Sciara: “X Agosto”, il dolore e la solidarietà di Giovanni Pascoli a Leopoldo Notarbartolo

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Perchè tra Giovanni Pascoli e la Sicilia, nello specifico il territorio di Sciara, c’è un legame?

Il 1° febbraio del 1893, a bordo di un convoglio tra Termini Imerese e Trabia veniva barbaramente ucciso il Marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni e il suo corpo venne gettato subito dopo sui binari. Perchè?

Notarbartolo, sindaco di Palermo e direttore del Banco di Sicilia, aveva scoperto imbrogli e “intrallazzi” proprio all’interno della banca da lui diretta, il suo obiettivo era quello di evitare il collasso dell’economia siciliana, tappando tutte le falle che vi erano. All’interno del consiglio di amministrazione vi era Raffale Palizzolo, noto onorevole affiliato a cosa nostra di Palermo il quale ebbe diversi scontri con il marchese tanto che si pensa essere stato il mandante di un sequestro avvenuto proprio nel feudo della Mendolilla tra Sciara e Caccamo per il quale la famiglia

Notarbartolo pagò un riscatto di 50.000 lire. Avvennero tante cose nel periodo di reggenza del Notarbartolo al Banco di Sicilia e tutte atte alla sua destituzione o addirittura eliminazione. Venne definito la prima “vittima eccellente di mafia” perchè poi venne appurato, in tempi recenti che di questo si trattò. All’epoca le indagini furono depistate apertamente, il figlio del marchese, Leopoldo Notarbartolo di San Giovanni passò la sua vita a cercare giustizia e verità per il padre, ma trovò porte chiuse in faccia.

Dall’altra parte dellItalia, in Romagna, il grande poeta Giovanni Pascoli seppe di questo fatto e decise di scrivere a Leopoldo. Una lettera dal sapore amaro, ma al tempo stesso di solidarietà verso colui che considerava un “fratello nella sventura”. Pascoli infatti aveva perso il padre proprio il 10 agosto mentre tornava a casa dal lavoro, uomini incappucciati lo assalirono e lo uccisero mentre nel cielo le stelle cadenti di San Lorenzo illuminavano la notte, proprio come fosse una pioggia di lacrime. “Per questo verso, la mia è la sua storia. – scrive Pascoli – Al tempo del processo di Bologna, ebbi da una signora a me ignota una lettera nella quale mi confidava d’aver sentito esclamare: «L’assassinio Notarbartolo l’abbiamo avuto, molti anni sono, tale quale in Romagna! è l’assassinio del povero Ruggero Pascoli». Ecco perché, o mio sventurato fratello, in questo lugubre anniversario io le scrivo. Perché? Per consolarla! Ripeto a lei i pensieri che faccio tra me. Le dico, come mi dico, che è ineffabilmente meglio esser figli d’un assassinato che d’un assassino! Per Emanuele Notarbartolo e Ruggero Pascoli ancora oggi si grida verità, la stessa che per anni è stata negata alle famiglie spezzate dal dolore per la perdita di un padre, uno come tanti nel mondo che cerca di proteggere la propria famiglia. Per moralizzare un popolo ci vogliono delle vittime. Il sangue del padre e il dolore, tacito e virile, del figlio saranno utili al loro popolo”: è questa la vera speranza, che un giorno l’uomo si svegli da questo sogno che lo tiene ostaggio dei propri fantasmi.
Giovanni Azzara

IL TESTO DELLA LETTERA DI GIOVANNI PASCOLI A LEOPOLDO NOTARBARTOLO

Caro nobile cuore, è il 10 agosto. Leggo nei giornali che lei s’imbarca per andare alla sua nave nelle acque lontane. 10 agosto. Ho bisogno di scriverle, mio forte fratello nella sventura. Sono moltissimi anni (quasi tutti quelli della vita così più e così mesta della mia sorella) in questo giorno io perdei il mio padre. Fu assassinato nella strada del ritorno (da Cesena a San Mauro), poco prima di arrivare a Savignano, sulla sera, da due uomini (uomini?) in agguato, mentre solo solo sul calessino tornava, ripeto, alla sua famiglia; mia madre e otto figli! Tutta la famiglia fu spezzata, mia madre morì un anno e poco più dopo, tre fratelli più grandi di me morirono a non molta distanza; i superstiti quasi tutti o naufragarono nella vita o uscirono appena a riva, ma a una riva desolata, senza essersi potuti accompagnare per via … Eccoci qui noi due, il fratello rimasto il più grande e la sorella ch’era la più piccina; eccoci qui, soli soli, con non altra compagnia che un povero buon canino. La sorella era troppo misera per maritarsi, il fratello troppo tenero di lei per darle una dominatrice della casa, ch’ella mi pulisce e abbellisce da tanti anni! Eccoci qui soli soli, e non le so dire quanti siano stati e siano ancora gli strazi materiali e morali che abbiamo sofferto! Per quanto pensati e ripensati, se ci avviene di parlarne, ci fanno ancora piangere come se fossero stati sofferti da altri, non da noi. Tuttavia alla riva, per quanto desolata, siamo arrivati: ho cominciato ad avere una casa di mio, dalla quale, alla mia morte, la mia sorella-figlia non potrà essere scacciata, come sua madre da un’altra grande casa; ho un buono stipendio, ho un buon nome. Né però la fortuna mi si mostra, nemmen ora! benevola: per questa casa ho vendute le medaglie che m’ero guadagnate ad Amsterdam, il mio buon nome è stato anche poche settimane fa gettato nel fango dai dotti più famosi d’Italia; mi è stato, da chi meno avrebbe dovuto, fatto un insulto atroce davanti il figlio di quel re che io piansi con un inno di dolore e di gloria … Ma bisogna contentarsi. Io mi meraviglio sempre di trovarmi salvo, e, le giuro, quando siedo alla parchissima mensa, io ringrazio istintivamente qualcuno, che forse è Dio, che mi dia l’insperata gioia del pane quotidiano. E lo benedico di avermene dato assai anche per la mia sorellina, e anche per altri. Ma insomma, alla mia patria, alla giustizia e alla bontà della mia patria, devo ben poco – non devo nulla.

I due assassini, uno alto con la barba, l’altro piccolo coi baffi, furono veduti da due bambine … La polizia seppe, probabilmente, tutto; ma non volle approfondire. In Romagna c’era allora uno spirito di setta, dall’apparenza politica e dalla sostanza delinquente volgare, che era tal quale è la mafia, se non peggio. La polizia volle che l’orribile delitto rimanesse impunito. E così è rimasto. Quando, giunto a una certa età, volli scoprire qualche cosa io, trovai tutte le tracce disperse, tutte le voci confuse; trovai, è spaventoso dirlo, la polizia nemica, complice postuma. E rischiai la prigione, io!

Per questo verso, la mia è la sua storia. Al tempo del processo di Bologna, ebbi da una signora a me ignota una lettera nella quale mi confidava d’aver sentito esclamare: «L’assassinio Notarbartolo l’abbiamo avuto, molti anni sono, tale quale in Romagna! è l’assassinio del povero Ruggero Pascoli». Ecco perché, o mio sventurato fratello, in questo lugubre anniversario io le scrivo. Perché? Per consolarla! Ripeto a lei i pensieri che faccio tra me. Le dico, come mi dico, che è ineffabilmente meglio esser figli d’un assassinato che d’un assassino! Le dico, come mi dico, che è cosa da esaltare fino al delirio esser come siamo lei e io, forti e fedeli servi della patria nostra che non fece il suo dovere verso noi! Noi, o patria, la nostra opera e il nostro amore TE LO REGALIAMO, non te lo rendiamo, come devono gli altri. Oh! se un giorno di battaglia per il mare nostro e la nostra terra, ella avesse a cadere col nobile cuore squarciato sul castello di comando della sua nave! Quale profonda sovrumana sovradivina gioia dire, con l’ultimo grido o con l’ultimo respiro: GRATIS!

Ecco perché le scrivo. E poi c’è un’altra cosa. A Palermo fecero un comitato pro Sicilia, cioè pro Palizzolo. Mettiamo che tanti (ci ho visti certi alti nomi) credessero all’innocenza di quell’uomo. Ora hanno urlato EVVIVA, hanno delirato … Ma è sottentrato il silenzio. Silenziosamente il figlio della vittima s’è allontanato. Vedrai, caro fratello, che qualche cosa o qualcuno ora li abbrancherà al cuore … Una voce griderà loro: Dunque tutto ha da finir così? Griderà: Intendete che operare PRO SICILIA vuol dire scoprire gli assassini di quella pura e grande esistenza?

E intenderanno. Per moralizzare un popolo ci vogliono delle vittime. Il sangue del padre e il dolore, tacito e virile, del figlio saranno utili al loro popolo.

E con questa speranza l’abbraccia, amato fratello, il suo aff.mo

GIOVANNI PASCOLI

Castelvecchio di Barga, 10 agosto 1904