La Sicilia e la guerra per il pesce nel Mediterraneo

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Tra le cose vecchie che congedandosi dal nostro tempo il Novecento non ha portato via con sé vi è la guerra per il pesce, combattuta nelle acque di quel «continente liquido» che è il Mediterraneo nella celebre e suggestiva visione di Ferdinand Braudel.

Privata e ignota definì questa guerra Carlo Levi, che al racconto dei suoi viaggi in Sicilia volle dare un titolo suggestivo e incisivo: “Le parole sono pietre”. Privata e ignota sono parole ma diventano pietre se accostate a questo strano e tragico conflitto che dal secolo passato agita il Mediterraneo e che il secolo presente ha abbandonato nell’archivio delle questioni invisibili e silenziose: lo guardiamo ma non lo vediamo, lo sentiamo ma non l’ascoltiamo. Di tanto in tanto, per nuovi accadimenti, l’incartamento che lo riguarda è ripigliato dai polverosi scaffali e aggiornato a futura memoria.
È quel che è capitato in questi oltre cento ultimi, incredibili giorni di silenzi e invisibilità ma anche di parole di libertà, scagliate come pietre contro la linea d’ombra dell’ipocrisia e dell’indifferenza che oscura le caratteristiche economiche, politiche, sociali e culturali di questa mal detta «guerra del pesce». 

Una trama che si ripete
Successe già nell’estate 2019: un peschereccio salpò dal porto di Mazara del Vallo, fu sequestrato da una motovedetta libica, l’equipaggio fu sottoposto a isolamento, intervennero i governi, infine il solito “tutto è bene quel che finisce bene”. È la vicenda del motopoesca “Tramontana” e del suo equipaggio, composto da sette pescatori: cinque mazaresi e due tunisini, al comando del capitano Nicolò Bono.
Una breve navigazione virtuale sul Mediterraneo fa emergere dai motori di ricerca molte altre trame simili: ecco quella del “Pindaro”, un peschereccio mazarese sequestrato da motovedette tunisine nel 2013; oppure il caso delle cinque imbarcazioni anch’esse salpate da Mazara del Vallo e sequestrate da motovedette egiziane nel 2012.
L’elemento inquietante che hanno in comune questo e altri episodi – e sul quale occorre fermare l’attenzione – non è soltanto la marineria di appartenenza degli equipaggi e pescherecci requisiti ma soprattutto quello delle relazioni diplomatiche, che intervengono solo in occasione delle azioni di sequestro. I governi, tra un sequestro e l’altro, non vedono, non ascoltano e dimenticano; anche per questo tutto si fa sempre più complicato, come documenta la dinamica della vicenda che si è appena conclusa: due pescherecci mazaresi sequestrati da motovedette libiche, l’intero pescato confiscato, saccheggi a bordo, diciotto pescatori incarcerati, diplomazie in movimento per oltre tre mesi.
Il fatto inedito, nella vicenda dei pescherecci “Antartide” e “Medinea”, è proprio quello di una così lunga durata delle interlocuzioni diplomatiche. Inedito e che si spera non sia accantonato insieme a tutto il resto nell’archivio delle questioni invisibili e silenziose cui si accennava prima. 

Il pescatore: lavoro rischioso e non valorizzato
Forse per le istituzioni la guerra del pescato nel Mediterraneo è silenziosa e invisibile anche perché scarsamente considerato è il mestiere di pescatore, nonostante egli porti il pesce nelle nostre tavole. Ancora oggi, ha ricordato il Segretario Nazionale della Uila Pesca Enrica Mammuccari, il pescatore è un lavoratore privo di un ammortizzatore sociale stabile, dello status di lavoro usurante e persino di tabelle aggiornate delle malattie professionali. I governi, insomma, non hanno fatto molto per riconoscere alla categoria dei pescatori garanzie e diritti che le altre categorie possiedono da oltre un secolo. Così il pescatore è costretto a lavorare fino a una certa età, corre il rischio di ammalarsi e di non vedersi riconosciuta la denuncia di malattia professionale, se non lavora per motivi non dipendenti dalla propria volontà non ha diritto ad alcuna tutela assistenziale. Quando sta in mare e sopravvive ai tanti pericoli del suo lavoro e agli speronamenti delle motovedette, corre il rischio di scomparire per collisione, come pare sia accaduto ai tre pescatori siciliani del motopesca “Nuova Iside”, che sembrerebbe sia stato investito il 12 maggio scorso da una petroliera in navigazione sul Mediterraneo, al largo di San Vito Lo Capo, provincia di Trapani. Del resto proprio sulle acque del Mediterraneo, che equivale all’1% dei mari del pianeta, si convoglia il 28% del traffico mondiale di petrolio. Di questo “passaggio” pare non resti niente ai paesi e alle regioni rivierasche delle due sponde, se non i fascicoli concernenti pescatori inspiegabilmente dispersi e pescherecci misteriosamente affondati.

Condizioni di un ambiente, cifre di un’economia, numeri di un conflitto
Rimane pure l’inquinamento da idrocarburi, che combinato con il progressivo innalzamento della temperatura superficiale dell’acqua, l’incremento della popolazione ittica emigrata dai mari caldi, il minore apporto di acque dolci dai fiumi che pregiudica la salinità delle foci, il fenomeno di erosione delle fasce costiere, crea la tempesta perfetta che campeggia minacciosa all’orizzonte; incombente simultaneamente alla guerra del pesce sulla vita dei pescatori, sullo stato di salute dell’ecosistema acquatico, sull’economia del mare.
Un’economia, quella ittica, che detiene sempre una grande considerazione socioeconomica nel Mar Mediterraneo. Dati Eurostat di qualche anno fa rilevano che nel “Mare di mezzo” si pesca l’1,7% delle catture mondiali che però, per la pregevolezza delle specie pescate, equivale al 4% del valore. In ambito comunitario si registrano cinquecentomila catture, dovute a centodiecimila pescatori e quarantamila pescherecci. Duecentosessantamila tonnellate è il valore delle catture in Italia, che equivalgono a una produzione di oltre 992 milioni di euro, tra le prime in Europa.
Sulle condizioni dell’ambiente e sulle cifre dell’economia premono i numeri di un conflitto che in mezzo secolo ha procurato: tre pescatori morti e ventisette feriti sotto il fuoco delle marine militari; trecento pescatori passati dalle carceri di Libia, Tunisia, Egitto, Algeria; centocinquanta pescherecci sequestrati dei quali sette confiscati. Alla grave e irreparabile perdita di vite umane si aggiunge il danno economico e sociale di cento milioni di euro comprensivo delle somme pagate per il riscatto delle imbarcazioni. Sono numeri resi noti nel 2017 in una riunione del Distretto Siciliano della Pesca e Crescita Blu sulla quale si tornerà tra poche righe.

Genesi e sviluppo di una guerra
Fonti storiche fanno risalire l’inizio del conflitto al momento di grande espansione dell’economia ittica a Mazara del Vallo, tra il 1967 e il 1968, quando la flotta della città siciliana diventa la più attrezzata d’Italia con i suoi quattrocentocinquanta pescherecci che salpano dalla sua costa.
Le medesime fonti indicano il luogo d’origine della guerra in una distesa di bassi fondali situata a sud di Lampedusa e a est delle coste tunisine. È la zona di pesca più ricca del Mar Mediterraneo, denominata Mammellone perché vista sulla carta nautica mostra la forma di una grande mammella. La prima causa del conflitto altro non è che una sorta d’incomprensione (spesso voluta) sul regime e sul limite di questo tratto di mare.
Situato in acque internazionali, ben di là dalle acque territoriali tunisine, nel 1951 il Mammellone fu considerato dall’allora Bey di Tunisi, con proprio atto unilaterale, come zona di pesca riservata e di ripopolamento ittico e dunque vietata ai pescatori italiani. Fu avviato allora, dal Governo italiano, un percorso di trattative con il Governo tunisino sui permessi di pesca che si concluse nel 1962: con il riconoscimento del divieto di pesca nella zona da parte degli italiani e del diritto dei tunisini di farlo rispettare.
Tunisi concesse i primi permessi di pesca per un certo numero di barche e per un certo periodo dell’anno e gli armatori mazaresi distribuirono a turno il permesso ai comandanti dei motopesca. Il riconoscimento del divieto fu poi sancito dal Governo italiano con proprio atto del 25 settembre 1979. Fu questo il periodo dei primi incidenti, dei primi sequestri, dei primi morti, dovuti al fatto che i mazaresi continuarono a pescare ai bordi del Mammellone mentre i tunisini continuarono a sorvegliare; da qui lo scambio di accuse e contro accuse per sconfinamenti veri o presunti, volontari o involontari, con i pescherecci abbordati in quelle che i tunisini considerano acque di loro proprietà e i pescatori siciliani acque internazionali.
Nell’ultimo decennio del Novecento comincia la seconda parte del conflitto, che è sopravvissuto al primo ventennio del secolo corrente e si è contemporaneamente esteso.
Nel 1982 la Convenzione del Diritto del Mare introdusse delle zone economiche esclusive fino al limite di 200 miglia (anche se, com’è stato osservato, la conformazione del Mar Mediterraneo non permette l’istituzione di Zone Economiche Esclusive di 200 miglia da parte di uno Stato rivierasco senza che essa non determini contenzioso con gli Stati della sponda opposta). Nel 1997 i Paesi arabi aderenti al Consiglio Generale della Pesca per il Mediterraneo – Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Siria – adottarono una dichiarazione comune inerente alla creazione di Zone Economiche Esclusive nel Mediterraneo. In seguito, nel 2005, la Tunisia istituì la propria Zona Economica Esclusiva e la Libia dichiarò come proprie le acque che si estendevano fino a 74 miglia dalla costa. Si tratta di dichiarazioni e istituzioni sopravvissute ai regimi che le adottarono, tuttora considerate valide dai governi attuali, che continuano a generare incomprensioni e forme di conflitto sempre più esasperate e di lunga durata, mentre altri Stati pretendono Zone Economiche Esclusive: dall’Algeria alla Turchia e alla Croazia.
Intanto gli Organismi internazionali tacciono e Coldiretti ha pubblicamente ricordato, qualche mese fa, che accordi come quelli stipulati tra Libia e Italia nel 2009 e nel 2011 sono ancora oggi inattuati. Qui, però, si entra in un diverso ambito del più generale contesto della guerra per il pesce. La seconda parte del conflitto, infatti, iniziata subito dopo la caduta del Muro di Berlino, mentre il mercato si andava globalizzando, ha evoluto le dimensioni e motivazioni della guerra mantenendola a maggior ragione nel girone del silenzio e dell’invisibilità.

Mercato globale e conflitto locale
Quello per il pesce, infatti, è rimasto un conflitto locale ma combattuto in un mercato nel frattempo diventato globale. Nel mercato globale, a chi giova questo conflitto locale? Per tentare di dare una risposta è necessario guardare al nuovo contesto e alla nuova disposizione delle forze in mare. Nel quadrante troviamo da una parte i sei Stati membri dell’Unione Europea: Spagna, Francia, Grecia, Malta, Cipro, Italia; dall’altra parte i paesi nordafricani e della sponda orientale. Il quadrante è spesso invaso da flotte battenti bandiere giapponesi, coreane o di comodo, che pescano oltre i limiti delle acque territoriali approfittando della mancanza di qualsiasi controllo.
La pesca degli Stati europei è regolamentata, al contrario di quella dei Paesi extraeuropei. L’Unione Europea, però, ha praticato interventi di tipo tecnicista nell’opera di razionalizzazione della pesca, rinunciando alla strategia politica della concertazione con le categorie e della cooperazione con gli altri Stati. È prevalsa la linea delle misure tecniche su maglie, reti, attrezzi che non soltanto ha lasciato in ombra tutte quelle questioni che dal secolo scorso attendono risposte e strategie funzionali alle caratteristiche sociali, economiche, culturali di entrambe le sponde del Mediterraneo; ma addirittura ha provocato una drastica riduzione dell’occupazione che si è tradotta nella perdita di quattordicimila posti di lavoro.
Per spiegare meglio quanto accade, si cita qui il caso del bando totale per le flotte europee delle reti derivanti spadare mentre i motopesca extraeuropei continuano la loro attività; tutto ciò ha provocato squilibri sul mercato del pesce e perdita del lavoro per ottomila pescatori nel Mezzogiorno d’Italia.
A voler pensare male si potrebbe inquadrare tale pratica nella ragion di stato europea. Giovanni Andriolo ricordava qualche tempo fa l’importante interscambio dei prodotti ittici tra il Marocco e l’Unione Europea. Nella commercializzazione del pesce il Marocco esporta nell’Unione Europea per un valore di 766 milioni di euro; importa dall’Unione Europea per un valore di 113 milioni di euro; la pesca non regolamentata ha i suoi vantaggi economici anche per l’Unione Europea?
Ma vi è un’altra ragione da considerare: la differenza tra pesca mediterranea e pesca nord-europea. La pesca mediterranea è di tipo artigianale e multi-specifica, ossia selettiva; invece la nord-europea è industriale e mono-specifica, ossia basata sulle catture massive di singole specie, la cui esistenza è così messa a repentaglio.
La guerra per il pesce nel Mediterraneo s’intreccia con il conflitto tra questi due diversi sistemi di pesca e modelli di produzione ittica. L’impostazione prevalente, al momento, sembra sia quella di affermare come modello e sistema unico quello nord-europeo, marginalizzando la pesca artigianale. Vittime di questa impostazione sono gli stessi pescatori che subiscono la guerra per il pesce; la pesca mediterranea, infatti, a differenza della nord-europea, è a forte intensità di manodopera e sono i lavoratori a essere espulsi dall’attuazione di tecniche e regolamenti provenienti dall’Europa settentrionale. 

Groviglio di questioni
Ma le lotte tra pesca regolamentata e non regolamentata, tra pesca artigianale e industriale non sono le sole a intrecciarsi nel Mediterraneo con la guerra per il pesce. Va aggiunta, infatti, la cosiddetta “emergenza sbarchi”, con la quale i destini dei pescatori siciliani s’incrociano con il destino dei migranti. Vi è poi la questione libica e la lotta tra le due contrapposte fazioni, che per la prima volta ha gravato sul sequestro dei pescatori mazaresi come elemento di pressione politica a uso interno. Vi è infine la guerra per il gas, che coinvolge Turchia e Grecia e nel Mediterraneo orientale Libano e Israele, senza contare le recenti scoperte di giacimenti in Egitto. Più il tempo passa, dunque, e più la guerra per il pesce rischia di aggravarsi trasformandosi in fattore di tensione funzionale ad altri conflitti.

Parole che diventano pietre
Forse bisognerebbe ricominciare da una proposta del compianto Giovanni Tumbiolo, indimenticato Presidente del Distretto Siciliano della Pesca e Crescita Blu, che nel 2017 propose di superare la guerra del pesce prendendo la rotta della cooperazione scientifica e produttiva fra le sponde nord e sud del Mar Mediterraneo, attraverso l’elaborazione di progetti condivisi nell’ambito di una “Blue Economic Zone”. Parole, quelle di Tumbiolo, che sono pietre scagliate contro il drammatico statu quo.
La vicenda dei diciotto pescatori mazaresi, grazie al cielo e a quelli che Hanna Arendt definiva “piccoli miracoli dell’uomo”, si è conclusa bene. Subito il lieto fine è stato accostato alla festa natalizia. Continuando la metafora, ci si deve augurare che la liberazione di questi diciotto lavoratori non sia considerata come un regalo di Natale da scartare e via. È un’occasione, offerta dalla storia, per riflettere e agire affinché fatti come quelli accaduti non accadano mai più; affinché la guerra per il pesce abbia fine; affinché la passione, l’energia, i buoni propositi messi in campo da tutti in questi giorni tremendi (sindacalisti, politici, religiosi, istituzioni), non siano nuovamente riposti, insieme all’incartamento sulla guerra del pesce, nell’archivio delle questioni silenziose e invisibili fino al prossimo sequestro.
Michelangelo Ingrassia