano l’area di testata del vallone della Fossola. Strutture che, ben presto, con l’apertura dei grandi cantieri cinquecenteschi, sarebbero state rimaneggiate, o addirittura sostituite dalle nuove fortificazioni bastionate per essere rispondenti alle rinnovate tecniche belliche del tempo, nelle more delle nuove pianificazioni del perimetro urbano (realizzato nel 1556-1591) e di quello castrense (realizzato nel 1553-1580) che avrebbero pesantemente modificato l’abitato ed il territorio limitrofo (cfr. P. Bova, A. Contino, Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari: l’esempio della Rocca del Castello di Termini Imerese dall’Antichità al 1950, “Esperonews”, Lunedì, 14 Settembre 2020; Idem, Termini Imerese, attività militare ed evoluzione del paesaggio: l’esempio della “Rocca dell’Orologio antiquo” tra medioevo e Settecento, “Esperonews”, Domenica, 20 Dicembre 2020, on-line in questa testata giornalistica).

Fortunatamente, abbiamo a disposizione un quarto dato documentario, un atto di battesimo che, nonostante la sua essenzialità, ci apre uno ulteriore spiraglio su di un paesaggio urbano ancora non totalmente sconvolto dai successivi mutamenti antropici, talmente radicali da cancellarne indelebilmente ogni traccia.

Stiamo parlando dell’atto di battesimo di un infante trovatello (gittatello), al quale fu imposto il nome Santo, datato 28 Aprile VIII indizione 1565 (cfr. AME, Battesimi, Maggior Chiesa, vol. 4,  1563-1566, f. 56, citato in A. Contino, Aqua Himerae… cit., p. 177). Il documento ecclesiastico mette in luce anche le due piaghe che funestavano la società siciliana del Cinquecento: l’infanzia abbandonata e la schiavitù.

Da tale atto battesimale si apprende che il sacerdote (Presti) Nicola Russo (Njcolau russo) battezzò (b[attiau]) un bambino piccolo (in siciliano antico pichulu cioè pìcciulu, il cui vezzeggiativo è picciulìddu, donde piccilìddu/piccirìddu, e nell’atto si legge: uno pichiricto) e gli fu imposto il nome Santo (nomine Sancto).

Il bambino, evidentemente abbandonato, era stato ritrovato (si trovao) nel pubblico immondezzaio (al mo[n]diczaro), davanti (dava[n]tj) la casa (la cassa, sic) di un certo Lorenzo D’Angelo (di laurenczo dj angilo) ed al mulino a vento (a lo molino di ve[n]to. L’infante ebbe come padrino (lj patrjnj fujt) un certo Vincenzo Di Liberto (vinc[enti]o dj ljberto). Dall’atto si battesimo sembra evincersi che la madrina fu la donna che, avendolo ritrovato, lo portò (lu purtau) in chiesa e che era una schiava (una scava) del Signor Antonino Romano (di lo s[jgno]r ant[oni]no romano).

Il Piano del Mulino a vento, quindi, era limitrofo alla discarica pubblica a cielo aperto che, da altre fonti documentarie e da ulteriori dati geognostici, sappiamo era collocata proprio nella zona di testata del vallone Fossola incorporata nel perimetro urbano medievale.

Concludendo, il mulino a vento di Termini Imerese costituisce un interessante tassello che si inserisce nella tradizione molitoria siciliana. Quest’ultima, come abbiamo visto, si innesta a pieno titolo nel contesto della storia della tecnologia molitoria eolica poiché, secondo la testimonianza di al-Idrīsī, presenta legami d’origine con l’Oriente che, verosimilmente, risalgono alla dominazione araba nella nostra isola. Del resto, la Sicilia, nel corso dei millenni fu sempre crocevia mediterraneo di popoli portatori di innovazioni tecnologiche.
Patrizia Bova e Antonio Contino

Ringraziamenti: vogliamo esternare la nostra più sincera gratitudine, per l’essenziale supporto logistico nelle nostre ricerche e per la consueta disponibilità, rispettivamente, al direttore ed al personale della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese. Un ringraziamento particolare va a don Francesco Anfuso e a don Antonio Todaro per averci permesso di effettuare basilari ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese.