I depositi dei musei: stanze del tesoro da preservare o depredare?

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La pandemia da Covid-19 ha fatto emergere criticità e lacune nella gestione della cosa pubblica, evidenziando plasticamente il conflitto tra il mantenimento dello stato sociale e l’interesse economico dei privati.

Dalla sanità all’istruzione, i dissennati tagli compiuti negli ultimi decenni nel nome del neoliberismo rampante hanno presentato un conto altissimo. L’emergenza sanitaria ha squarciato il velo che ipocritamente copriva un drammatico divario, portando in superficie fragilità troppo a lungo sottovalutate o deliberatamente ignorate.
Anche il poderoso sistema museale italiano ha presentato una debolezza estrema, dovuta di certo alle  citate politiche di tagli e a riforme che hanno ampiamente delegato la gestione dell’inestimabile patrimonio comune ai privati, i quali non sempre si sono dimostrati all’altezza del compito.
I musei italiani scontano colpevoli ritardi accumulati nei processi di innovazione e digitalizzazione, un elemento che li ha  penalizzati proprio durante i lunghi mesi di chiusura. Se qualche istituzione è rimasta fedele alla mission museale, mettendo in rete contenuti molto validi (visite virtuali alle collezioni permanenti e alle mostre, webinair, incontri virtuali tematici e approfondimenti culturali), troppi sono stati i musei che hanno semplicemente chiuso le loro porte al mondo esterno, impedendo di fatto la fruizione al pubblico delle opere d’arte. In questo lungo tempo sospeso, nel quale sono venute meno le interazioni con il mondo esterno, a qualcuno è venuto in mente di ripensare non solo il ruolo dei musei ma anche la funzione dei depositi museali. Vale la pena ricordare che su un totale di circa 55.000 musei nel mondo, il 90% del patrimonio museale si trova in deposito, a fronte di un 10% in esposizione permanente.
E proprio sui depositi museali si è recentemente mosso l’assessore ai Beni Culturali e all’Identità siciliana, il leghista Alberto Samonà, il quale ha siglato un documento denominato “Carta di Catania”. Già il nome del documento stesso ci sembra un chiaro ammiccamento a ben altri, più noti e più significativi documenti che, nel passato, hanno contribuito in modo notevole alla tutela del patrimonio culturale. Pensiamo alle storiche “carte del restauro”, come quella di Atene (1931) o di Cracovia (2000), che codificano metodologie, principi e prescrizioni atti a guidare gli interventi, documenti scaturiti da complessi e articolati confronti internazionali. Ma il documento di Samonà nulla ha a che vedere nemmeno con la precedente “Carta di Catania” risalente al 2007 e avente come oggetto la codifica degli ecomusei (iniziativa questa dell’allora soprintendente Gesualdo Campo), tradotta in legge nel 2014, rimasta inattuata per cinque anni e recentemente sbloccata dall’attuale presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci.
Il decreto Samonà prevede che i beni culturali appartenenti alla Regione Siciliana e custoditi nei depositi regionali, potranno essere valorizzati attraverso l’esposizione in luoghi pubblici o privati aperti al pubblico; fortemente voluto dall’assessore leghista, il provvedimento va ascritto all’impegno della Soprintendente dei Beni Culturali di Catania, Rosalba Panvini (appena andata in quiescenza) che, in linea con i contenuti del decreto, aveva aperto i caveau della Regione per esporre nella Sala Pinacoteca del Museo Diocesano di Catania le importanti raccolte Urzì e Nicolosi.
I beni a cui si fa riferimento nella “Carta di Catania” sono quelli acquisiti per confisca, quelli donati o consegnati spontaneamente, quelli di vecchia acquisizione non più documentabili e, in generale, quelli deprivati di ogni riferimento al loro contesto di appartenenza. La concessione in uso dei beni culturali ricadenti in queste categorie e in giacenza nei depositi, sarà subordinata al pagamento di un corrispettivo che potrà avvenire, oltre che in denaro, anche attraverso la fornitura di beni e servizi destinati al patrimonio oggetto della concessione, o in favore di altri beni in giacenza nel medesimo deposito di provenienza o, ancora più in generale, attraverso azioni che mirano a proteggere e valorizzare il patrimonio regionale. Si prevede la predisposizione di un bando pubblico che dovrà stabilire i criteri per la concessione in uso, la quale potrà avere una durata compresa tra i due e i sette anni, prorogabile una sola volta.
All’indomani della firma  sul decreto, un euforico Samonà dichiarava trattarsi di “Un intervento rivoluzionario, grazie al quale migliaia di beni culturali, spesso non inventariati e conservati nei depositi dei musei e degli altri luoghi della cultura regionali, potranno essere finalmente esposti e fruiti da tutti. Il decreto, denominato “Carta di Catania” grazie all’attività encomiabile della soprintendente Rosalba Panvini che ne ha curato la redazione, onora l’impegno assunto insieme al Presidente Musumeci di consentire una maggiore valorizzazione del cospicuo patrimonio regionale”.
L’entusiasmo dell’assessore leghista è stato brutalmente smorzato da numerose polemiche sorte immediatamente dopo le sue dichiarazioni. Un coro di critiche al provvedimento si è alzato dal mondo politico e culturale, non solo siciliano. Tra i primi esponenti politici a sollevare obiezioni, i componenti del Movimento 5 Stelle in  V Commissione Cultura all’Ars Giovanni Di Caro, Stefania Campo, Ketty Damante, Roberta Schillaci i quali, insieme a Valentina Zafarana, hanno bollato il decreto assessorile firmato da Samonà come “pericolosissimo per i beni culturali siciliani”. I componenti della V Commissione Cultura hanno dichiarato “Così come è strutturato, il progetto è pericolosissimo. Con la cosiddetta carta di Catania e i decreti 74 e 78 ad essa collegati la Regione abdica al suo ruolo istituzionale di tutela, conservazione e valorizzazione dei beni culturali solo per fare cassa, facendosi sostituire da privati e altri soggetti pubblici e di fatto creando mostro giuridico tra prestito e concessione in uso che non è normato dal codice dei beni culturali”.
Altrettanto dura è stata la reazione a caldo di Claudio Fava, deputato e segretario del Gruppo Misto all’ARS, membro della suddetta V Commissione Cultura, il quale ha dichiarato “Ancora una volta dobbiamo registrare come il luogo comune che considera i depositi dei siti museali come semplici magazzini sia duro a morire. Preoccupa molto che questa visione sia portata avanti dall’assessore ai Beni Culturali della Regione Siciliana che, con un provvedimento del 30 novembre, rende disponibili all’uso privato i materiali conservati nei depositi dei musei regionali. Una scelta pericolosa ed avventata”.
Fava ha continuato:“Preoccupa, in particolar modo, la superficialità con cui ci si approccia ai beni in deposito come se si trattasse di vecchie cantine da “sbarazzare” e dei beni ivi contenuti trattati a modo di cianfrusaglie impolverate. In realtà i depositi sono inestimabili scrigni per le attività di ricerca e di studio, attività che rischierebbero di venir meno con una parcellizzazione dei reperti”.
I decreti 74 e 78 dell’assessore Samonà sono stati oggetto di vivaci discussioni proprio in seno alla citata V Commissione Cultura; sinora vi sono state ben 4 Audizioni dell’Assessore regionale per i beni culturali e l’identità siciliana in merito alla concessione in uso di beni culturali appartenenti al demanio e al patrimonio della Regione siciliana. Tutte le audizioni hanno visto la partecipazione di battaglieri giuristi, archeologi, studiosi e professori universitari.
Tra tutti, ricordiamo l’attento, puntuale intervento del professor Salvatore Settis, il quale aveva già pubblicato un articolo iper critico nei confronti del decreto assessorile, dal titolo quanto mai evocativo: “La Sicilia e la tutela scempio dell’arte”.
In V Commissione Cultura non sono mancati gli attacchi al provvedimento di Samonà da parte di Legambiente, Italia Nostra, Associazione Nazionale Archeologi, Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli di Roma, Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali. E ancora critiche dal coordinamento Sicilia di ICOM Italia.
Molto contrarie anche le posizioni di Sergio Foà, Ordinario di Diritto amministrativo all’Università degli Studi di Torino  e di Clemente Marconi, professore all’Institute of Fine Arts della New York University e ordinario di Archeologia Classica all’Università degli Studi di Milano.
La “Carta di Catania” ha sicuramente il merito di aver riacceso i riflettori sulla sorte dei depositi museali, troppo spesso ingiustamente penalizzati. Emerge con chiarezza la necessità e il dovere di conoscere, conservare, tutelare, valorizzare e comunicare in spazi e secondo modalità adeguate, anche il patrimonio attualmente stipato nei nostri depositi. Il deposito museale nasce con una funzione precisa: è il luogo di conservazione per eccellenza, in cui il manufatto viene mantenuto in sicurezza nel tempo, sempre a disposizione di studiosi e ricercatori. Le strategie di valorizzazione di una collezione e del suo museo possono e devono ripartire dal deposito. Oggi l’apertura al pubblico dei depositi può innescare virtuose modalità di fruizione innovativa: più libera, svincolata dalla curatorialità, meno legata a logiche di mercato, aperta ad un pubblico trasversale, partecipativo, curioso, aperto alle novità.
A testimoniare questa nuova tendenza, l’innovativo Muse di Trento; i corridoi laterali delle sale espositive di questo museo sono stati trasformati in depositi –laboratori, pienamente fruibili al pubblico che può assistere al lavoro delle professionalità coinvolte nello studio degli oggetti.
La rotazione delle opere d’arte in esposizione è una carta vincente, quella che potrebbe consentire a molti musei italiani di aver garantito l’interesse dei visitatori, anche dei locali. I musei, infatti, non sono semplicemente luoghi ove si raccolgono opere d’arte per poter staccare biglietti e creare economia. I musei sono luoghi in cui una comunità culturale può e deve  riconoscersi. Un concetto simile a quello della rotazione delle opere è quello posto in essere  da importanti istituzioni museali come il Whitney o la Tate Modern; qui le dirigenze hanno dichiarato che rinunceranno al vecchio concetto di “collezione permanente”. Ciò consentirà una logica di maggiore fruibilità delle opere in deposito, con la palese intenzione di convogliare un interesse continuo nei confronti dei visitatori. Si innesca così con il pubblico un circuito virtuoso di interesse e attenzione che potrà invogliarlo a tornare periodicamente.
Alla luce delle tante, interessanti esperienze di valorizzazione dei depositi museali, dunque, anche il provvedimento voluto da Samonà potrà trovare accoglimento, purchè rimodulato e ripensato,   tenendo conto delle giuste istanze presentate dai tanti esperti auditi in V commissione.
La politica tenga conto del parere degli esperti; la Regione non può abdicare al suo ruolo istituzionale di tutela, conservazione e valorizzazione dei beni culturali solo per fare cassa, facendosi sostituire da privati e altri soggetti pubblici e di fatto creando un paradosso giuridico tra prestito e concessione in uso. Auspichiamo l’apertura di inediti scenari nell’ambito museale in Sicilia. Si potrebbe cominciare ad attuare un maggior ricambio nelle collezioni permanenti, creando nuovi spazi e nuove modalità di fruizione per gli oggetti nei depositi, destinati finalmente ad una nuova vita.
Conoscere, catalogare, studiare e comunicare le opere presenti nei nostri depositi museali, significa tutelare, valorizzare e tramandare il nostro patrimonio culturale. La conoscenza è, infatti, il presupposto fondamentale per la tutela, la conservazione e la valorizzazione del nostro patrimonio, per attuare politiche di intervento mirate alla sua promozione e fruizione, pena l’oblio e la perdita dell’identità culturale.
Anna Maria Alaimo