Livia De Stefani, scrittrice sicilianissima che lasciò la propria patria per amore

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Si potrebbe scrivere una storia d’amore di singolare effetto per realizzarne una fiction sulla vita e le opere della scrittrice palermitana Livia De Stefani (Palermo, 1913 – Roma 1991).

Cominciamo con l’osservare che al contrario di tutti i casi di scrittori, poeti, intellettuali e artisti siciliani, che hanno lasciato l’Isola e non vi sono più tornati nemmeno per occupare un posto nel cimitero della città dove erano nati, il caso di Livia De Stefani è stato di chi lascia la propria patria per amore. L’amore di una ereditiera diciassettenne, per  un artista proprietario del lussuoso hotel Flora di via Veneto a Roma. Ed ecco un romanzo rosa da trasformare in fiction descrivendo le ricchezze della famiglia della De Stefani, figlia di proprietari terrieri palermitani, frequentatori della mitica via Veneto della capitale e dell’altrettanto mitico hotel Flora. Qui la giovane futura scrittrice viene notata per la sua bellezza ed eleganza dal giovane proprietario, undici anni più grande e già in predicato di  fama nazionale di scultore e medaglista. I due si innamorano e la giovane Lidia non esita a seguire il marito al quale darà tre figli. Una vita di artisti si apre alla coppia serena e legatissima nell’affetto coniugale che caratterizzerà la loro vita fino a influenzare il momento della morte della intristita sensibilissima moglie (1991)  a distanza di un sol anno dalla scomparsa  del marito, avvenuta nel 1990. Più che una trama inventata sarebbe una evocazione dal vero, e farebbe onore alla memoria di due artisti degni di essere ricordati e celebrati in chiave della loro storia d’amore e di arte. Probabilmente se Livia fosse rimasta in Sicilia nella gabbia dorata dei ricchi genitori  proprietari di feudi avrebbe rischiato di finire per ripetere, in quegli anni trenta del secolo scorso il caso di Mariannina Coffa.
L’ambiente romano invero  non è che abbia influenzato la produzione letteraria della scrittrice, anche se le frequentazioni del marito erano tutte di prim’ordine in campo intellettuale e artistico, a cominciare dalla quasi quotidiana presenza di Alberto Savinio, che della scrittrice è stato ammiratore e un poco mentore incoraggiatore. Non c’è traccia di “ vita romana” nei romanzi della De Stefani, al contrario tutto è un continuo legame di memorie e riflessioni con l’adolescenza siciliana: dal suo romanzo d’esordio a quello esitato un anno prima delle morte, un ininterrotto fil rouge di vita e ambienti isolani, costume e realtà antropologica di una Sicilia che la scrittrice dimostra di sentire pulsare nel proprio cuore.
Chi scrive questa nota ha avuto un paio di occasioni che hanno agevolato conoscenza personale con la siciliana-romana che aveva esordito da romanziera, dopo la pubblicazione di una plaquette di poesie nel 1937, all’età di 38 anni. Esordito con la narrativa in seguito a un particolare che ha di per sé altri spunti romanzeschi: aveva letto sul rotocalco settimanale Oggi del 3 maggio 1951 un articolo del giornalista palermitano (di origine catanese) Giuseppe  Quatriglio (presto ci occuperemo, con un medaglione, del caro indimenticabile  e compianto amico giornalista, narratore, e saggista che fu fedelissimo e distintissimo terzapaginista del Giornale di Sicilia). attratta dal titolo. “Un dramma greco sconvolge Mazzara del Vallo, un mistero pesa sulla morte di una ragazza di diciassette anni”.
Da tutto l’intrigo tragico di quella storia siciliana prese spunto Livia De Stefani per scrivere il suo primo romanzo, La vigna di uve nere che sarà pubblicato nel 1953 da Mondadori. Ed erano gli anni in cui esplodeva in letteratura la “bomba” della narrativa femminile di Ortese, De Cespedes, Milena Milani, e la voce della De Stefani tra queste con una sua cifra personalissima e con un mondo di realtà sicule come miniera cui la palermitana romanizzata e madre di tre figli, con matrimonio felice e marito artista di fama internazionale, muoveva i suoi primi passi con successo di critica e di lettori. Successi che saranno ripetuti per ogni successiva opera sempre originale sempre con sfondo e base dei contenuti ispirati da cronache e mentalità  in Sicilia. Contenuti che hanno orientato Luigi Russo a scrivere in post-fazione a “La vigna di uve nere” : “  (…) raffinata descrittrice di un mondo siciliano complicato e morboso che traeva alimento ai propri miti aberranti da premesse avite. Agorafobie, complessi edipici e altrettante inibizioni costituiscono il tessuto dei suoi racconti tanto scostanti nel mondo rappresentato quanto attraenti per il modo di insinuarvisi e di descriverli.”
Non sono mancati i momenti di un avvicinamento a istanze rivolte ai codici di scrittura. Ma anche per questo aspetto di carattere filologico la De Stefani ha dimostrato una coerenza con i canoni linguistici dei luoghi in cui veniva ambientando le proprie narrazioni. Insomma, una scrittrice attenta alle “mode” del momento tra avanguardie e ricerche linguistiche (ci sarebbe stato a fine anni Cinquanta l’esordio di Gadda con il Pasticciaccio) ma senza farsene condizionare più di quanto avrebbe offerto la curiosità e il potere dimostrare con qualche “sperimentazione” molto personale in un momento della sua narrativa, poi non più ripreso.
Vantaggi rispetto ad altri scrittori siciliani vengono dimostrati nei nostri giorni dal fatto che i romanzi della De Stefani continuano a essere ristampati, sicuramente occasione che non capita a tanti altri suoi colleghi palermitani, a cominciare da Angelo Fiore per continuare con altre firme di narratori nati in altre province dell’Isola, dove si destinano all’oblio, dal palermitano Glauco Licata antesignano tra gli scrittori di mafia, con “I Musumeci di Bagheria”, di poco posteriori a Il giorno della civetta del grande sempre più grande Sciascia, all’agrigentino Gaetano Riggio de “La saracena”, al messinese di Ficarra, Michele Mancuso de “La gente se ne va”. Tutto un album di voci di esclusi non tutti della grandezza di Angelo Fiore, questo si dovrà dire e premettere. E ancora, la catanese Goliarda Sapienza, il siracusano di Palazzolo Acreide, Giuseppe Rovella, il ragusano Raffele Poidomani di “Carrube e cavalieri”, per dire dei primi nomi che ci vengono in mente, questo è chiaro e qui si conferma per ribadire come sia nel più (Angelo Fiore in testa) che manca lo stesso oblio del meno da riscoprire. O da ricordare con doverosa insistenza, come per il caso letterario della sicilianissima Livia De Stefani.
Opere pubblicate e data di quelle ripubblicate: Preludio (poesie), Palermo, Ciuni, 1940; La vigna di uve nere, Milano, Mondadori, 1953; Gli affatturati (racconti), Milano, Mondadori, 1955; Passione di Rosa, Milano, Mondadori, 1958; Viaggio di una sconosciuta, Milano, Mondadori, 1963; La signora di Cariddi, Milano, Rizzoli, 1971; La stella Assenzio, Milano, Rizzoli, 1975; La mafia alle mie spalle, Milano, Mondadori, 1991; Viaggio di una sconosciuta, Roma, Cliquot, 2018.
Mario Grasso