Covid, perché si alla vaccinazione

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E’ innegabile che stiamo vivendo un periodo di necessità: il Covid continuamente ci mostra quanto la malattia sia mortale e, per quanto sia grande il numero dei morti, ancora mostra il suo sguardo insoddisfatto.

La sua virulenza sembra un banco di prova a dispetto della nostra vulnerabilità, tale da strapparci dalle mani persone che abbiamo amato e da rendere insignificanti cose che abbiamo considerato di assoluta importanza. Ogni attimo, la paura di ammalarci sconvolge la nostra vita e anche quella della scienza, poiché la medicina non ha ancora trovato una cura efficace contro il virus e i suoi frenetici viraggi, così da combatterli alla pari di altre malattie cui siamo abituati ammalarci. Allora, affida tutta la sua battaglia alla medicina preventiva ovverosia a una serie di accorgimenti, sia individuali sia medici, messi in atto, proprio al fine di evitare che il suo male colpisca il nostro organismo e, se colpito, almeno, subisca il minor danno possibile. E’ evidente che la logica della medicina preventiva sia l’anticipazione, in altre parole, il fare prima ancora che qualcosa accada e, poiché la guarigione si prospetta lontana, ci obbliga ad adottare un radicale cambiamento delle nostre abitudini quotidiane con lo scopo di limitare la diffusione del contagio. Ecco allora, obbligarci al distanziamento fisico, a usare mascherine, a chiudere attività lavorative e a intensificare le comuni norme igieniche. Non vi è alcun dubbio che oggi, questo atteggiamento obbligante, ci è intollerabile e ci spaventa poiché non in accordo con le libertà nel tempo acquisite e contro le quale nessuno ha intenzione di andare. Però, l’oggi immediato, rappresenta un momento critico, drammatico che ci costringe, di fatto, a vivere una condizione di Necessità, qui da intendere secondo la mitica figura di Anánkē, quale “ forza “ talmente potente che per dirla con Simonide << neanche gli déi combattono>> e,  a cui come proclamò la Sibilla nell’Oracolo delfico <<perfino, gli déi dovevano sottostare >>. In pratica, in uno scenario del genere che vede sia déi che uomini sottomessi alla potenza  di  Anánkē, di sicuro, non c’è spazio per volontà e libertà individuali. E ciò delinea appieno la potenza della dea greca e la fatalità del suo volere. Cose d’altri tempi, brandelli di mitologia greca, pensiamo; la cui lontananza ci consola, perché riteniamo storicamente impossibile il loro ripetersi. Ma non è così, perché colgo con attualità immutata tutto il peso oppressivo, inevitabile di Anánkē nel proverbio siciliano: << Calati junco chi passa la china>>. Andando oltre il semplice senso letterale, vuol dire che ci sono situazioni nella vita di ciascuno di noi, che riteniamo “ troppo grandi” , eccessive da cui non è possibile uscirne pur volendosi opporre con tutte le proprie forze. Questo dà all’individuo la sensazione di trovarsi di fronte ad una potenza che inesorabilmente lo sovrasta e che gli è rischioso se non addirittura fatale, forzare. Infatti, nessuno si sognerebbe affrontare una piena che gli s’impone davanti e inarrestabile sta trascinando tutto? E’ proprio per quest’aspetto devastante, di forza catastrofica, inquietante che trovo una straordinaria affinità tra la piena e la pandemia. Analogamente, ci troviamo di fronte a qualcosa più grande di noi, a un Anánkē che ci opprime, ci angoscia e a cui, come gli déi greci non possiamo far altro che “piegarci”. Sia bene inteso, però, che tale piegaménto lungi dall’essere una debolezza, segno di sottomissione, di resa o perdita di libertà acquisite; piuttosto, è il consapevole riconoscimento dei propri limiti, sguardo acuto su una situazione che non pone alternative. Per queste ragioni, nell’impossibilità di scelta, come si flette e si adatta il giunco, aspettando che passi la piena per poi rinsavire anche il nostro piegaménto assume la forma dell’attesa di un tempo migliore. Tuttavia, è chiaramente visibile a tutti che, dopo anni, ed è triste dire anni, i cambiamenti di stili di vita di ognuno di noi – ormai rigorosamente adottati – hanno apportato sì, un esito migliorativo ma non quello sperato: risolutivo. Che cosa fare allora, se i segnali intorno ci urlino che il virus circola e uccide ancora? La scienza s’interroga e sebbene si avventuri in ambiti di ricerca, risponde con quello che già sperimentalmente conosce: l’uso della vaccinazione. Spesso si sente dire: <<per spaccare una quercia ci vogliono pur sempre dei cunei dello stesso legno>> o, detto diversamente, per sconfiggere il nemico bisogna usare la stessa arma. La vaccinazione segue la medesima logica. Qui, per limiti di spazio, non entreremo nei dettagli specialistici dell’immunologia per spiegare i meccanismi di difesa che mette in atto il nostro organismo nel caso in cui sia aggredito da sostanze che riconosce estranee (nel nostro caso, virus Covid 19). Per questo motivo, ci limiteremo solo a tracciare, in modo sintetico, gli elementi che stanno alla base del modello vaccinale tradizionale. Una volta attenuato il virus lo si inietta nell’organismo dove, riconosciuto come un qualcosa di estraneo, di totalmente altro rispetto all’organismo stesso, sollecita il nostro sistema immunitario alla produzione di anticorpi che depotenziano il potere infettivo del virus, assicurando così una capacità di tenuta se non di aggressione qualora accada la malattia.  Non si può tuttavia sconoscere che con l’avvento delle innovazioni tecnologiche, le procedure di preparazione dei farmaci, nel tempo sono cambiate, tanto che, nello specifico sono stati prodotti vettori virali diversi che in termini di risposta immunitaria si sono dimostrati tutti di eguale efficacia. Anche se, la fulmineità dell’infezione e l’impietosa letalità (da rimandi guerreschi)  ha costretto la scienza medica a piegare il tempo della ricerca a quello della produzione di “nuovi” vaccini i cui effetti avversi,  per mancanza di tempo sperimentale, com’è ovvio, scarseggiano di informazioni. Queste insidie interessano, più o meno tutti i vaccini finora utilizzati, quindi nessuno, al momento, può farsi soverchie illusioni di occupare un posto privilegiato rispetto agli altri.  In pratica: tutti i vaccini vanno bene. Eppure accade, quantunque i tanti successi scientificamente comprovati dell’utilità della vaccinazione nel corso dei tempi, che esiste, ancora, tanto scetticismo nei confronti di questa pratica medica, tanto che qualcuno, non accetta di sottoporsi a quella Anticoravisus. Ovviamente qui non si tratta di stabilire chi ha torto e chi ragione, ma quello che è sicuro e che ogni NO toglie un passo alla guarigione comune. E questo è vero fintanto che condividiamo il pensiero aristotelico di essere animali comunitari. A proposito lo Stagirita, in Politica così definisce l’uomo : <<zoon politikòn>>, un animale politico che << per natura è destinato a vivere in comunità>>. E’ dunque evidente che se ciascuno di noi facesse propria tale definizione e si pensasse parte di questo insieme e di esso s’immaginasse rappresentare il punto iniziale capiremmo che basta un nostro comportamento sbagliato per creare conseguenze sempre crescenti. Ed è, mi pare, proprio quel che è successo con la pandemia da Covid 19: novembre 2019, primo focolaio (almeno così sembra ) a Wuhan (Cina) che da caso singolo rapidissimamente si è diffuso a tutta la popolazione dando il via a quello che nel giro di poche settimane è diventato, inizialmente, un contagio solo intraterritoriale per poi, progressivamente, varcare i confini nazionale e tragicamente coinvolgere il mondo intero. Così facendo, il contagio iniziale di un singolo individuo ha dato vita, seguendo il famoso “effetto farfalla”  ad  un uragano dall’altra parte del mondo. Qui, non si tratta di colpevolizzare qualcuno ritenendolo l’untore e di conseguenza richiederne la sua condanna poiché se si va per questa via, non si arriva mai alla fine dell’inseguimento e si fomentano solo scintille di collera prima personali, poi sociali e vista l’espansione della malattia pan-nazionali. Ed è risaputo che ogni qualvolta si trascendono i confini delle nazioni qualsiasi  gesto si snatura e si carica di pregiudizi ideologici che alimentano solamente situazioni deflagranti. Seguendo questo itinerario, è indubbio come le azioni di ciascuno di noi, assumano, nella loro attualità, una portata e una rilevanza pandemica, il che intende dire che il mio No alla vaccinazione, là dove sono in gioco la vita e la morte degli Altri non è più solo una faccenda mia, personale ma legata a quel senso comune che aristotelicamente ci rende una comunità. Ed è proprio nei termini di  “comunità” che deve essere pensato il “dovere alla vaccinazione” dove ogni valore personale, autonomo va perso a vantaggio della collettività. A tale proposito, mi fa piacere, ricordare quanto scrive il filosofo Umberto Galimberti: <<Il processo di guarigione, e questo non solo presso i Dangaleat ma in tutte le società primitive, non si svolgeva come oggi da noi in quel  rapporto duale, ma non reciproco, che si stabilisce tra medico e paziente, ma in uno spazio più ampio in cui tutto il gruppo prendeva parte alla cura distribuendosi attorno al male>>. E’ evidente che lo spazio cui si riferisce il filosofo non è un luogo chiuso, limitato, come le quattro mura di casa, oggigiorno luogo di confinamento, ma è tutto quello che c’è oltre, il mondo intero con tutta la sua popolazione dove a me sta accadendo qualcosa che sta accadendo anche a te, a te e a “tutta la comunità”. Perciò, se vogliamo salvarci, e lo vogliamo davvero, bisogna come i primitivi, distribuirci attorno al male e prendere parte alla cura. Ma, fin quando questa primitiva costumanza non sarà interiorizzata nella coscienza di ognuno di noi, nel profondo della nostra individualità e da qui assurgere a quella di tutto il gruppo, in modo da elevare la sfera privata, autonoma a rango universale, la cura non sarà possibile. Costruire un mondo così aperto agli Altri, per noi moderni è improponibile perché ciò implica annullare il nostro egoismo, il suo ossessivo autoriferimento, specchio fedele della moderna convinzione che noi siamo tutto e tutti e che possediamo il totale dominio della realtà che ci circonda. Per queste ragioni la vaccinazione contiene ben più significati di quanto la medicina suggerisca e, pertanto non è necessario scomodare l’antropologia per capire che basti operare un ripiegamento su se stessi, entrare in quel solipsismo in cui ognuno di noi si trovi e che ci accompagna quotidianamente, indifferenti, se non quando offensivi e violenti nei confronti di chiunque altro e da qui riappropriarci, senza tradire lo spirito, di quel senso unitario di gruppo, di quell’anima collettiva dei primitivi perché altrimenti, passata la pandemia, si potrebbe dire di essere rimasti ancora malati.
Mario Busuito