Caltavuturo: Aldo Cerrito, l’operaio che lavorò accanto ai grandi scultori italiani del Novecento

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Dopo iò secondo conflitto mondiale, il mondo era completamente cambiato. L’Italia usciva dall’isolamento determinato dal regime fascista e dagli anni della guerra.

I nuovi governi avviarono le riforme agrarie nelle zone più depresse del Paese, già ipotizzate nel progetto De Gasperi-Segni del 1949, ma  la legge che venne approvata assegnava ai contadini solo un terzo o metà delle terre promesse. La riforma divenne strumento di clientelismo elettorale per un decennio e non riuscì ad avviare nessun sistema economico produttivo locale. Alla fine degli anni ‘50, la coltivazione della terra perse il suo interesse e avvenne l’esodo verso le città che crescevano grazie al boom economico, l’industria e l’attività edilizia esigevano operai. Vi fu un massiccio trasferimento di lavoratori, dal Sud Italia verso i centri industriali del Nord. Torino, Milano, Genova. Anche la Svizzera, la Germania Ovest, la Francia e il Belgio furono meta di tanti nostri conterranei.
Aldo Cerrito è andato via giovanissimo dal suo paese nativo: Caltavuturo.
Era il 1950 quando mi avventurai in quel lungo viaggio, una valigia con pochi abiti, qualche arnese da lavoro utile per fare il fabbro o il muratore, la fiducia in una vita migliore e la certezza che il freddo e le differenza territoriali mi attendevano. Nelle mie tasche c’erano poche lire, bastevoli forse per una settimana di vitto, ma nel cuore avevo tanta speranza. Il viaggio l’ho fatto in treno, vagoni con posti a sedere.
Era inverno e la stazione di Termini Imerese era quasi deserta. Ad attendere quel treno ero solo, i parenti e gli amici li avevo salutati nei giorni precedenti e mia moglie era rimasta nella piazza da dove partiva quotidianamente l’unica corriera per la città.
Ricordo che era mattina presto, un lungo percorso tra i tornanti della strada provinciale a tratti non ancora asfaltati, una scia di polvere ci seguiva e su quel rigido sedile la mente correva su tristezze e amari ricordi, ma ero sicuro di trovare delle opportunità, una dimensione lavorativa per poter far crescere la mia la famiglia.
La stazione di Milano mi sembro grandissima, mi venne a prendere un caro amico e mi portò a casa sua dove per qualche giorno trovai ospitalità e poi fu subito lavoro, apprendista muratore. Trovai in prestito una vecchia bicicletta che tutte le mattine mi aiutò a raggiungere il cantiere. Il freddo, la nebbia, le piogge e  la brina mattutina lombarda erano inverosimili per noi meridionali, quel freddo non era comparabile in nessun modo con quello del paese.
Milano era un grande cantiere che si doveva ricostruire, ammodernare e gli operai non bastavano. Dopo qualche mese un nuovo amico mi invita ad andare a lavorare con lui in fonderia vicino allo storico cimitero di Milano: il Monumentale. Serviva un operaio che sapeva lavorare il ferro ma nello stesso tempo usare il cemento e così dopo un breve colloquio con uno dei titolari fui operaio della Fonderia Battaglia. La bicicletta la riposi nel sottoscala e usai il treno. Per i primi mesi lavorai solo nella fornace, nell’altro padiglione si saldava.
Quel lavoro mi piaceva e terminato il mio turno restavo ad aiutare nella cesellatura i colleghi, volevo imparare bene quel mestiere. Il caporeparto accortosi di ciò che facevo ne parlò con i titolari, ottenendo l’autorizzazione mi spostò: cesellare e lucidare furono i miei nuovi compiti. Per anni si lavorò quasi in modo industriale per tombini inferriate e materiale ornamentale civile poi pian piano le opere artistiche che si realizzavano superarono il civile. Si restauravano le sculture storiche e le prime nuove commissioni giungevano da grande ditte e da privati.
Gli anni milanesi del dopoguerra sono vibranti, le tecniche scultorie trovano nuove vie, varietà di materiali si combinano in  nuove forme che non trovano riscontro nei secoli precedenti.  L’Accademia di Brera è un polo di grande interesse per chi vuole fare arte e gli accademici  animano il mondo artistico di Milano e gli sviluppi dell’arte negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Le ricerche degli artisti, le aspettative della società e l’attesa del pubblico stimolano la sperimentazione che tiene sempre meno conto degli schemi noti, coinvolge lo spettatore rendendo l’opera interattiva e rappresentativa del quotidiano che cambia velocemente. La scultura o il quadro non sono più considerati  una statica-rappresentazione ma azione di un pensiero.  È un rapporto gestuale che l’artista sviluppa, un messaggio contenuto nell’atto, l’oggetto qualunque sia la sua forma non è più statico ma dinamico nell’ambiente, conquista lo spazio e interagisce con l’osservatore, l’opera diventa concettuale. Questo fenomeno non è limitato solo ai valori plastici ma anche ad altre discipline come la danza, la musica e il cinema. Gli artisti danno vita a nuovi segni e a nuove forme, si pongono l’obbiettivo di integrare tecniche, mezzi e comunicazione. Sono anni di ricerca e sperimentazione di modernità  di azzeramenti e progetti visionari che gettano nuove fondamenta a una nuova società urbana e per una nuova rappresentazione dell’arte visiva.
La  fonderia Battaglia  era la meta di tanti artisti, giungevano fin dalle prime ore del mattino, disegnavano e modellavano bozzetti sul posto. Si lavorava e il confronto era quotidiano per trovare soluzioni di staticità per opere di dimensioni importanti, per la risoluzione di un colore o del tono di lucidatura. La fiducia che  riponevano in noi era massima e non restavano mai a controllare l’esecuzione dell’opera, con affetto ricordo il maestro Bodini che era uno dei pochi a intrattenersi  di più perché amava condividere un caffè caldo con noi. All’inizio degli anni settanta i figli dei soci della Fonderia decisero di vendere, saremmo rimasti senza lavoro ma noi operai occupammo i locali, si cercarono accordi e strategie fra le parti per pagare i creditori,  liquidare tutti i dipendenti e completare le commissioni. E’ stato un duro colpo,  eravamo rimasti  solo in sei a credere in quel lavoro, era il nostro futuro. Trovato un nuovo finanziatore e associati in cooperativa,  richiamati alcuni operai, i più fidati, in meno di due mesi portammo a termine tutti i lavori arretrati. Per noi soci, ma sempre operai, la fonderia era la nostra casa; si mangiava insieme e sui forni accesi per mantenere certe temperature a  garanzia del processo della fusione  si preparava il caffè per tenerci caldi la notte: si condividevano sacrifici e gioie.
Ma il sacrificio veniva ben presto dimenticato quando l’opera era finita e l’artista si congratulava con noi. Di opere ne abbiamo fatte tante e tutti in modo artigianale, il famoso cavallo della Rai di Francesco Messina, il Cardinale in piedi di Manzù, la porta del Duomo di Milano di Castiglioni,  Paolo VI e la Porta Santa in San Giovanni in Laterano di Floriano Bodini, le sfere e i dischi di Arnaldo Pomodoro e le opere di Giò e ancora opere di Marino Marini, Minguzzi, Sassu, Vangi, Azuma, Colanzi, Delle Monache e non dimentichiamo quelle di Lucio Fontana  e tanti e tanti altri. Tutte opere nate dal genio di questi grandi maestri che hanno segnato e arricchito il patrimonio artistico e culturale italiano. Rappresentazioni plastiche che hanno segnato in modo indelebile l’innovazione e la contemporanea di fare Arte, e ancora oggi quando mi reco in una fonderia a parlare con i giovani artisti per dare qualche consiglio o insegnare delle tecniche di lavorazione trovo viva la presenza di questi Maestri che ho avuto la fortuna di conoscere e conservare nella mia memoria gentilezze, abitudini, difetti, pretese e generosità.
L’arte contemporanea e la bellezza delle opere che oggi ammiriamo e viviamo nei musei, nelle piazze e avvolte anche nelle nostre case, dobbiamo ricordare che passa dalle mani di  maestranze specializzate che con passione conservano la conoscenza dell’arte scultorea e della  fusione a cera persa. Una conoscenza millenaria che oggi può essere sostituita da moderne macchine che possono realizzare da un disegno tutte le forme richieste ma che non potranno mai raccontarci il travaglio di un opera e il vissuto che hanno questi abili operai chiusi in una fonderia tra fuochi, crete e sudore. I loro aneddoti e ricordi personali è il momento dolce della nascita di un’opera d’arte, l’idea dell’artista e il suo primo bozzetto, le mani di operai che realizzano anime e gessi si mescolano nel tempo e nel quotidiano per diventare racconti unici, così come è unico il racconto intimo che ha fatto oggi il  nostro conterraneo.
Grazie Maestro Aldo Cerrito, a lei e ai suoi cinque compagni di avventura per il vostro grande impegno per la nostra Arte Contemporanea.
Giuseppe Meli