Inizia la storia: nel 1595, Don Giuseppe Branciforti compra nella Piana della Bagaria una masseria

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Nel 1595, Don Giuseppe Branciforti di Raccuja, principe di Leonforte e Pietraperzìa, barone di Tavi, Pretore e Vicario Generale di Sicilia, nonché Toson d’oro, comprava, nella Piana della Bagaria, da un certo Benedetto Rizzo,

una masseria di considerevole consistenza e ricchezze, confinante con le trazzere Vallone del Fonditore e De Spucches e la Consolare Marsala-Messina.
E’ a partire da quest’ultima che il Branciforti, fa tracciare un lungo viale di accesso (oggi strada urbana denominata Via Ignazio Lanza di Trabia) e inizia la costruzione, articolata a mo di Castello Fortificato, intorno ad un nucleo centrale rettilineo.
Due torri merlate poste in asse ai due prospetti principali, interrompono i corpi bassi, attorno all’edificio centrale, a formare due corti interne, contrapposte ai prospetti principali.
La Torre Palermo, ancora esistente, aveva originariamente, camere che custodivano la collezione di armi, pezzi di arredo e oggetti preziosi; ancora visibile è la bella scala a chiocciola interna.
Il fornice di questa Torre costituiva l’ingresso principale, sopra il quale un verso ancora leggibile accoglie tuttora il visitatore con l’epigrafe “O CORTE A DIO” tratto dalla Gerusalemme liberata del Tasso, quale parte del sottile gioco barocco che rimanda alla citazione diretta.
Superato il fornice si apre la prima corte interna, una volta delimitata dai corpi bassi ad un piano, denominati  dammusi,  con tetto piano calpestabile per il camminamento della ronda.


Foto: Archivio Angelo Restivo.

Qui si trovavano il centimolo  (mulino con pietra per la macina a motrice animale), la vermicelleria (per la produzione della pasta), mentre gli altri dammusi fungevano da ricovero per uomini e animali.
Il corpo centrale della villa, costruito a forma di parallelepipedo ha sul prospetto occidentale, una bella scala ad una rampa, con sopra il portale una iscrizione che riporta fedelmente il passo della Gerusalemme liberata del Tasso “AL MIO RE NEL SERVIR QUAL’ASPRE E DURE/ FATICHE NON DURAI COSTANTE E FORTE?/ E SEMPRE IMMERSO IN IMPORTANTI CURE/ DELLE STELLE SOFFRII LA VARIA SORTE,/ FRA LE CAMPAGNE ALFIN/ SOLINGHE E SCURE/ SOVENTE MIRO AL MIA MORTE/ MENTRE VEDOVO GENITOR PER FATO RIO/ QUI INTANTO PIANGO E DICO: O CORTE A DIO”, di cui all’epigrafe d’ingresso. Possiamo immaginare sul prospetto principale seicentesco una ricchezza di apparati decorativi di cui oggi restano labili tracce.
La finzione letteraria si snoda lungo il percorso della Villa; sul prospetto orientale un’iscrizione posta sotto il busto dello stesso Branciforti, parafrasa un passo della Galatea del Cervantes: “YA LA ESPERANZA ES PARDIDA/ YUN SOL BIENME CONSUELA/ QUE IL TIEMPO,QUE PASSA, Y BUELA/ LLEVERA’ PRESTO LA VIDA”. Negli anni a seguire il Nostro, con queste epigrafi, scatenerà la fantasia dei tanti studiosi a venire, che lo vedranno rassegnato, segregato ed esule nella villa costruita a tal proposito.
La scala nel prospetto orientale verso Termini è a rampe gemelle ed ha nel piano nobile un bel portale decorato, arricchito oltre che dalla scritta che riporta al Cerventas, dal busto dello stesso Don Giuseppe, anima dell’apparato costruttivo e decorativo posto in essere.
Il Conte, tutt’altro che deciso ad abbandonare onori e oneri del regno, volle ornare la sua villa non solo con il sottile gioco barocco di cui abbiamo accennato, ma con la propria effige, per consegnare  ai posteri colui che volle costruire questo splendido manufatto. Così come chi oggi, stanco di vivere nella tumultuosa città, va a vivere nella più tranquilla campagna, anch’egli, continuava ad alimentare e accrescere la sua vita sociale e politica lontano dai frastuoni del regno.
La Torre Termini, intesa anche la libraria, era in asse e contrapposta a Torre Palermo. Negli anni demolita o caduta per incuria, pare che fosse dotata di loggia, mentre i dammusi a ridosso della stessa, a racchiudere la seconda corte interna, fungevano anche da carceri.
In questa corte si ipotizza fosse ubicata la Chiesa, oggi perduta. I dammusi invece ancora visibili sono stati ristrutturati, quando si è avviato il recupero della villa.
Dalle aperture sul prospetto orientale, si può accedere tutt’oggi, al piano terra del corpo principale, dove era ubicata la cucina grande, stanza terrana, credenza, magazzino del vino, la casetta terrana  per i servitori personali e il quartino dell’abate Farina. Non mancava certo la scala segreta che dal piano terra portava al piano nobile.
Le scale esterne, dalle quali con aperture in asse, si accede alla prima camera, o salone principale del piano nobile, sono state realizzate così come tutta la costruzione, con la pietra locale arenaria denominata “Pietra d’Aspra”.
Sulla parete interna del salone principale, è stato possibile recuperare per una piccola parte, lo stemma affrescato; le pareti e i soffitti oggi, privi degli originali decori, sono totalmente imbiancati.
Alla sinistra del salone, diverse anticamere e camerini, camera con il camino di marmo, camera di dormire, con un affresco ottocentesco a tenda, camerino per toletta. Alla destra, due altri camerini, sala da biliardo e galleria o sala così detta del Borremans di cui parleremo nel successivo articolo.
Sopra il piano nobile, erano ubicati due appartamenti autonomi, di cui uno già estensione dell’appartamento privato del Branciforti, con camera delle formelle, camerino dell’armeria e anticamere e ancora piccole scale segrete che dal piano nobile portavano al piano superiore.
È una intera corte che il nostro Don Giuseppe porta con se, non solo la servitù che di regola accompagnava le famiglie nobiliari, ma argentieri e ricamatori, artigiani esperti nella fattura di carrozze e decoratori:lavoratori specializzati che sono la strutturazione sociale  al di là da venire nel borgo bagherese (…). Una corte, fatta di uomini e idee mobili, che alla fine del Seicento assumeva le sembianze di “borgo stagionale”. (S. Montana “O Corte A Dio” Prime architetture barocche a Bagheria: Villa Branciforti Butera)
Raccuja la Nuova, cosi fu chiamato il villaggio che si formava (…) (nonostante il Branciforti non avesse mai fatto richiesta di “licentia populandi”), trova già nell’attività agricola degli abitanti la ragione economica del suo sviluppo (…) le prime case nacquero insieme all’edificio, schierandosi con ordine ai suoi piedi determinando degli spazi ben regolari intorno al castello. (V. Ziino, Contributo allo studio dell’architettura del ‘700 in Sicilia)
Erano ancora dammusi, ambienti unici a forma generalmente rettangolare usati sia per abitare, sia come stalle e di cui è ancora possibile trovare avanzi di costruzioni primitivi. Più di quaranta furono quelle edificate coeve al corpo principale e date a censo, fino ad arrivare a 103, alla fine del Seicento. All’esterno della linea dei corpi bassi Don Giuseppe, uomo dotto e raffinato, fa costruire un teatro, ancora esistente, ma che abbisogna di nuova ristrutturazione, di capienza tale da accogliere la sua gente, che amministrava da vero feudatario.
Alla sua morte Don Giuseppe Branciforti, lascia nelle sue terre della Bacaria o come da suo volere, Raccuja la Nuova,  una villa dotata di camere di rappresentanza, appartamento privato, servizi, stanze e quartini a uso dei familiari e dei stretti collaboratori. All’esterno del corpo residenziale, una chiesa con sacrestia, due torri, logge e loggette, teatro e giardini, un fondaco, un casino d’abascio, vari ambienti riservati ai lavoratori del villaggio, servizi e depositi (riposto del trucco, magaseno di ligname, selleria, firraria, camera della nivi, cucina dello statu, frustera, bocciaria, carrettiera vecchia e nova, credenza, cinti mulo, magaseno del vino, stalle e scuderia). (S. Montana op. ct.)
Questa Villa Branciforti, intesa da tutti Palazzo Butera.
Ma come, perché e chi, volle che l’edificio ereditato da Don Giuseppe Branciforti, divenisse Palazzo Butera, ne parleremo la prossima volta.

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