Fulco di Verdura, romanziere e artista: un duca siciliano alla corte di Coco Chanel e Salvator Dalì

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Potrebbe suonare nome inventato per un personaggio da romanzo quello di Fulco di Verdura duca di Santo Stefano e di Cerda, imparentato con Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Lucio Piccolo di Calanovella.

E inventata l’intera biografia di questo personaggio siciliano cosmopolita di cui la parte della vita nell’Isola, almeno quella che si conosce, è quella adolescenziale e della prima giovinezza protagonista nel suo romanzo autobiografico “Estate Felici” scritto in lingua inglese e pubblicato in origine in Inghilterra, prima di essere edito in Italia dalla Feltrinelli. Non si dirà alcunché di nuovo affermando che è mancata la seconda parte e forse persino una terza del “romanzo della vita”, o della vita come romanzo di questo straordinario artista che ha lasciato di sé impronte nei più imprevedibili settori dell’artistica, come della cultura di più settori, non solo in Europa. E  che dopo aver vagato da protagonista per mezzo mondo imponendosi come disegnatore di gioielli e suggeritore di mode in seno alla società del Jet-set di propria provenienza patrizia, non ha voluto trascurare di far tumulare le proprie ceneri nella città (Palermo) delle origini e delle “Estati felici” del suo bel romanzo, quasi a confermare con le ultime volontà un orgoglio di sicilianità, dopo mezzo e passa secolo di lontananza.
Fulco era nato a Palermo il 20 marzo 1899 ed è morto a Londra nel 1978. Rampollo di famiglia nobile di origine spagnola, (San Estaban de La Cerda), l’irrequieto artista ha lasciato Palermo, dove si può dire che si è formato culturalmente, quando aveva appena compiuto 26 anni, ed è andato ad abitare a Venezia per 24 mesi durante i quali non ha smesso di viaggiare tra Londra e Parigi. E a Parigi ha finito con il trasferirsi, dove, dal 1927,  ha cominciato a collaborare con Coco Chanel, la famosa creatrice di moda. È l’inizio della sua fama internazionale che, dieci anni dopo, nel 1937 da New York, dove frattanto si era ancora una volta trasferito, propone con maggiore incisività la propria specializzazione di disegnatore di gioielli, che sarà quindi la sua principale attività di artista apprezzato universalmente, grazie alla collaborazione artistica che fornirà al gioielliere Paul Plato.
Ancora per altri due anni americani di esperienza a Hollywood e altre conferme di successi nelle relazioni artistiche del raffinato ambiente esclusivo dove porta l’ esperienza doppia di modista e di disegnatore di gioielli, attività, quest’ultima che mano a mano sarà la principale, dopo il rientro in Europa e l’apertura, ancora a Parigi, di un proprio atelier, nel 1947. Seguiranno gli anni del sodalizio con Salvator Dalì che pare abbia influito nel suo stile personale di disegnatore di gioielli.       Ma nel 1970 la sua permanenza parigina finisce, ha deciso di trasferirsi definitivamente a Londra, dove scriverà in lingua inglese il suo romanzo Estati Felici, che sarà pubblicato con il titolo The Happy Summer Days A sicilian childhood, lo stesso romanzo autobiografico che nel 1977 sarà edito da Feltrinelli con il titolo che abbiamo qui ripetuto di Estati Felici. L’anno successivo, sempre  Londra, la fine dei suoi giorni.
È passato sotto silenzio il quarantennale della morte nel 2018 e si auspica che la prossima ricorrenza offra pretesto per ricordare questa figura insolita di siciliano cosmopolita dalle geniali imprese artistiche, oltre all’indiscutibile valore letterario e storico del costume che rappresenta il romanzo. Probabilmente non hanno stimolato entusiasmi le origini patrizie di questo siciliano da ricordare ma come dicevano i latini mors omnia solvit quando c’è da superare limiti scaturenti da pregiudizi che non dovrebbero offuscare aspetti che chiedono di occupare il loro spazio nella storia di una civiltà e di una stagione.
Qualcuno ha osservato, a proposito di Fulco, che l’indifferenza che la figura dello scrittore ha continuato a incontrare nella sua terra d’origine è la conseguenza non tanto di pregiudizi di classe quanto dalla stessa storia della vita del personaggio completamente estraneo ai problemi e alla realtà della sua terra d’origine. Ma questa valutazione non regge se è pur vero e inconfutabile che intanto il suo romanzo è totalmente ambientato a Palermo e della capitale regionale offre uno spaccato epocale di un settore, di un ambiente, di una classe sociale, elementi che sono storia e documento di un “come erano”, anche se non di un “come eravamo”. Ma un come erano che fa parte del tessuto di una civiltà locale con tutta la sua incidenza. Inoltre se si continua a far salvo il principio di storicizzare la presenza della nascita in un luogo, di un autore, di un artista, di uno scienziato, di qualcuno che ha lasciato, per dirla con il Manzoni del 5 maggio, una “impronta” particolare, non possiamo, per via di un pregiudizio politico o di classe sociale, cancellare il dato anagrafico. Sarebbe un inquinare i principi che invochiamo a carico di quanto definiamo storia. E a Palermo, a tal proposito c’è tutto un particolarissimo caso, quello di Giuseppe Maggiore, caso che non ha alcunché da dividere con quello di Fulco di Verdura, in quanto c’è di mezzo una macchia indelebile a carico dell’ex rettore dell’Università di Palermo e autore di Sette e mezzo, capolavoro narrativo di forte impatto letterario-storico, di cui l’editore palermitano Salvatore Fausto Flaccovio ha stampato diverse edizioni, negli anni immediatamente succedanei alla fine del Secondo  conflitto mondiale.
Orbene, non saremo noi a suggerire quale soluzione sarà più dignitosa  e idonea a far aprire, dopo tre quarti di secolo il “caso Maggiore” sicuramente per stigmatizzare quando dovrà essere disapprovato perché disapprovabile e persino obbrobrioso come la debolezza dell’intellettuale e scrittore, autore di saggi e altre opere creative, oltre al citato capolavoro, il Giuseppe Maggiore che ha firmato il manifesto fascista razzista contro gli ebrei. Ebbene? Un auspicabile convegno di studiosi sia costituto da due terzi addetti lumeggiare quanto il Maggiore abbia demeritato e demeriti a fronte della storia, e un terzo di relatori impegnati a esitare una scheda analitico critica sulle opere creative dello scrittore siciliano. Un momento di rispetto dei principi civili necessario per stabilire punti fermi di presa d’atto per la storia della letteratura italiana di autori dell’Isola con il vulcano attivo più alto d’Europa. Felic
Tornando a Fulco di Verdura concludiamo riportando un brano autobiografico tratto da Estati Felici  nel quale, parodiando un titolo joyciano, c’è un piccolo significativo angolo del “ritratto dell’artista da giovane”. Scrive Fulco:” (…) E io chi ero? Ero un ragazzino piuttosto robusto, ben piantato sulle gambe. Quasi sempre in moto, correndo, saltando su divani e poltrone o arrampicandomi sino in cima agli alberi più alti e cercando di stare in equilibrio a testa in giù. Però qualche volta, fermandomi di botto, mi lasciavo andare a vaghi sogni a occhi aperti e partivo per lontani magici orizzonti. Non pensavo mai all’avvenire ed ero perfettamente felice. A casa generalmente portavo un paio di pantaloncini di serge blu e una maglia a collo alto, stivaletti, e calzette perennemente cadenti. In estate una camicetta, pantaloncini di tela e sandali. Questi abbigliamenti erano chiamati “vestiti di casa”. Per uscire ero vestito, naturalmente, alla marinara.  Le uniformi arrivavano regolarmente da Londra, quella d’inverno di lana blu da Peter Robinson e quella d’estate di tela bianca a righini blu da Peter Jones.
Per dire la verità i calzoni dei “vestiti di casa” erano semplicemente quelli nautici dell’anno prima. I due mitici Peter londinesi stuzzicavano la mia fantasia e mi chiedevo se Jones passasse l’inverno in letargo come gli orsi e se Robinson si squagliasse al primo sole di primavera per rinascere in autunno. Il mio copricapo era, secondo le stagioni, un berretto da marinaio o un cappello di paglia dalle larghe falde tenuto in testa per mezzo di un elastico che, a forza di essere masticato, diventava sempre troppo lungo ed era raccorciato da me con piccoli nodi sotto il mento.
Io ero così. O piuttosto così rammento di essere stato in quei distanti anni assolati. Amavo molto disegnare, o meglio scarabocchiare, inventavo paesi tracciandone le mappe con montagne, fiumi,lagni, golfi ed isole.
Più tardi cominciai a disegnare vedute di città con monumenti, chiese ed il Palazzo Reale, non concependo a quell’epoca altra forma di governo. Per questi reami inventavo re, regine e ministri che spesso avevano gli stessi nomi dei nostri animali (…)
È un esempio nel quale troviamo in nuce quello che abbiamo saputo della vita da grande di questo “nobil uomo” nato e cresciuto nella bambagia di tutti gli agi e fruendo di condizioni di piena agiatezza e lusso che non susciteranno empatie nell’animo di tutti i critici e i colleghi scrittori. Ma questo è un discorso impertinente e non riguarda il valore dell’artista e il “titolo” che potrà vantare la città e la regione dove è nato.
Mario Grasso